The Law and Technology Consortium (LTC) is an international and informal consortium of research centers and institutions seeking to establish a collaborative network between members and share scientific knowledge and expertise in the field of law and technology.
The LTC is coordinated by Prof. Roberto Caso (University of Trento, Italy, Faculty of Law, LawTech research Group), Prof. Pierre-Emmanuel Moyse (McGill University – Faculty of Law), Prof. Gideon Parchomovsky (University of Pennsylvania, United States, School of Law; Hebrew University of Jerusalem, Israel, Faculty of Law), and Prof. Christopher Yoo (University of Pennsylvania, United States).
The 2023 LTC was organized by Prof. Richard Gold (McGill University).
The 2019 LTC was organized by Prof. Roberto Caso (University of Trento).
Ieri, 3 maggio 2023 l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) ha scritto al Ministro Sangiuliano per chiere l’immediato cambiamento della politica ministreriale sull’uso delle immagini dei beni culturali a scopo scientifico. Per approfondimenti v. qui.
La lettera si legge qui e qui ed è riporodotto di seguito.
“Con questa lettera aperta l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) chiede l’immediato cambiamento delle politiche ministeriali in materia di uso a scopo scientifico delle immagini dei beni culturali.
Nell’Atto di indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche da realizzarsi nell’anno 2023 e per il triennio 2023-2025 (d.m. n. 8 del 13/01/2023) e nelle successive Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali (d.m. n. 161 dell’11/04/2023) si stabiliscono principi e regole che danneggiano la ricerca scientifica, contraddicono decenni di politiche di scienza aperta e di apertura del patrimonio culturale (politiche, peraltro, trasversali a governi di diverso segno politico) e pongono l’Italia fuori dagli indirizzi internazionali e dell’Unione Europea.
La nuova politica inaugurata dal Ministero della Cultura emerge dai seguenti principi contenuti nell’Atto di indirizzo sopra citato (corsivi aggiunti):
“L’attività dell’Amministrazione sarà volta alla tutela e alla valorizzazione, anche economica, del patrimonio culturale, materiale e immateriale; si lavorerà ad incrementare la capacità di automantenimento dei diversi istituti e luoghi della cultura in modo da ridurre il fabbisogno di finanziamento pubblico e, nel contempo, generare sviluppo economico per i diversi segmenti del sistema produttivo. […]
In particolare, occorre proteggere il patrimonio rappresentato dalle immagini, anche digitali, del nostro patrimonio culturale, attraverso un’adeguata remuneratività che tenga conto dei principi di cui agli articoli 107 e 108 Codice dei beni culturali e del paesaggio. In tal senso, appare essenziale definire un tariffario ministeriale, unico, distinto per macro-categorie di beni culturali, che definisca i minimi tariffari da applicare in occasione delle diverse forme di utilizzazione temporanea dei beni del patrimonio culturale ministeriale, anche ove esse sfruttino le moderne tecnologie (NFT, blockchain etc.)”.
Nell’allegato delle Linee guida sopra citate tra le riproduzioni di beni culturali e i riusi delle relative copie o immagini figurano anche quelli effettuati dall’editoria e dalle riviste scientifiche di settore in canali commerciali (online o cartacei).
Tale politica mira a ridurre il finanziamento pubblico, obbligando gli istituti di tutela del patrimonio culturale a impegnarsi nello sviluppo, a costi amministrativi e monetari non nulli, di una maggiore capacità di autofinanziamento. Si tratta di una politica errata nelle ragioni di fondo e ineluttabilmente destinata al fallimento come dimostra l’analoga “strategia” sperimentata nel settore dell’università e della ricerca pubblica.
Gli esiti assurdi e paradossali di questo nuovo indirizzo politico sono evidenti nel settore dell’editoria scientifica no profit delle case editrici universitarie e in quello della nascente editoria in accesso aperto (Open Access). Se le linee guida fossero interpretate alla lettera, occorrerebbe immaginare casi come quello in cui un museo statale chiede l’applicazione del tariffario a un’università pubblica per la riproduzione di immagini di beni culturali in pubblico dominio. Tale applicazione determinerebbe un inutile giro di denaro pubblico (dall’università al museo) senza alcun beneficio per le casse dello Stato e, anzi, con un aggravio dei costi per la pubblica amministrazione derivante dall’appesantimento burocratico del processo che conduce alla pubblicazione scientifica.
Questi atti normativi, come già si è detto, pongono l’Italia fuori dalla contemporaneità nonché dalle politiche internazionali, europee e nazionali volte a coniugare la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale con i principi della scienza aperta e dell’accesso aperto.
L’AISA chiede, per questi motivi, un’immediata modifica delle politiche ministeriali che vada nella direzione di una totale e assoluta liberalizzazione, senza pagamento di tariffe, della riproduzione e del riuso per scopi scientifici dei beni culturali del patrimonio italiano. L’AISA auspica inoltre la modifica del Codice dei beni culturali al fine di fissare per via legislativa il principio di libera riproduzione e libero riuso dei beni culturali per scopi scientifici”.
Busker Will Soto walks a tightrope at the sunset celebration in Key West, Fla. The sunset celebration at Mallory Square is a daily ritual for visitors to this subtropical island at the bottom of the Florida Keys island chain. Photo by Bob Krist/Florida Keys News Bureau
“La lezione mira a introdurre gli studenti allo studio dei limiti del diritto di esclusiva d’autore con riferimento alla dicotomia tra forma espressiva (protetta) e idee (non protette), nonché in riferimento alla citazione. La discussione tra docente e studenti si basa sul metodo casistico-problematico. Sono perciò discussi alcuni casi decisi da giudici italiani sulla base della normativa europea e italiana. Sono anche forniti cenni comparatistici al copyright statunitense e ai fondamenti filosofici del diritto d’autore”.
“Giudizi e decisioni che hanno effetti rilevanti sulle vite delle persone sono oggi affidati, in un numero crescente di ambiti, a sistemi di intelligenza artificiale che non funzionano. Tali malfunzionamenti non sono occasionali e non sono scongiurabili con interventi tecnici: essi rivelano, anzi, il funzionamento ordinario dei sistemi di apprendimento automatico, utilizzati impropriamente per compiti che non è loro possibile svolgere o che sono impossibili tout court.
Le decisioni basate su tali sistemi sono costitutivamente discriminatorie, e dunque, in alcuni ambiti, infallibilmente lesive di diritti giuridicamente tutelati, in quanto procedono trattando gli individui in base al loro raggruppamento in classi, costituite a partire dalle regolarità rilevate nei dati di partenza. Essendo radicata nella natura statistica di questi sistemi, la caratteristica di dimenticare i «margini» è strutturale: non è accidentale e non è dovuta a singoli bias tecnicamente modificabili. Ci si può trovare ai margini dei modelli algoritmici di normalità in virtù di caratteristiche totalmente irrilevanti, rispetto alle decisioni di cui si è oggetto.
Alla vasta documentazione degli esiti ingiusti, nocivi e assurdi di tali decisioni, le grandi aziende tecnologiche – paventando un divieto generalizzato – hanno risposto, in evidente conflitto di interessi, con un discorso sull’etica: è nata così, come operazione di cattura culturale, con l’obiettivo di rendere plausibile un regime di mera autoregolazione, l’«etica dell’intelligenza artificiale». Si tratta di una narrazione che le aziende commissionano e acquistano perché è loro utile come capitale reputazionale, che genera un vantaggio competitivo; è cioè un discorso, rispetto al quale le università hanno il ruolo, e l’autonomia, di un megafono; è «un’esca per catturare la fiducia» dei cittadini: un discorso pubblicitario che, in quanto declamato da altri, non appare neppure come tale.
La funzione di tale discorso è quella di tutelare, legittimandolo, un modello di business – fondato sulla sorveglianza e sulla possibilità di esternalizzare impunemente i costi del lavoro, degli effetti ambientali e dei danni sociali- il cui nucleo consiste nella vendita, alle agenzie pubblicitarie, della promessa di un microtargeting fondato sulla profilazione algoritmica.
Negli ultimi anni, l’opera di demistificazione della natura meramente discorsiva e del carattere strumentale dell’«etica dell’intelligenza artificiale», che trasforma l’etica nella questione della conformità procedurale a un «anemico set di strumenti» e standard tecnici, è stata così efficace da indurre molti a liquidare come inutile o dannosa – in quanto disarmata alternativa al diritto o vuota retorica aziendale – l’intera filosofia morale.
Al dissolversi della narrazione sull’etica dell’intelligenza artificiale, compare il convitato di pietra ch’essa aveva lo scopo di tenere alla larga: si sostiene infatti ora, da più parti, l’urgenza che ad intervenire, in modo drastico, sia il diritto. L’adozione di sistemi di apprendimento automatico a fini decisionali, in ambiti rilevanti per la vita delle persone, quali il settore giudiziario, educativo o dell’assistenza sociale, equivale infatti alla decisione, in via amministrativa, di istituire delle «zone pressoché prive di diritti umani».
A chi, in nome dell’inarrestabilità dell’innovazione tecnologica, deplori gli interventi giuridici, giova ricordare che il contrasto non è, in realtà, tra il rispetto dei diritti umani e un generico principio di innovazione, ma tra il rispetto dei diritti umani e il modello di business dei grandi monopoli del capitalismo intellettuale”.
On 30 December 2022, the Italian Supreme Court (Corte di Cassazione) issued an order that intervened again on the interpretation of the quotation exception under Article 70 of the Italian Copyright Act (l. 633/1941, l.aut.). The decision concerns an advertising campaign of a mineral water company. The commercial video promoting the mineral water features a humorous version of the Zorro character created by Johnston McCulley in 1919, but itself inspired by earlier literary figures such as Robin Hood and the Scarlet Pimpernel as well as, according to some speculation, Joaquin Murrieta, a California outlaw who lived in the 1800s. The company that owns the copyright on the Zorro character sued the mineral water company for copyright infringement.
The ruling of the order is the following:
“Parody must respect a fair balance between, on the one hand, the intellectual property right of the copyright holder on the work and, on the other hand, the freedom of expression of the author of the parody; in this sense, the reproduction of protected work may be justified within the limits inherent in the parodistic purpose and provided that the parody does not prejudice the interests of the owner of the original work, as is the case when it competes with the economic use of original work”.
Italian copyright law and parody
Italy has chosen not to introduce an ad hoc exception on parody in its copyright law, even when it could have proceeded so on the basis of InfoSoc Directive. Today, Italian law, following the implementation of Art. 17 (7) Copyright Directive 2019/790 (CDSMD), explicitly names exceptions and limitations for the purpose of caricature, parody and pastiche in Art. 102-nonies (2) l.aut., but this provision is specifically aimed at protecting the freedom of expression of Internet users when they upload and make available content they generate through online content-sharing service providers. In other words, it is not a general exception on parody.
Towards the Italian fair balance doctrine?
The case decided by the Corte di Cassazione provides an opportunity to reformulate the legal principle of prevalence of freedom of parody over copyright in the terms used by the Court of ustice of the EU (CJEU). The (magic) formula is the “fair balance between fundamental rights”. In the lexicon of the EU Charter of Fundamental Rights (CRF), this is the balance between intellectual property (Article 17(2)) and freedom of expression and information (Article 11).
In short, the EU-style fair balance doctrine officially becomes part of the interpretive and argumentative techniques of the Italian Supreme Court.
But there are some open issues.
a) What is the relationship between the CRF and the Italian Constitution in the field of copyright?
b) The CJEU coined and used the fair balance formula to give itself the power to conform with European copyright law. In the arguments of the Corte di Cassazione, is the formula destined to assume real weight in the outcomes of the next decisions?
c) In the CJEU’s case law, the fair balance doctrine has served to give flexibility to the interpretation of exceptions and limitations, otherwise condemned to the narrow spaces of restrictive literal interpretation. In judging the permissibility of parody, the Court must respect a fair balance between fundamental rights. If the message contained in the parody has discriminatory content, the Court must consider the author’s interest in not having his work associated with the discriminatory message (Deckmyn, C-201/13). Is the Corte di Cassazione willing to follow the CJEU on this path?
d) Is the fair balance doctrine destinated to become a kind of Euro-Italian fair use in disguise? The question is relevant because many are calling for the inclusion of an open-ended clause in the European regulatory framework, as for instance suggested by reCreating Europe’s project policy recommendations.
The devil – as always – is in the details. The prevalence of the right to parody is only tendential, as copyright wins again when the parodic work competes with the economic use of the original work. This ruling of the Corte di Cassazione is not fully convincing for two reasons.
(i) The criterion based on the competition with the economic use of the work is slippery. On the one hand, the sophisticated techniques of antitrust law aimed at defining the boundaries of the relevant market have no place in copyright law. On the other hand, imitation or reproduction for parodistic reason is not always a source of taking away the profits of the original work; on the contrary, it can produce the opposite effect, multiplying fame and revenues.
(ii) The fair balance test in this way weighs in favor of the intellectual property at the expense of the freedom of expression. This reasoning reflects a one-dimensional (economic) view of copyright, while the same is historically, philosophically, and positively multidimensional, because it is precisely closely related to freedom of expression and information.
Quotation or transformative use of unprotectable ideas?
A final remark. The formulation of a legal problem is never a neutral act since, in reflecting the political and ideological beliefs of the interpreter, it guides the solution. The case submitted to the Corte di Cassazione was formulated in terms of a quotation exception. But the problem could be formulated not with reference to the quotation exception, but to the principles of creativity and the dichotomy idea/expression.
Several arguments move in this direction. The protection of Zorro is invoked not in relation to a complex work, but a character inspired by other historical precedents. Assuming that the identifying and figurative elements of the character (the name Zorro, the blackness of the clothes, the mask, the hat and the sword) are creative contents, these elements are relocated in a humorous context that undoubtedly determines a new semantic meaning. They take in the autonomous parodic work a “transformative” meaning that they do not have in the original work. Such creative elements, if evaluated in the comparative analysis between parodied and parodistic work, lose their original character and end up becoming ideas, data, facts.
This way of reasoning has the advantage of looking not at the formal distinction between idea and expression (which is always difficult to govern), but at the purpose of a work that draws inspiration from one or more previous works while modifying their meanings. This advantage is evident, for example, in disputes over contemporary art, which is known to be more focused on ideas than expressions.
The purpose of copyright law is not only to create a market for intellectual works but also to ensure freedom of expression and information. This freedom fosters, in a democratic society, the dialogue between authors and the public, the development of a plural, diverse and inclusive culture as well as the fulfillment of the social function of the exclusive right and its limits. In this perspective, the analysis of the parody-copyright conflict cannot be trapped in a criterion based on formal parameters (the abstract distinction between idea and expression) or merely economic ones (competition with the economic use of the original work) that disregard the purpose of the parody.
Abstract. “La relazione è finalizzata a discutere il problema della concentrazione di potere di controllo ed elaborazione dei dati nelle mani di grandi imprese commerciali (big tech) che forniscono ai produttori agricoli servizi di agricoltura di precisione e smart farming. Il problema della concentrazione di potere di controllo ed elaborazione dei dati è già stato analizzato in chiave interdisciplinare in molti altri settori della c.d. era dei dati: ad es., nel settore della ricerca scientifica dove si delinea una disparità di potere tra imprese di analisi dei dati e istituzioni accademico-scientifiche (università e centri di ricerca).
La relazione è divisa in tre parti.
Nella prima parte si riassume il dibattito sul capitalismo dei monopoli intellettuali e della sorveglianza. Tali monopoli traggono la loro forza dalla proprietà intellettuale e dalla pseudo-proprietà intellettuale (forme anomale di esclusiva che si basano, ad esempio, su contratto e misure tecnologiche di protezione).
Nella seconda parte si descrive la peculiarità delle dinamiche di potere nel settore agricolo con riferimento ad agricoltura di precisione e smart farming. La normativa europea in materia di dati sembra essere insufficiente a risolvere il problema della disparità di potere, in quanto non scioglie alcuni nodi di politica del diritto che attengono al rapporto tra settore pubblico (stato) e settore privato (imprese) e riguardano la regolazione della proprietà intellettuale e della pseudo-proprietà intellettuale.
Nella terza parte, muovendo da un’analogia con il settore della ricerca scientifica, si propongono alcune raccomandazioni di politica del diritto su infrastrutture tecnologiche e regolazione della proprietà intellettuale”.
Abstract: La lezione intende innescare un dialogo tra docente e studenti sull’attuale panorama del diritto d’autore sulle pubblicazioni scientifiche (ad es., articoli pubblicati su riviste, capitoli di libro). Il dialogo può prendere spunto dalle discussioni in atto sull’uso della c.d. intelligenza artificiale generativa per produrre testi scientifici. Si discute su quali siano gli strumenti più efficaci per riconoscere un testo scientifico generato da intelligenza artificiale. O ancora, si discute se nella lista degli autori di un articolo scientifico debba figurare il programma di intelligenza artificiale. Queste discussioni rappresentano il punto di partenza di un ragionamento che dovrebbe condurre a maturare una riflessione critica sull’influenza che le imprese commerciali e in particolare gli oligopoli dell’era digitale esercitano sulla scienza e sull’università. Ad essere a rischio sono non solo le università e la ricerca scientifica no profit, ma anche la tenuta stessa delle società democratiche.
Abstract: La controversia oggetto di Cass. Sez. I civile ord. 30 dicembre 2022 n. 38165 riguarda una campagna pubblicitaria di un’impresa produttrice di acque minerali. Lo spot di un’acqua minerale vede come protagonista una versione umoristica del personaggio di Zorro creato da Johnston McCulley nel 1919, ma a sua volta presumibilmente ispirato a precedenti figure letterarie (come Robin Hood e la Primula Rossa) nonché, secondo alcune ipotesi, a Joaquin Murrieta, un fuorilegge californiano vissuto nell’800. L’impresa titolare del copyright sul personaggio Zorro fa causa all’impresa produttrice di acqua minerale per plagio-contraffazione. Il caso offre alla Cassazione l’occasione per riformulare il principio giuridico di tendenziale prevalenza della libertà di parodia sul diritto d’autore nei termini utilizzati dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea. La formula (magica) è quella del «giusto equilibrio tra diritti fondamentali». Nel lessico della Carta di Nizza si tratta del bilanciamento tra proprietà intellettuale (art. 17.2) e libertà di espressione e informazione (art. 11).
https://en.wikipedia.org/wiki/Rogers_v._Koons#/media/File:Rogers_v._Koons.jpg Art Rogers, Jeff Koons – https://jennydodge.wordpress.com/2014/10/08/legal-ethical-issue-rogers-v-koons/ Copyrighted images subject to the notable US copyright case Rogers v. KoonsImmagine generata tramite https://stablediffusionweb.com/#demo immettendo le parole “Marcel Duchamp”
“Il Gruppo LawTech della Facoltà di Giurisprudenza organizza una serie di seminari su temi connessi al rapporto tra diritto e tecnologia nell’ambito dei corsi di Diritto d’autore e arte, Diritto dell’era digitale e di Diritto comparato della proprietà intellettuale. Docenti e ricercatori italiani e stranieri presenteranno alcuni dei loro ultimi studi con l’obiettivo di suscitare un dibattito su alcuni degli attuali problemi riguardanti la regolazione della tecnologia”.
“La presentazione ha lo scopo di offrire uno sguardo sul dibattito attinente al potere che le grandi piattaforme del capitalismo digitale esercitano su scuola e università. Il diritto alla protezione dei dati personali costituisce uno degli strumenti giuridici volti a preservare l’autonomia della scuola e dell’università nonché la libertà di pensiero di studenti, docenti e ricercatori, ma non è uno strumento sufficiente. Senza interventi organici su più normative – ad es. sul piano della proprietà intellettuale -, senza investimenti in infrastrutture pubbliche basate su standard aperti, senza una solida formazione degli studenti e dei docenti nel campo della cittadinanza digitale, il potere delle grandi piattaforme commerciali è destinato ad aumentare”.
This paper aims to outline some issues concerning the interaction, in the European Union law, between data policy, university regulation, open science, intellectual property and infrastructure policy. On the one hand, such issues primarily regard intellectual property: exclusive rights deriving from copyright and related rights, patent, trademarks, trade secrets. On the other hand, they also concern forms of exclusive control on data that are not strictly related to intellectual property, but enhanced by the control on technology and infrastructure. This exclusive control can accompany or be independent from the protection of intellectual property conferred by law.
To make science open and to limit the market power of intellectual monopolies and oligopolies, restricting and reshaping intellectual property rights on data is not enough. It is also necessary to create or to revive public infrastructures and to implement open standards for texts, data and code. An example of public infrastructure for university is the Italian consortium GARR, which during the Covid-19 pandemic contributed to anchor the local debate about academic and teaching freedom to an actual and viable alternative, protecting independent and public knowledge not just de iure but de facto as well”.
Abstract: “Mentre gran parte del dibattito sul rapporto tra diritto umano alla scienza e alla ricerca, proprietà intellettuale e diritto d’autore si focalizza sulle eccezioni e limitazioni ai diritti di esclusiva (libere utilizzazioni) e sui diritti degli utenti, questo scritto sostiene, sulla scorta di precedenti ricerche, che occorre guardare anche ad altri dispositivi giuridici. Tra questi dispositivi spicca l’attribuzione in capo all’autore di un diritto di apertura dei testi scientifici (c.d. “secondary publication right”) a difesa dell’autonomia e della libertà accademiche, sempre più a rischio. Tale diritto non è un’eccezione o una limitazione del diritto di esclusiva né un diritto dell’utente ma un vero e proprio diritto morale (ed economico) dell’autore di aprire i testi scientifici. Esso è filosoficamente fondato sulla visione kantiana del diritto d’autore (il diritto d’autore non è una proprietà ma un diritto morale a protezione del discorso tra autore e pubblico), sull’uso pubblico della ragione e sulla norma mertoniana che prescrive la messa in comune della conoscenza scientifica. Il diritto di aprire i testi scientifici è una proiezione del diritto umano alla scienza (aperta)”.
Annuncio seminario patrocinato da AISA: “Il centro interdipartimentale DETECT dell’università di Pisa organizza, col patrocinio dell’AISA, un lunch seminar in presenza e on-line dal titolo: L’iniziativa europea per la riforma del sistema di valutazione della ricerca: l’Agreement on Reforming Research Assessment. Il seminario sarà tenuto da Francesca Di Donato, che ha contribuito alla stesura dell’accordo. Chi è interessato a partecipare, in presenza o a distanza, troverà tutte le informazioni necessarie qui“.
Un post sul sito di AISA di Paola Galimberti sulla necessità di sapere quanto si spende per gli Article Proccessing Charge (APC) chiesti dagli editori per l’Open Access a pagamento.
EOSC ha recentemente pubblicato nuovi studi in materia di Open Science. Di seguito i dettagli.
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Opinion paper on monitoring open science, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2777/382490
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Opinion paper on EOSC FAIR data literacy, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2777/716842
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Opinion paper on EOSC and commercial partners, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2777/04436
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Opinion paper on FAIR data sovereignty in EOSC, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2777/32361
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, EOSC, the transverse European data space for science, research and innovation : statement, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2777/140927
Il 5 dicembre 2022 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo trentino si è discusso del libro-intervista “Brevettare la salute? Una medicina senza mercato” di Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, curato per Il Mulino dalla giornalista scientifica Caterina Visco. Il seminario è stato organizzato dal prof. Marco Pertile dell’Università di Trento e ha visto la partecipazione, oltre che di Silvio Garattini, di diversi accademici provenienti da differenti aree scientifiche.
La tesi di fondo di Silvio Garattini è netta: “l’introduzione del brevetto sui farmaci, in Italia [dal 1978] e nel mondo, non si è rivelata sinonimo di innovazione e progresso, e anzi ha portato a conseguenze negative” (p. 11).
Nonostante la brevettabilità dei farmaci in tre anni di pandemia di Covid-19 l’Italia non è stata capace di produrre un proprio vaccino, e nel mondo solo la parte più ricca della popolazione ha avuto accesso ai vaccini.
Scrive in proposito Garattini “[…] le aziende proprietarie dei vaccini brevettati si sono limitate a produrre le dosi commercializzabili, acquistabili e acquistate spesso con anticipo, sorde – e con loro molti Paesi ad alto reddito – alle richieste, provenienti da più voci, di rinunciare temporaneamente alla proprietà intellettuale per permettere ad altre industrie di produrre i miliardi di dosi necessarie per vaccinare il resto del mondo” (p. 123-124).
Come sostiene persuasivamente il presidente dell’Istituto Mario Negri, l’attuale pandemia è solo un esempio, sebbene macroscopico, di un problema generale: la commistione tra le ragioni del profitto e quelle della scienza nonché della tutela della salute e della vita.
Garattini immagina un sistema di prevenzione delle malattie e della salute che prescinda del tutto dalla proprietà intellettuale e dal profitto. Ma pragmaticamente immagina anche un percorso graduale per giungere al nuovo sistema. Occorrerebbe procedere per intanto a una riforma dell’attuale meccanismo di proprietà intellettuale sui farmaci (p. 124-125).
a) Si ritiene utile non brevettare i marchi dei farmaci per permettere la commercializzazione con il solo nome generico.
b) Si dovrebbe evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.
c) Il brevetto dovrebbe essere garantito solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto ai prodotti già esistenti.
d) Questo dovrebbe essere dimostrato attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.
e) Se il nuovo farmaco fosse migliore dovrebbe essere abolito il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.
f) Infine, dovrebbe essere impossibile brevettare prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.
La riforma della proprietà intellettuale sarebbe di per sé non sufficiente, occorrerebbe trovare “altri motori [non profit] per l’innovazione in campo medico e farmaceutico” (p. 125).
Non si tratta di dichiarazioni di principio, ma di quanto l’Istituto Mario Negri mette in pratica.
Infatti, sul sito web dell’istituto scopriamo che esiste una pagina intitolata “Perché non brevettiamo le nostre ricerche” <https://www.marionegri.it/non-brevettiamo>.
Garattini commenta la politica antibrevettuale dell’istituto che presiede a pag. 74 del libro. Si è scelto di non brevettare per esse liberi. Liberi di orientare la ricerca per motivazioni estranee al profitto, liberi di costruire e disseminare la ricerca (cioè di praticare la scienza aperta), liberi di dedicare tempo e risorse alla formazione (tempo e risorse che altrimenti andrebbero indirizzate a progettare e attuare strategie di brevettazione), liberi di costruire collaborazioni con altri scienziati visti come partner e non come antagonisti di una corsa brevettuale.
Il tema posto dalla pagina web dell’Istituto Mario Negri è quello del conflitto di interessi innescato dai brevetti universitari (o di enti e istituti pubblici finanziati con le tasse dei cittadini) in campo biomedico e farmacologico.
La politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri è una mosca bianca in Italia, dove il modello dei brevetti universitari, anche nel campo della cura della salute, tiene banco da almeno venti anni a questa parte sulla scia dell’imitazione del modello giuridico americano che ha nel Bayh-Dole Act del 1980 la sua legge-simbolo. Tale legge, tra l’altro, consente alle università americane di brevettare le ricerche frutto del finanziamento federale.
Gli italiani si sono affrettati a imitare (male) il modello statunitense e non hanno letto e discusso le critiche che gli stessi studiosi americani andavano maturando, soprattutto in ambito biomedico.
Il tema è oggi tornato di moda, in occasione della riforma del codice italiano della proprietà industriale, ma ancora una volta si discute dei dettagli (a chi spetta la titolarità del brevetto: al ricercato o all’università), perdendo di vista il quadro d’insieme.
Una drammatica dimostrazione degli effetti collaterali dei brevetti universitari in ambito biomedico è stata offerta dall’attuale pandemia. Durante questi tre anni sono state pubblicate sulla stampa quotidiana notizie relative a (presunti) brevetti di università italiane su tecnologie che si candidavano a diventare nuovi vaccini anti-SARS Cov-2. Al di là delle vanterie di prammatica – diffuse allo scopo di intercettare finanziatori –, sorge spontanea la domanda: ma davvero si può arrivare a un vaccino nazionale scatenando la corsa al brevetto tra le università italiane in grado di fare ricerca nel campo farmacologico? E di seguito un altro dubbio: una volta che un’università italiana ha brevettato il nuovo vaccino, essa è libera di cedere il diritto di esclusiva a un’impresa americana o indiana? Non sarebbe stato meglio coordinare gli sforzi di ricerca e collaborare? E non sarebbe meglio pensare a un vaccino libero e aperto per il mondo invece che un vaccino nazionale e protetto da proprietà intellettuale?
Forse sarebbe il caso di riprendere una seria e approfondita discussione sui brevetti universitari in ambito biomedico e farmacologico, magari tenendo presenti le parole con le quali si chiude la politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri.
“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.
Abstract. Oggi il carattere democratico della scienza è minacciato dalla valutazione autoritaria nonché dalla privatizzazione della conoscenza. Non è solo una minaccia per l’università ma per la tenuta stessa della democrazia. Due esempi (pubblicazioni scientifiche e brevetti universitari in ambito biomedico) possono forse rendere l’idea di cosa significhi valutazione autoritaria e privatizzazione della conoscenza nell’università italiana.
Abstract. “Uno dei cardini dello stato di diritto è la pubblicità. Le leggi e le sentenze devono essere pubblicate. Anche le riflessioni dei giuristi accademici sono destinate ad essere pubblicate su libri e riviste. Tuttavia, nell’era di Internet, quando il materiale giuridico è pubblicato nelle banche dati di editori commerciali riceve una diffusione limitata a chi, in ambito accademico o professionale, può permettersi di pagare il costo dell’accesso ai servizi offerti dalle imprese editoriali. I problemi derivanti da un sistema di comunicazione dell’informazione giuridica che si basa esclusivamente o prevalentemente su banche dati commerciali non sono limitati alla restrizione dell’accesso, ma anche all’applicazione delle logiche del capitalismo della sorveglianza al campo giuridico: gli utenti delle banche dati commerciali sono costantemente sorvegliati al fine di effettuare previsioni e influenzarne il comportamento. Nell’ambito del più ampio movimento del libero accesso alla conoscenza (Open Access, Open Science) il Free Access to Law Movement – <http://www.fatlm.org/> – promuove il libero accesso all’informazione giuridica (si veda la dichiarazione di Montréal del 2002 <http://www.fatlm.org/declaration/>). Il libero accesso all’informazione giuridica include anche il libero accesso (Open Access) alla dottrina giuridica (saggi, note a sentenze, monografie, trattati ecc.). Mentre in altri sistemi giuridici il movimento dell’Open Access alla dottrina giuridica è ampiamente sviluppato (ad es., negli Stati Uniti), in Italia è ancora all’inizio. Tuttavia, un recente monitoraggio del panorama di riferimento mostra alcuni significativi progressi (si veda la pagina web “La dottrina giuridica italiana in Open Access”: https://www.robertocaso.it/2020/07/28/la-dottrina-giuridica-italiana-in-open-access-una-sitografia-in-costruzione/). La lezione mira a dare conto degli attuali scenari dell’accesso aperto alla dottrina giuridica e a instaurare un dialogo con i dottorandi che, nella materia giuridica, si accingono a pubblicare i risultati delle proprie ricerche”.
“La scienza dovrebbe essere un bene comune e incondizionato, ma oggi viene gestita attraverso logiche e procedure che ne fanno un assett privato o una funzione assoggettata al controllo statale. Come si può garantire l’autonomia della ricerca e la tutela della missione pubblica della scienza? Attraverso quali infrastrutture tecnologiche e pratiche organizzative? E sulla base di quali cambiamenti normativi, istituzionali e culturali? Se ne discute con Roberto Caso, presidente dell’Associazione Italiana per la Scienza Aperta (AISA)”
“Dovrebbe tuttavia destare stupore che il bando PRIN PNRR 2022 del 14 settembre 2022 richieda dati bibliometrici – obbligatori per fisica, ingegneria e scienze biologiche, e solo se disponibili per scienze umane e sociali – a chi presenta un progetto di ricerca candidandosi come principal investigator. […]
A un osservatore esterno i decreti e gli acronimi possono apparire vacui e tediosi esoterismi burocratici: ma in questa vacuità si cela una valutazione di stato ancor meno scientifica e ancora più sottomessa alla politica, specialmente entro un’università impoverita di denaro e di spirito che tende ad attribuire potere e prestigio a chi, ad arbitrio del principe, ottiene fondi per i propri progetti di ricerca. Il ‘governo dei migliori’ si è baloccato irresponsabilmente con la bibliometria. Governi peggiori potranno seguire la via regolamentare che ha predisposto e fare di peggio”.
Il programma di seminari è dedicato a temi di diritto e tecnologia. Gli incontri sono organizzati nell’ambito dei corsi di Diritto civile, Diritto comparato della privacy e Law and Data. La partecipazione è gratuita. Il coordinamento scientifico è a cura del prof. Roberto Caso e del dott. Paolo Guarda, Università di Trento.
Roma, CNR, piazzale Aldo Moro, 7 – 20 e 21 ottobre 2022
AISA – VII convegno annuale
Scienza aperta e società democratiche
Il settimo convegno annuale dell’AISA, organizzato da ILIESI/CNR – Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e la Storia delle Idee, in collaborazione con ILC/CNR – Istituto di Linguistica Computazionale «A. Zampolli» e con il Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca/CNR e la Biblioteca Centrale CNR “G. Marconi”, si svolgerà il 20 – 21 ottobre 2022 a Roma, presso la Biblioteca Centrale CNR “G. Marconi” in Piazzale Aldo Moro 7.
“Facendo seguito al primo corso sul tema dell’Intelligenza artificiale, tenutosi nello scorso aprile a Matera ed organizzato in collaborazione tra la Formazione territoriale di Potenza della Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Matera ed il Consiglio Notarile di Matera, con questo secondo corso si vuole approfondire altre tematiche giuridiche, con particolare riguardo alla tutela dei diritti della persona, che appaiono a rischio di gravi compressioni dall’uso massivo della I.A […]”.
GIULIA DORE — Le riproduzioni fotografiche in scala di opere dell’arte figurativa tra finalità illustrative, critica artistica e mercato. L’art. 70 l.d.a. e il bilanciamento fan- tasma (Nota a Cass., ord. 8 febbraio 2022, n. 4038), in Foro it, 2022, I, 2786, preprint non referato già pubblicato nella serie dei Trento LawTech Research Papers.
MARTA ARISI — Che lo sforzo (o il bilanciamento?) sia con te! L’art. 17 della direttiva copyright e la libertà di espressione nel diritto europeo dell’era digitale (Nota a Corte giust. 26 aprile 2022, causa C-401/19), in Foro it., 2022, IV, 423
Il programma di seminari è dedicato a temi di diritto e tecnologia. Gli incontri sono organizzati nell’ambito dei corsi di Diritto civile, Diritto comparato della privacy e Law and Data. La partecipazione è gratuita.
Il coordinamento scientifico è a cura del prof. Roberto Caso e del dott. Paolo Guarda, Università di Trento.
Le date e l’organizzazione sono disponibili nella Locandina.
Il 28 settembre nella sessione pomeridiana si discute di Open Science.
Intervengono: Roberto Caso, Università di Trento; Paola Galimberti, Università di Milano Statale; Maria Laura Vignocchi, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Giovanni De Simone, Consiglio Nazionale delle Ricerche; Benedetta Alosi, Università di Messina e Giuseppe Bonanno, Università di Messina Conclusioni: Paola Gargiulo
L’espressione “proprietà intellettuale” è di quelle che dominano la scena della contemporaneità. Eppure il suo uso come categoria giuridica che identifica numerosi differenti diritti di esclusiva su attività umane è molto recente. Attualmente la categoria include diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali, indicazioni geografiche, segreti commerciali. Secondo una ricostruzione di un autorevole studioso della materia, l’uso della macrocategoria inizia a diffondersi a seguito dell’istituzione nel 1967 dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà (World Intellectual Property Organization o WIPO). La WIPO è un’agenzia delle Nazioni Unite che conta 193 Paesi membri ed è dedita allo sviluppo di un sistema normativo internazionale “bilanciato” ed efficace di proprietà intellettuale.
L’uso della macrocategoria si è poi definitivamente imposto – o è stato imposto dall’Occidente – attraverso una delle normative più emblematiche del capitalismo globale: l’accordo nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sui diritti di proprietà intellettuale del 1994 (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights o TRIPS).
Attraverso gli accordi normativi internazionali gli Stati hanno parzialmente ceduto la propria sovranità nazionale. Le grandi linee di sviluppo nonché il c.d. bilanciamento tra proprietà intellettuale e altri diritti sono nelle mani di organi e corti internazionali.
L’Unione Europea ha competenza nella materia e ha inserito la proprietà intellettuale nell’art. 17.2 della Carta dei Diritti Fondamentali, accostandola al vero diritto di proprietà e privandola, almeno a livello della lettera del testo, dellaclausola sociale.
La categoria della proprietà intellettuale rimane però filosoficamente e giuridicamente controversa per diverse ragioni.
a) Accumuna diritti che poco hanno a che fare l’uno con l’altro. Tali diritti hanno ragioni giustificative e finalità differenti. Il diritto d’autore disciplina le opere dell’ingegno della letteratura, dell’arte e della scienza. Il brevetto per invenzione riguarda l’innovazione industriale. Il marchio serve a identificare prodotti e servizi. E così via. La riconducibilità di questi diritti alla proprietà è discussa sia nel pensiero giusnaturalista sia in quello utilitarista.
b) Stabilisce un accostamento forzato tra diritti di esclusiva su beni tangibili (la proprietà in senso stretto) con i diritti di esclusiva su beni intangibili che hanno natura profondamente diversa. I beni tangibili sono rivali al consumo. I beni intangibili no: possono essere fruiti contemporaneamente da un numero infinito di persone. Lo stesso riferimento al bene intangibile come frutto dell’attività del pensiero umano è controverso.
c) Nasconde retoricamente la natura monopolistica del diritto di esclusiva. Un conto è parlare di proprietà, altro è parlare di monopolio. Nei sistemi capitalistici ad economia liberale il monopolio viene, almeno in linea teorica, contrastato dal diritto. Mentre la proprietà è un pilastro del capitalismo liberale. Nelle costituzioni in cui il diritto di proprietà è un diritto fondamentale – e non è il caso della Costituzione italiana – l’accostamento esplicito o implicito della proprietà intellettuale alla proprietà, significa fondamentalizzare il diritto, cioè renderlo inattaccabile da norme di legge ordinaria che contrastano con il contenuto costituzionale.
Negli ultimi decenni la normativa degli accordi internazionali ha esteso progressivamente il contenuto della c.d. proprietà intellettuale. Beni della conoscenza che in passato erano comuni oggi sono sottratti alla destinazione universale e gravati da esclusive. Ma c’è di più e di peggio. La proprietà intellettuale riguarda sempre di più il controllo delle infrastrutture tecnologiche e della loro logica (gli algoritmi) costituendo una barriera di accesso a monte del sistema di comunicazione e di progresso della conoscenza.
La proprietà intellettuale alimenta il capitalismo dei monopoli intellettuali che genera gravi disuguaglianze e mette a rischio la democrazia. Disuguaglianze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Disuguaglianze, anche nei Paesi ricchi, tra persone che possono pagare il prezzo per l’accesso alla conoscenza e persone che non hanno questa possibilità. Si pensi, ad esempio, all’accesso ai testi e alle altre risorse formative della scuola e dell’università.
Peraltro, il fenomeno della concentrazione nelle mani di pochi soggetti del controllo esclusivo di informazioni, dati e capacità computazionale si basa oggi non solo sul diritto (la c.d. proprietà intellettuale) ma anche (e soprattutto) sul potere di fatto delle grandi piattaforme commerciali di Internet.
Nel campo della scienza la tendenza a privatizzare la conoscenza, cioè ad estendere le esclusive (giuridiche e di fatto) fino al controllo della ricerca di base, dei mattoni fondamentali del sapere, dei beni essenziali per la vita (ad es., farmaci e vaccini) e delle infrastrutture della comunicazione (prima fra tutte: Internet) mette a rischio la distinzione tra ricerca animata dal progresso della conoscenza (in particolare, la ricerca del settore pubblico per l’interesse di tutti) e ricerca orientata al profitto (di pochi). Alimenta i conflitti di interesse. Omologa le istituzioni accademiche e scientifiche alle aziende.
Fin dai primi anni 2000 c’è chi mette in guardia sul fatto che la scienza aperta è inconciliabile con la continua espansione della proprietà intellettuale. Quel monito è oggi più vero che mai.
Il vento della politica sta cambiando ancora. A livello globale e a livello nazionale. Quale futuro avrà la scienza aperta a partire da questo autunno?
L’idea di rendere gratuitamente accessibili e giuridicamente riutilizzabili i risultati della scienza su Internet, di rendere più democratico, equo e trasparente il processo di formazione e di discussione critica della scienza potrebbe essere in crisi di fronte ai (nuovi) rigurgiti nazionalisti e imperialisti. Insomma, la scienza aperta è espressione del principio della destinazione universale dei beni e del valore del dialogo pubblico e pacifico tra uomini, applicati a un nuovo scenario tecnologico in cui la costruzione e la comunicazione cooperativa della conoscenza passa attraverso la Rete. Un principio (la libertà della conoscenza, la conoscenza come bene comune) e un valore (l’uso pubblico della ragione) che si contrappongono frontalmente a chiusure di confini e colonizzazioni più o meno violente.
La pandemia e il dissolversi di una nuova speranza
Nel migliore dei mondi possibili, la pandemia avrebbe dovuto rappresentare una spinta potente allo sviluppo della scienza aperta, a partire dalla riforma dei diritti d’autore e deibrevetti. Le cose sono andate in modo diverso. I farmaci salvavita, compresi i vaccini, sono rimasti, salvo lodevoli eccezioni, nel controllo delle Big Pharma. L’editoria scientifica, oramai trasformatasi nell’imprenditoria dell’analisi dei dati, è saldamente nelle mani di grandi monopoli: lo dimostrano i c.d. contratti trasformativi, accordi tra grandi imprese della comunicazione scientifica e consorzi di biblioteche che, al di là delle declamazioni, consentono ai giganti commerciali di accrescere i loro profitti eaumentano le diseguaglianze tra chi può e chi non può entrare nel gioco della comunicazione scientifica.
L’estate del 2022 e le nuove (?) politiche in materia di ricerca e scienza aperta
Durante l’estate del 2022 sono stati pubblicati documenti di policy e studi istituzionali che guardano al futuro prossimo della ricerca e dell’Open Science.
A livello europeo ed italiano tra i tanti documenti rilevanti si segnalano:
Non potendo qui entrare nel dettaglio di tutti i documenti, ci si limiterà a un paio di esempi.
Il primo esempio riguarda l’impatto del diritto d’autore sull’apertura delle pubblicazioni scientifiche nonché sul diritto umano alla scienza e alla ricerca.
“Il principio dell’accesso aperto è nato spontaneamente nella comunità scientifica, ma oggi è oggetto di normative e soft law a livello internazionale e nazionale. Il quadro normativo attuale, in particolare la legge sul diritto d’autore, ostacola lo sviluppo dell’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche. Due sono le priorità: a) promuovere un diritto irrinunciabile e inalienabile di ripubblicazione immediata (senza termini di embargo) per le pubblicazioni scientifiche finanziate parzialmente o totalmente con fondi pubblici; b) estendere la portata in ambito scientifico delle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. In particolare, si raccomanda di attuare la Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. Occorre definire le modalità e gli strumenti per aprire all’accesso quanto pubblicato in accesso chiuso ai fini dello svolgimento di esercizi di valutazione imposti dallo Stato.”
A parte il riferimento anacronistico all’attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 – già avvenuta con il D.lgs. n. 177 del 2021 che peraltro ha disatteso gli auspici che provenivano dal mondo della scienza aperta -, c’è da dubitare che il diritto di ripubblicazione possa improvvisamente trasformarsi in un obiettivo politico prioritario del nuovo parlamento e, soprattutto, del nuovo governo (qualsiasi colorazione politica essi dovessero assumere). Ne è prova il fatto che il diritto di ripubblicazione in accesso aperto era parte della c.d. proposta Gallo avanzata durante la corrente legislatura, ma arrestatasi in Senato e rimasta alla fine, dopo tre diversi governi, lettera morta.
Nello studio della Commissione Europea si delineano diverse opzioni di modifica della normativa europea sul copyright in favore della ricerca scientifica, alcune delle quali riguardano anche il diritto di ripubblicazione (secondary publication right). A fronte dell’immobilismo italiano, occorrerà vedere se l’Unione Europea vorrà effettivamente perseguire la strada di una modifica profonda del diritto d’autore a favore della scienza (conoscenza) aperta, una modifica che però garantisca l’assoluto rispetto della libertà e dell’autonomia scientifico-accademica.
Più in generale, rimane il problema della scelta di fondo dell’Unione Europea: l’aver voluto inserire la c.d. proprietà intellettuale del capitalismo globale tra i diritti fondamentali (v. l’art. 17.2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea) privandola, almeno a livello della lettera della disposizione, della clausola sociale presente, invece, nell’art. 42 della nostra Costituzione in riferimento al diritto di proprietà (in senso stretto). Tale operazione ha diversi obiettivi: far rientrare nel concetto di proprietà ciò che non lo è (il diritto d’autore, il brevetto per invenzione, i marchi, i segreti commerciali), accumunare tutti i diritti di esclusiva su entità intangibili sotto il cappello di una categoria che evoca il dominio assoluto e dispotico e blindare le stesse esclusive con la garanzia costituzionale del carattere fondamentale del diritto (garanzia sorvegliata dalla Corte di Giustizia UE e, indirettamente, dalla Corte EDU).
Le speranze di un riequilibrio del diritto d’autore e del brevetto per invenzione rimangono nelle mani dei giudici (delle corti internazionali e nazionali) con tutti i rischi (ma anche le opportunità) che ciò comporta.
Il secondo esempio riguarda le possibili riforme del sistema di valutazione della ricerca.
Nelle conclusioni del Consiglio UE su Research assessment and implementation of Open Science si rinviene una parte dedicata (pagg. 4 ss.) ad alcuni principi che dovrebbero guidare la riforma dei sistemi europei di valutazione.
a) Disegnare un approccio che esprima un maggiore bilanciamento tra valutazione qualitativa e quantitativa della ricerca, con relativo rafforzamento degli indicatori qualitativi e uso responsabili di quelli quantitativi.
b) Riconoscere tutte le forme di contributo alla ricerca e all’innovazione e tutte le forme di processo di formazione della scienza. Non solo pubblicazioni, ma anche dataset, software, metodologie, protocolli, brevetti ecc.
c) Prendere in considerazione ai fini della carriera tutte le attività di ricerca e innovazione. Ad esempio, la supervisione dei giovani ricercatori, i ruoli di leadership, la capacità imprenditoriale, l’interazione della società inclusi il public engagement e la citizen science.
d) Prendere in considerazione le specificità della disciplina di riferimento, la tipologia di ricerca (di base o applicata), lo stadio della carriera, le missioni dell’istituzione di ricerca.
e) Garantire che l’integrità (etica) della ricerca rappresenti la più elevata priorità e non sia contraddetta da incentivi che muovono in direzione opposta.
f) Garantire la diversità, l’eguaglianza di genere e la promozione delle donne nella scienza.
Al di là della genericità che caratterizza tutti i documenti programmatici di questo genere e di alcune banalità, spicca una visione che fa di tutte le erbe un fascio. Non emerge quella che dovrebbe essere la vera priorità: conservare una distinzione e un equilibrio tra ricerca pubblica finalizzata all’interesse di tutti e ricerca privata. Si conferma invece una visione aziendalistica della ricerca e della scienza aperta che cannibalizza tutto il mondo del sapere. Così, secondo il Consiglio UE, il male non sta negli indicatori in sé, ma nell’uso sbilanciato degli stessi.
Qualche spunto positivo emerge con riferimento ai principi di apertura che dovrebbero governare gli esercizi di valutazione con particolare riferimento agli indicatori quantitativi (pag. 7). Si auspica che le banche dati e i dati bibliometrici siano, in linea di principio, aperti e trasparenti (chissà cosa ne pensa l’ANVUR). Ma nessuno elemento di concretezza si rinviene con riferimento al modo con cui rendere operativo l’auspicio. In ogni caso, non una parola sull’idea di affidare ad agenzie governative, cioè alla spada invece che alla bilancia, la governance attraverso i numeri della ricerca accademica.
Conclusioni
In conclusione, per quello che emerge dagli ultimi documenti di policy dedicati alla materia, l’Open Science dell’Unione Europea si avvia a diventare (se già non lo è già) strumento del capitalismo neoliberista.
Se fosse diffusa una diversa visione della scienza aperta tra ricercatori e cittadini, si potrebbe pronosticare un autunno caldo. Ma l’apertura democratica della scienza come altri temi fondamentali non trova spazio né nella formazione scolastica né nel dibattito pubblico dei mass media. La cosa non sorprende. Se i cittadini hanno una vaga idea di cosa sia la scienza – e ne abbiamo avuto prove evidenti durante la pandemia -, è difficile che possano comprendere quale valore abbia per la tenuta della democrazia la scienza aperta nel senso qui delineato.
Facile prevedere che nessuna delle priorità verrà affrontata in autunno e nei mesi a venire. Non il contrasto ai monopoli intellettuali, non una seria riforma della valutazione della ricerca volta a ristabilire autonomia e libertà accademica, non la costruzione di infrastrutture di comunicazione realmente indipendenti dai padroni della Rete.
La nozione di opera d’arte (unica) nella legislazione sugli appalti pubblici e il suo rapporto con il diritto d’autore
22 agosto 2022
Immagine tratta dal sito web del Consiglio di Stato: https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/consiglio-di-stato1
Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza 20 luglio 2022, N. 06324/2022REG.PROV.COLL./N. 10190/2020 REG.RIC.
Ecco di seguito un estratto della motivazione che si legge per intero qui.
“Alla luce di quanto esposto non è revocabile in dubbio il fatto che il progetto di A.H. costituisca un’opera d’arte rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 63 del d. lgs. 50/2016., anche se un’opera d’arte del tutto peculiare.
A mente dell’articolo 2575 del codice civile formano oggetto del diritto di autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Secondo l’articolo 1 della legge 633/1941 («Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio») sono protette le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione.
Il carattere creativo necessario per la tutelabilità di un’opera dell’ingegno implica la novità e l’originalità, ancorché relative, dell’opera e consiste nell’individualità della rappresentazione, ossia nell’idoneità dell’opera ad esprimere in modo personale un sentimento, un’idea, un fatto. Elemento caratteristico dell’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore è la funzione tipica di stimolo a reazioni emotive nel percipiente.
L’articolo 2 della legge 633/1941 contiene un elenco (non tassativo, come si dirà) delle opere protette dal diritto d’autore tra cui:
a) le opere della scultura, della pittura, dell’arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari, compresa la scenografia;
b) i disegni e le opere dell’architettura;
c) le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico.
L’opera di A.H. presenta tratti comuni con le tipologie di opere citate ma non è incasellabile in nessuna di esse: non è un’opera appartenente alle cosiddette “arti figurative” anche se la scenografia e la rappresentazione hanno un ruolo significativo in essa; non è un mero disegno o un’opera dell’architettura perché queste ultime riguardano di regola edifici; non è certamente un’opera del disegno industriale pur avendo carattere creativo e valore artistico.
Come si è detto, l’elenco di cui all’art. 2 della l. 633/1941 non è tassativo ma meramente esemplificativo (Cassazione civile, sez. I, 19/07/1990, n. 7397): pur non rientrando l’opera di André Heller tra quelle elencate nella norma citata essa ha tutte le caratteristiche dell’opera d’arte. È frutto dell’ingegno umano, è originale, è nuova, ha valore artistico, mira a suscitare e comunicare emozioni. Tecnicamente può essere considerata come un’opera composta perché è la risultante della combinazione attuata da più forme diverse dell’attività creativa le quali, pur potendo conservare una propria autonomia ontologica e funzionale, concorrono a formare le parti costitutive di una nuova opera con una sua autonoma e definita individualità.
Proprio il fatto che l’opera di H. non sia immediatamente riconducibile alla elencazione esemplificatoria contenuta nell’art. 2 della l. 633/1941 è una prova indiretta della sua assoluta unicità (ed al concetto di unicità fa riferimento l’art. 63 del d. lgs. 50/2016).
D’altronde il riconoscimento del “valore artistico” ad un’opera non può che derivare (almeno inizialmente) da una valutazione fatta dalla comunità degli appassionati, esperti dei singoli rami dell’arte, i quali molto spesso fanno da “apripista” al riconoscimento poi attribuito dalla collettività dei cittadini. L’attribuzione ad un’opera del valore di “opera d’arte” (come la storia insegna) agli inizi è molto spesso il frutto di un giudizio di persone di cultura, particolarmente competenti sia dello specifico ramo artistico, sia delle correnti socioculturali alle quali l’artista si ispira e delle quali l’opera è espressione. Ciò si verifica soprattutto quando un’opera rompe gli schemi e i canoni in precedenza seguiti e, di conseguenza, non compresi dalla massa del pubblico, ma apprezzati da critici illuminati. Posto l’apprezzamento che le opere di Heller riscuotono nel mondo, non si può non riconoscere che ad esse, dalla comunità dei critici e dalle persone culturalmente competenti del ramo (nonché di gusto raffinato), sia stato attribuito il valore di “opera d’arte”.
Alla luce delle considerazioni esposte si può ritenere che:
– il progetto di A.H. costituisce un’opera d’arte per la quale il Comune di Bressanone ben poteva ricorrere alla procedura prevista dall’art. 63 del d. lgs. 50/2016;
– contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, nella specie non ci si trova di fronte ad un appalto pubblico di servizi ma all’acquisizione di un’opera d’arte unica che può essere acquistata esclusivamente dall’artista che ne è autore; se si fosse trattato di un quadro di Caravaggio nessuno avrebbe dubitato della possibilità di ricorrere ad una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara; possono sorgere problemi quando ci si trova di fronte a forme d’arte innovative: ma, una volta chiarito che il progetto di A.H. costituisce un’opera d’arte, le conseguenze vengono da sé”.
K.D. Beiter, Reforming Copyright or Toward Another Science? – A More Human Rights-Oriented Approach Under the REBSPA in Constructing a ‘Right to Research’ for Scholarly Publishing (August 15, 2022). Forthcoming in Brooklyn Journal of International Law, Vol. 48, No. 1 (2023), SSRN: https://ssrn.com/abstract=4196341
J. Cabay, Copyright and Scientific Publication: Tales of Two Copyrights, Congrès Open in Order to Advance Science organisé par les Universités belges dans le cadre de la 10th International Open Acess Week (23 octobre 2017: Bruxelles, Bibliothèque Royale) Publication Non publié, 2017-10-2 Communication à un colloque
F. Lorenzato, Titolarità e contratti sulle pubblicazioni scientifiche, in R. Caso (a cura di), Pubblicazioni scientifiche, diritti d’autore e Open Access. Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 20 giugno 2008,Università di Trento, Trento, 2009, p. 47
Workshop on “An EU copyright & data legislative framework fit for research: barriers, challenges and potential measures”, with Giulia Dore, 23 & 24 February 2023, Brussels and online meeting
Academic Copyright. Open Access and the “Moral” Second Publication Right, “New Perspectives on Copyright”, LawTech Seminars, 28 aprile 2022, Università di Trento, Palazzo di Giurisprudenza, ore 14-17.00
Anche quest’anno, in occasione del suo VII convegno annuale che si terrà a Roma presso la sede centrale del CNR il 20 e 21 ottobre, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) premierà le migliori tesi di dottorato e di specializzazione o di laurea magistrale dedicate alla scienza aperta e presentate negli anni 2020, 2021 e 2022.
Le indicazioni sulle modalità di partecipazione al concorso, il cui bando scade il 10 settembre 2022, sono consultabili a partire da questa pagina.
L’estradizione di Assange e la mancata sospensione della proprietà intellettuale per il contrasto del COVID-19
I want you for U.S. Army : nearest recruiting station / James Montgomery Flagg. 1917. Library of Congress..War poster with the famous phrase “I want you for U. S. Army” shows Uncle Sam pointing his finger at the viewer in order to recruit soldiers for the American Army during World War I. The printed phrase “Nearest recruiting station” has a blank space below to add the address for enlisting…http://hdl.loc.gov/loc.pnp/ppmsca.50554
1. L’estradizione di Assange e la mancata sospensione degli accordi TRIPS sulla proprietà intellettuale
Il 17 giugno 2022 le agenzie di stampa rimbalzavano due notizie apparentemente lontane e slegate.
La prima riguarda la decisione del governo britannico, per mano della ministra Priti Patel, di estradare l’australiano Julian Assange, fondatore nel 2006 di Wikileaks, negli Stati Uniti. Ad Assange e Wikileaks si devono, tra l’altro, la rivelazione dei crimini di guerra statunitensi commessi in Afghanistan e Iraq. Prima un anno e mezzo agli arresti domiciliari, poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e infine negli ultimi tre anni recluso in una prigione inglese di massima sicurezza, Assange è privo della libertà personale da quasi dodici anni senza aver subito una condanna (men che meno definitiva). In altri termini, è un cittadino innocente in attesa di un giudizio (di uno Stato straniero). Ha dovuto affrontare decisioni altalenanti dei giudici inglesi per poi subire un ordine di estradizione da parte della ministra Patel. Le sue condizioni fisiche e mentali lo espongono al rischio di perdere la vita. L’ultima speranza, sul piano giuridico, è affidata all’impugnazione dell’atto ministeriale da presentare entro un termine brevissimo e a un eventuale ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, la quale, peraltro, in questi giorni si è espressa in via d’urgenza contro il Regno Unito bloccando la deportazione di rifugiati in Ruanda.
La seconda concerne la decisione in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO nell’acronimo inglese) di raggiungere un accordo compromissorio nella materia dei brevetti sui vaccini che, in sostanza, lascia intatto l’attuale quadro normativo sulla proprietà intellettuale. In definitiva, l’accordo rigetta la proposta volta a sospendere tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini e dispositivi medici utili a contrastare il COVID-19. La proposta era stata avanzata da India e Sudafrica nell’ottobre del 2020 e poi sostenuta da molti Paesi nonché da un vasto movimento di opinione.
2. La fragilità della democrazia occidentale
Cosa lega le due notizie? La fragilità della democrazia occidentale e di due dei suoi valori fondanti: la libertà (di informazione) e la solidarietà. In questi mesi, la comunicazione dei governi occidentali si concentra, retoricamente, sulle minacce esterne alla democrazia liberale – Russia e Cina in testa – ma tace sulle debolezze e le contraddizioni interne.
La decisione di estradare Assange viene da un governo conservatore, politicamente indebolito, di un Paese che, a seguito della Brexit, appare sempre più allo sbando e prono alla potenza americana. Come ha messo in evidenza Vincenzo Vita su Il Manifesto il meccanismo giuridico inglese che porta all’estradizione è “curioso”. La decisione finale spetta a un ministro. Cioè è una decisione non collegiale di un solo rappresentante del potere esecutivo. La culla della democrazia liberale mostra evidentemente tutte le sue fragilità.
Alcuni commentatori – tra questi Andrea Monti su Repubblica – hanno sostenuto che Assange dovrebbe affrontare il processo negli USA. Ma l’accettazione da parte di un cittadino australiano, detenuto attualmente nel Regno Unito, del processo americano sconterebbe la compressione delle garanzie di giustizia che dipenderebbero dall’applicazione della legge in base alla quale gli Stati Uniti chiedono l’estradizione dell’australiano fondatore di Wikileaks: l’Espionage Act del 1917. L’amministrazione Trump nel maggio del 2019 ha infatti fondato le accuse verso il giornalista Assange sulla legge antispionaggio. Tale legge, nata allo scopo di perseguire penalmente i dissidenti contrari all’entrata degli USA nella prima guerra mondiale e poi a più riprese modificata, non distingue le spie dai whistelblower e non consente di difendersi in base al pubblico interesse. Comunque anche un’eventuale assoluzione – che sembra difficile da immaginare – non restituirebbe ad Assange gli anni di privazione di libertà che gli sono stati inflitti da uno Stato straniero, senza un processo e senza una condanna. Non si tratta quindi di un conflitto tra l’etica personale di un giornalista e il diritto, bensì “fra il diritto interno di un singolo stato, e l’etica di un cittadino straniero”, etica che si associa al diritto fondamentale alla libertà di espressione del pensiero. Insomma, si tratta di una questione giuridica (oltre che etica). Posto che tutti i Paesi occidentali riconoscono la libertà di informare e di essere informati, si tratta di decidere, attraverso gli strumenti del diritto internazionale (conflitto tra leggi territoriali), quale legge applicare. Se si ritiene, a buona ragione, che il diritto statunitense non è il diritto globale, non c’è nussun motivo giuridico che imponga ad Assange e al Paese dove è detenuto in carcere di accettare l’estradizione verso gli USA e il processo americano. Mentre ce ne sono di solidissimi che muovono verso la sua immediata liberazione.
La decisione di non sospendere i diritti di proprietà intellettuale chiude una danza macabra durata più di un anno e mezzo in cui hanno prevalso le pressioni delle Big Pharma per mantenere in piedi un sistema in cui decidono i poteri privati (e non gli elettori dei Parlamenti) e le strategie geopolitiche del blocco occidentale con l’Unione Europea in testa.
Il compromesso raggiunto si limita a consentire ai Paesi in via di sviluppo membri della OMC che non hanno capacità produttiva dei vaccini anti-COVID-19 di far uso di licenze obbligatorie di brevetti per invenzione non solo per la produzione interna, ma anche per l’esportazione verso altri Paesi in via di sviluppo anch’essi membri dell’organizzazione mondiale del commercio al fine di garantire un accesso equo ai vaccini. L’accordo, perciò, concerne i soli brevetti e lascia l’iniziativa ai singoli Stati membri dell’OMC. Per questo si discosta molto dalla proposta inziale di India e Sudafrica che invece riguardava la sospensione dell’accordo internazionale sul commercio in riferimento a tutti i diritti di proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su tutti i farmaci (non solo vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.
Provando a immedesimarsi negli occhi di chi proviene da Paesi poveri sprovvisti di informazioni, conoscenze e tecnologie per la tutela della salute, tale decisione suona come l’ennesima manifestazione di arroganza del potere coloniale. Il colonialismo, infatti, non funziona solo commettendo genocidi e depredando risorse naturali, ma anche negando beni immateriali (la proprietà intellettuale) che servono a salvare vite umane. Nicoletta Dentico su Sbilanciamoci ha scritto incisivamente sulla vicenda utilizzando la metafora della guerra.
“L’economia della conoscenza scientifica ed i meccanismi legalizzati di ‘appropriazione della scienza’ (come sostengono accreditati economisti) da parte di Big Pharma, anche quando l’innovazione è generata con finanziamenti pubblici (come, ma non solo, nel caso di Covid-19), definisce un crinale di guerra aperta tra il Nord e il Sud del mondo. Nessuno si scandalizzi per il paragone con la guerra tra Russia e Ucraina. Anche questa lo è. […] Su questo fronte, come sul recente conflitto europeo, il multilateralismo esce a pezzi, in un dialogo tra sordi non più in grado di intercettare le istanze di cambiamento e di trovare una mediazione conveniente alla sfida delle future pandemie”.
3. Conclusioni
La mobilitazione in giro per il mondo a favore di Assange può ancora provare a difendere la libertà di espressione. Nel nostro Paese è degna di nota la presa di posizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) che per bocca del suo segretario generale Raffaele Lorusso ha dichiarato che:
“La decisione del governo di Londra di consentire l’estradizione di Julian Assange negli Usa è un attacco alla libertà di informare”.
C’è da augurarsi che si moltiplichino anche le iniziative per difendere la solidarietà e riformare la proprietà intellettuale a livello internazionale e nazionale.
Libertà, eguaglianza e fratellanza (solidarietà). A forza di declamare principi e valori traditi dai fatti non solo perdiamo forza e credibilità verso le minacce provenienti da mondi diversi dal nostro, ma distruggiamo la nostra storia e la nostra identità.
Il 17 giugno 2022 le agenzie di stampa rimbalzavano due notizie apparentemente lontane e slegate.
La prima riguarda la decisione del governo britannico, per mano della ministra Priti Patel, di estradare l’australiano Julian Assange, fondatore nel 2006 di Wikileaks, negli Stati Uniti. Ad Assange e Wikileaks si devono, tra l’altro, la rivelazione dei crimini di guerra statunitensi commessi in Afghanistan e Iraq. Prima un anno e mezzo agli arresti domiciliari, poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e infine negli ultimi 3 anni recluso in una prigione inglese di massima sicurezza, Assange è privo della libertà personale da quasi dodici anni senza aver subito una condanna (men che meno definitiva). In altri termini, è un cittadino innocente in attesa di un giudizio (di uno Stato straniero). Ha dovuto affrontare decisioni altalenanti dei giudici inglesi per poi subire un ordine di estradizione da parte della ministra Patel. Le sue condizioni fisiche e mentali lo espongono al rischio di perdere la vita. L’ultima speranza, sul piano giuridico, è affidata all’impugnazione dell’atto ministeriale da presentare entro un termine brevissimo e a un eventuale ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani.
La seconda concerne la decisione in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO nell’acronimo inglese) di raggiungere un accordo compromissorio nella materia dei brevetti sui vaccini che, in sostanza, lascia intatto l’attuale quadro normativo sulla proprietà intellettuale. In definitiva, l’accordo rigetta la proposta volta a sospendere tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini e dispositivi medici utili a contrastare il COVID-19. La proposta era stata avanzata da India e Sudafrica nell’ottobre del 2020 e poi sostenuta da molti Paesi nonché da un vasto movimento di opinione.
Cosa lega le due notizie? La fragilità della democrazia occidentale e di due dei suoi valori fondanti: la libertà (di informazione) e la solidarietà. In questi mesi, la comunicazione dei governi occidentali si concentra, retoricamente, sulle minacce esterne alla democrazia liberale – Russia e Cina in testa – ma tace sulle debolezze e le contraddizioni interne.
La decisione di estradare Assange viene da un governo conservatore, politicamente indebolito, di un Paese che, a seguito della Brexit, appare sempre più allo sbando e prono alla potenza americana. Come ha messo in evidenza Vincenzo Vita su Il Manifesto il meccanismo giuridico inglese che porta all’estradizione è “curioso”. La decisione finale spetta a un ministro. Cioè è una decisione non collegiale di un solo rappresentante del potere esecutivo. La culla della democrazia liberale mostra evidentemente tutte le sue fragilità.
La decisione di non sospendere i diritti di proprietà intellettuale chiude una danza macabra durata più di un anno e mezzo in cui hanno prevalso le pressioni delle Big Pharma per mantenere in piedi un sistema in cui decidono i poteri privati (e non gli elettori dei Parlamenti) e le strategie geopolitiche del blocco occidentale con l’Unione Europea in testa. Provando a immedesimarsi negli occhi di chi proviene da Paesi poveri sprovvisti di informazioni, conoscenze e tecnologie per la tutela della salute, tale decisione suona come l’ennesima manifestazione di arroganza del potere coloniale. Il colonialismo, infatti, non funziona solo commettendo genocidi e depredando risorse naturali, ma anche negando beni immateriali (la proprietà intellettuale) che servono a salvare vite umane. Nicoletta Dentico su Sbilanciamoci ha scritto incisivamente sulla vicenda utilizzando la metafora della guerra.
“L’economia della conoscenza scientifica ed i meccanismi legalizzati di ‘appropriazione della scienza’ (come sostengono accreditati economisti) da parte di Big Pharma, anche quando l’innovazione è generata con finanziamenti pubblici (come, ma non solo, nel caso di Covid-19), definisce un crinale di guerra aperta tra il Nord e il Sud del mondo. Nessuno si scandalizzi per il paragone con la guerra tra Russia e Ucraina. Anche questa lo è. […] Su questo fronte, come sul recente conflitto europeo, il multilateralismo esce a pezzi, in un dialogo tra sordi non più in grado di intercettare le istanze di cambiamento e di trovare una mediazione conveniente alla sfida delle future pandemie”.
La mobilitazione in giro per il mondo a favore di Assange può ancora provare a difendere la libertà di espressione. Nel nostro Paese è degna di nota la presa di posizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) che per bocca del suo segretario generale Raffaele Lorusso ha dichiarato che:
“La decisione del governo di Londra di consentire l’estradizione di Julian Assange negli Usa è un attacco alla libertà di informare”
La FNSI organizza per il 21 giugno presso la sua sede la presentazione dell’appello contro l’estradizione di Assange promosso dal premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquive alla quale saranno presenti, tra gli altri, Stefania Maurizi, Vincenzo Vita e Armando Spataro.
C’è da augurarsi che si moltiplichino anche le iniziative per difendere la solidarietà e riformare la proprietà intellettuale a livello internazionale e nazionale.
Libertà, eguaglianza e fratellanza (solidarietà). A forza di declamare principi e valori traditi dai fatti non solo perdiamo forza e credibilità verso le minacce provenienti da mondi diversi dal nostro, ma distruggiamo la nostra storia e la nostra identità.
L’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) ha iniziato a pubblicare il nuovo Dizionario della Scienza Aperta. Lo scopo dell’iniziativa è di pubblicare periodicamente brevi voci informative sul lessico dell’Open Science anche al fine di contrastare inesattezze e falsità sul mondo dell’apertura della conoscenza.
L’autore di un testo scientifico generalmente non guadagna dalla riproduzione e commercializzazione delle copie delle sue pagine. In particolare, l’autore di un articolo destinato a una rivista scientifica non ha interesse a ricevere un compenso economico, ma a veder diffuso, letto e criticato il suo contributo scientifico.
Nell’attuale sistema di valutazione della scienza scienza si ricorre al conteggio più o meno sofisticato delle citazioni ricevute dal contributo scientifico o dalla rivista dove è pubblicato al fine di redigere classifiche che influenzano lo sviluppo (o il declino) di università e dipartimenti nonché determinano la carriera degli scienziati. Questo perverso sistema induce una serie di distorsioni dell’autorialità scientifica. Tra queste distorsioni figura anche la pressione ad accettare contratti-capestro in cui l’editore impone al ricercatore la cessione gratuita dei diritti economici d’autore a fronte della pubblicazione. Una volta ceduti i diritti economici, è l’editore e non l’autore a decidere quale circolazione possa avere il testo.
L’editore inserisce il contributo in grandi banche dati digitali che vengono commercializzate a carissimo (e crescente) prezzo mediante licenze d’uso che attribuiscono non la proprietà sui contenuti ma semplicemente diritti d’uso. Nell’ambito della ricerca finanziata con fondi pubblici, i contribuenti pagano più volte la ricerca: finanziando lo stipendio, per il lavoro stabile o precario, dell’autore scientifico, del curatore della pubblicazione e del revisore dell’articolo, nonché acquisendo diritti d’uso su contenuti che rimangono nel controllo dell’editore. Inoltre, gli autori dei testi scientifici, che sono i principali fruitori delle banche dati scientifiche proprietarie, cedono gratuitamente i propri dati personali a un apparato commerciale che applica i dettami del capitalismo della sorveglianza all’editoria scientifica. Gli editori sono oggi imprese di analisi dei dati che sorvegliano il comportamento della comunità accademico-scientifica allo scopo di orientarne metodi di lavoro e finalità.
L’art. 42 della legge n. 633 del 1941 (legge sul diritto d’autore e sui diritti connessi), con riferimento a uno scenario tecnologico, economico e sociale completamente differente da quello contemporaneo, riconosce un limitato di diritto di ripubblicazione all’autore di articoli o di altre opere pubblicate in opere collettive. Ma fuori dai confini dell’Italia alcuni Paesi – Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio, Austria – hanno inserito nella propria legislazione un nuovo e più robusto diritto di ripubblicazione (messa a disposizione del pubblico) in Open Access. In alcune leggi, il diritto assume i tratti dell’irrinunciabilità e dell’inalianebilità. Qualsiasi tentativo da parte dell’editore di aggirare le prerogative dell’autore viene neutralizzato dalla legge.
Il diritto irrinciabile e inalienabile di ripubblicazione in accesso aperto costituisce espressione di autonomia e libertà di pensiero in ambito scientifico. Decidere se, quando e dove pubblicare e ripubblicare il proprio testo scientifico è espressione di libertà accademica. Il diritto di ripubblicazione in Open Access rappresenta una delle premesse giuridiche per restituire il controllo dei testi alla comunità scientifica.
“The ITRN meeting will be the first public event organized by ITRN in person The title of the meeting is “Provando e riprovando” which recalls the motto of the Accademia del Cimento, established in 1657 in Florence to implement Galileo’s experimental method
The meeting will be held on Friday 13 May from 01:50 pm to about 5:30 pm CEST, in the splendid setting of theSalone delle Robbiane, Villa La Quiete /AOU Meyer Firenze hosted by Tiziana Metitieri”.
Coordinamento scientifico: Prof. Roberto Caso e Dott.ssa Giulia Dore
ReCreating Europe: This project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 870626.
AISA pubblica una breve spiegazione di cos’è una rivista scientifica ibrida e di quali sono costi e rischi legati a questo modello commerciale. Il post si legge qui.
L’orribile guerra in atto vede un Paese aggredito (l’Ucraina) e un Paese aggressore (la Russia). Qualsiasi discussione sul conflitto, sulle responsabilità e sulle speranze di pace deve partire da tale dato di fatto e di realtà. Questa è anche la premessa delle riflessioni contenute nelle righe che seguono.
In alcune narrazioni correnti si presenta la guerra come uno scontro tra democrazie (l’Ucraina e i Paesi occidentali che la supportano) e autocrazie (la Russia e i suoi alleati). Se si condividono questa narrazione e i suoi presupposti concettuali, allora occorre ricordare che un pilastro delle democrazie moderne è costituito, storicamente, dalla libertà di stampa (e di informazione).
Le autocrazie invece comprimono o azzerano la libertà di espressione del pensiero e di accesso alle informazioni. E lo fanno, quando imbracciano le armi, anche per nascondere crimini di guerra. È di pochi giorni fa, il 28 marzo, la notizia della chiusura da parte delle autorità russe del periodico indipendente Novaja Gazeta diretto dal premio Nobel per la PaceDmitrij Muratov. Sulla Novaja Gazeta sono apparse, tra le altre, le inchieste di Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca nel 2006. Com’è noto, la giornalista russa si era impegnata a descrivere e denunciare (anche al mondo occidentale) gli abomini commessi durante la guerra in Cecenia.
Ma le nostre democrazie occidentali difendono ancora il principio costituzionale della libertà di informazione come proprio pilastro fondamentale? I motivi di preoccupazione rispetto a tale libertà sono molti e attengono al fatto (arcinoto) che lo scontro tra democrazia e autocrazia è anche interno agli stessi Paesi occidentali, pur non essendo immune da interferenze esterne.
Da questo punto di vista, la vicenda umana e giudiziaria di Julian Assange è esemplare. Assange è un informatico, giornalista e attivista australiano, fondatore nel 2006 di Wikileaks, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che pubblica sul web informazioni classificate (coperte da segreto di Stato) provenienti da fonti anonime. Attraverso apposite tecnologie – prima fra tutte la crittografia – Wikileaks protegge se stessa e le sue fonti.
La sua attività è divenuta di interesse globale quando nel 2010 ha iniziato a pubblicare informazioni riservate riguardanti le operazioni militari statunitensi in Iraq e Afghanistan. Il 5 aprile del 2010 Assange e i suoi collaboratori pubblicano un video del pentagono “Collateral Murder” nel quale si vede una scena risalente al luglio del 2007: un elicottero americano Apache mentre stermina civili inermi a Bagdad. Il video divenne subito virale. Lo ricorda Stefania Maurizi, giornalista investigativa e collaboratrice di Assange, in un libro importante – “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” – che ripercorre la storia del giornalista austrialiano e della sua organizzazione.
Sono passati 12 anni da quel 5 aprile. Giorno in cui uno dei crimini di guerra commesso da una democrazia occidentale divenne di dominio pubblico. In tutto questo tempo Assange è stato perseguitato e privato della propria libertà: prima rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e poi negli ultimi 3 anni recluso in una prigione inglese di massima sicurezzza. Ora la sua estradizione verso gli USA sembra vicina, come vicina sembra la pena detentiva a vita che dovrà scontare in terra americana.
Collaboratori, familiari e legali di Assange non si sono ancora arresi. Proveranno in ogni modo a impedire la sua estradizione e a farlo tornare in libertà. Dovremmo tutti essere grati a queste persone e a Stefania Maurizi in particolare che si batte da anni per avere giustizia su uno dei casi giudiziari più importanti degli ultimi decenni. Perché la libertà (personale) di Assange è anche la nostra libertà (di informazione).
Non possiamo dirci oppositori dell’autocrazia se non sappiamo (o non vogliamo) difendere il tratto più distintivo della nostra democrazia: la libertà di informazione.
“La democrazia muore nell’oscurità”. Così recita il motto di un noto quotidiano americano. Quelle parole oggi si riferiscono non solo al fumo delle bombe, ma anche alla coltre di segreti, menzogne e falsità che fanno velo sulle atrocità commesse dagli uomini dopo che quella stessa venefica polvere si è finalmente dissolta.
CAROLINA BATTISTELLA (2022), Trento Law and Technology Research Group, Student Paper Series; 75. Trento: Università degli Studi di Trento. DOI: 10.5281/zenodo.6393008
Si riproduce qui di seguito l’abstract.
Carolina Battistella: “La libertà di panorama è un’eccezione al diritto d’autore che permette di scattare e riprodurre fotografie di edifici, opere e luoghi pubblici, senza violare i diritti d’autore degli autori di tali opere. La libertà di panorama è stata introdotta a livello europeo con la Direttiva 2001/29/CE che, all’articolo 5, paragrafo 3, lett. h), rimette alla discrezionalità degli Stati membri dell’Unione Europea la facoltà di introdurre l’eccezione – ai diritti di riproduzione, comunicazione e messa a disposizione del pubblico – nelle proprie legislazioni nazionali “quando si utilizzino opere, quali opere di architettura o di scultura, realizzate per essere collocate stabilmente in luoghi pubblici”. In assenza di una disciplina comunitaria vincolante, i singoli Stati membri hanno adottato approcci differenti, e talvolta opposti, in materia di libertà di panorama, giungendo quindi ad un riconoscimento frammentario di tale eccezione, e così disattendendo lo scopo della Direttiva InfoSoc di armonizzare le discipline nazionali sul diritto d’autore. Nella società moderna, l’ampia diffusione di innovative tecniche di riproduzione digitale e la possibilità di condivisione istantanea di informazioni, rendono più frequente incorrere in violazioni del diritto d’autore dovute alla riproduzione di opere protette dal copyright e collocate stabilmente in luoghi pubblici. Negli ultimi anni, il livello minimo di armonizzazione dell’eccezione della libertà di panorama in ambito europeo è stato – e continua ad essere – oggetto di dibattito nel contesto della strategia europea del Digital Single Market. Ad oggi, tuttavia, ancora non è intervenuta una rivoluzionaria riforma del copyright europeo capace di introdurre l’eccezione della libertà di panorama obbligatoria, estesa a scopi commerciali, al fine di ridurre la frammentazione legislativa in materia di copyright in Europa.
Il presente elaborato si propone di fornire un quadro esaustivo sulla libertà di panorama che consenta di mettere in luce sia i limiti presenti nell’attuale scenario normativo europeo e nazionale che i vantaggi legati all’introduzione di un’eccezione obbligatoria per tutti gli Stati membri. Per comprendere la reale portata e le implicazioni della libertà di panorama, si effettuerà un’analisi comparata degli ordinamenti europei, italiano, statunitense e inglese.
Nel primo capitolo, oltre ad essere fornita la definizione di libertà di panorama e ad esserne spiegate le origini storiche, verrà ripercorsa l’evoluzione legislativa dell’eccezione a livello europeo e internazionale, fino all’attuale quadro normativo. Saranno poi illustrate e affrontate le problematiche che circondano tale eccezione. In particolare, sarà analizzata sia la complessa intersezione tra discipline concernenti l’utilizzo delle riproduzioni dei beni collocati in luoghi pubblici, non limitata al campo del diritto d’autore, sia le complicazioni derivanti dall’impiego di nuove tecniche di riproduzione digitale. Inoltre, sarà evidenziato come il conflitto tra discipline riguardi in realtà l’individuazione di un bilanciamento tra l’interesse pubblico alla fruizione delle opere collocate in luoghi pubblici e l’interesse privato dell’autore dell’opera allo sfruttamento economico dell’immagine del bene. Verranno dunque analizzati i principali stakeholder e i rispettivi interessi nell’ambito della libertà di panorama. Saranno infine affrontate le questioni aperte nell’attuale scenario normativo, relative all’ampiezza dell’eccezione e derivanti dalla frammentaria disciplina europea in materia. In particolare: le incertezze relative al mezzo di riproduzione, all’utilizzo della riproduzione per scopi commerciali – eventualmente limitata alle sole “immagini panoramiche” –, al significato di “luoghi pubblici” e al tipo di opere soggette alla libertà di panorama. Alla luce dell’attuale frammentazione delle legislazioni nazionali in materia di libertà di panorama, e della conseguente incertezza generata, verrà sostenuta la necessità di armonizzazione a livello europeo tramite l’introduzione di una libertà di panorama obbligatoria per tutti gli Stati membri ed estesa anche agli usi commerciali.
Il secondo capitolo si concentrerà sull’analisi dell’ordinamento italiano. L’Italia è uno degli Stati membri che, non avendo recepito nel suo ordinamento interno l’articolo 5, paragrafo 3, lett. h) della Direttiva 2001/29/CE, non prevede l’eccezione della libertà di panorama. Pertanto, nell’analisi delle normative che affrontano la questione della libertà di panorama in Italia, oltre a considerare il sistema di eccezioni e limitazioni previsto dalla legge sul diritto d’autore, occorrerà tenere conto anche delle disposizioni del Codice dei beni culturali in materia di riproduzioni, che fanno salva la disciplina del diritto d’autore e sanciscono così una sorta di doppio binario di protezione della cultura. Cercando di fare chiarezza sul complesso quadro normativo in materia, verrà analizzata l’ampiezza della libertà di panorama mettendo a confronto diverse tipologie di beni, distinguendo a seconda che si tratti di beni in pubblico dominio o di beni privati, e a seconda che questi siano esposti a pubblica vista oppure non siano visibili dall’esterno. Nel corso del secondo capitolo verranno anche affrontate sia le questioni legali che hanno coinvolto Wikimedia Italia per aver utilizzato le immagini di alcuni beni culturali senza autorizzazione, sia le complicazioni gestionali legate all’organizzazione del concorso fotografico Wiki Loves Monuments, dovute alle restrittive norme del Codice dei beni culturali. Sarà infine illustrata l’evoluzione del dibattito sulla libertà di panorama in Italia – senza tuttavia alcuna traduzione in pratica –, e saranno presentate le principali posizioni dottrinali intervenute nel dibattito sull’introduzione dell’eccezione nell’ordinamento giuridico italiano. Alla luce dell’attuale lacuna in materia di libertà di panorama nel nostro sistema legislativo, verrà pertanto auspicata l’introduzione a livello normativo di una disposizione ad hoc che riconosca la libertà di panorama anche per i beni culturali esposti permanentemente in luoghi pubblici.
Nel terzo capitolo sarà effettuata un’analisi comprata tra diversi ordinamenti, internazionali ed europei. In particolare, si vedrà che a livello europeo si possono distinguere quattro diversi approcci alla freedom of panorama: i) Stati membri in cui è consentito l’uso delle immagini per qualsiasi scopo senza remunerazione; ii) Stati membri in cui è consentito l’uso delle immagini panoramiche per qualsiasi scopo; Stati membri in cui è consentito l’uso delle immagini ritraenti un’opera specifica solo per scopi non commerciali; iii) Stati membri in cui è consentito l’uso delle immagini per soli scopi non commerciali; e iv) Stati membri in cui non è prevista la freedom of panorama. Saranno inoltre oggetto di studio l’ordinamento inglese e quello statunitense”.
Abstract: “Nel campo dei farmaci e dei vaccini mercato e proprietà intellettuale non funzionano. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano tutta l’innovazione necessaria, si basano su opacità e conflitti di interesse. Nel rapporto tra ricerca pubblica e società i brevetti universitari su farmaci e vaccini giocano un ruolo importante. La tesi presentata in questo seminario è la seguente: il compito dell’università non è quello di chiudere la conoscenza attraverso la proprietà intellettuale su beni essenziali quali i vaccini, ma di praticare la scienza aperta”.
J.L. Contreras, Chapter 14: Academic Technology Transfer (January 1, 2021). Jorge L. Contreras, Intellectual Property Licensing and Transactions: Theory and Practice (ver. 0.9, Cambridge Univ. Press, 2021, Forthcoming), Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3772916
J.L. Contreras, ‘In the Public Interest’ – University Technology Transfer and the Nine Points Document – An Empirical Assessment (December 21, 2021). University of Utah College of Law Research Paper No. 476, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3990450 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3990450
N. Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020
D. G Legge, S. Kim (2021) Equitable Access to COVID-19 Vaccines: Cooperation around Research and Production Capacity Is Critical, Journal for Peace and Nuclear Disarmament, 4:sup1, 73-134, DOI: 10.1080/25751654.2021.1906591
Università di Trento, Facoltà di Giurisprudenza, 11 marzo 2022, ore 15.00, aula 1
Prendendo spunto da due documenti recenti (v. qui e qui) il Prof. Roberto Caso dialoga con alcuni studenti dell’ateneo trentino sulle trasformazioni in atto nell’università.
Riferimenti (ineluttabilmente: nomen omen) “casuali”
AA. VV. (portavoce: Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi), Discorso degli Allievi della Classe di Lettere, Consegna dei diplomi, Scuola Normale Superiore, Pisa, 9 luglio 2021
AA. VV. (portavoce: Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi), Discorso degli Allievi della Classe di Lettere, Consegna dei diplomi, Scuola Normale Superiore, Pisa, 9 luglio 2021
Nelle ultime settimane il dibattito sul contrasto tra proprietà intellettuale e diritti umani fondamentali (diritto alla vita, diritto alla salute, diritto alla scienza) si è nutrito di alcune notizie riguardanti brevetti e segreti industriali sui vaccini anti-COVID19.
a) Due ricercatori, Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi, sono stati candidati al premio Nobel per la pace per aver messo a punto, sulla scorta di studi condotti negli USA all’interno del Texas Children’s Hospital e del Baylor College of Medicine, un vaccino anti COVID-19 privo di brevetti: il CORBEVAX.
b) Un’azienda sudafricana che opera a Cape Town nell’ambito dell’hub di trasferimento tecnologico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha quasi completato la riproduzione del vaccino Moderna, senza la collaborazione di quest’ultima. Insomma, ha compiuto un processo di ingegneria inversa: ha decostruito e poi ricostruito la tecnologia vaccinale della compagnia americana. Nel frattempo la richiesta di concessione a Moderna di brevetti in Sudafrica ha messo in allarme questo tipo di progetto. L’ingegneria inversa del vaccino potrebbe finire in tribunale qualora Moderna decida di far causa all’impresa sudafricana per violazione dei suoi brevetti.
d) La Presidente della Commissione Europea Ursula von Der Leyen è oggetto di alcune inchieste sulla scarsa trasparenza dei sui rapporti con le Big Pharma. Ne dà conto in una serie di articoli del quotidiano Domani la giornalista Francesca De Benedetti.
e) L’Unione Europea ha respinto la richiesta dell’Unione Africana (UA) di sospensione a livello del trattato internazionale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dei brevetti sui vaccini anti-covid. Nella dichiarazione congiunta frutto dell’incontro da poco conclusosi tra UE e UA, l’Europa afferma di voler andare oltre la logica della donazione dei vaccini del meccanismo COVAX – finora dimostratosi fallimentare – e di supportare i progetti in corso per allineare la produzione di farmaci e vaccini in Africa ai bisogni del continente. In altre parole, buone intenzioni per il futuro che contrastano con un presente incentrato sulla difesa a oltranza delle industrie farmaceutiche detentrici della proprietà intellettuale.
Volendo trarre una sintesi da questi fatti si evince che le posizioni, dopo due anni di pandemia, rimangono quelle di partenza. Da una parte, c’è chi difende il sistema del capitalismo dei monopoli intellettuali basato su individualismo, competizione e profitto e dall’altra c’è chi lo sfida sulla scia di principi etici, invocati più volte da Papa Francesco e da molti altri, quali la cooperazione, la solidarietà, i beni comuni della conoscenza e la scienza aperta.
Ma al di là dei fatti che diventano notizie diffuse dai mass media sta maturando nel dibattito scientifico e nel suo riflesso divulgativo una riflessione profonda che va oltre misure emergenziali come la sospensione a livello di trattati internazionali dei brevetti sui vaccini.
La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).
1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.
2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.
3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.
4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.
5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.
6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.
7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica, fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).
Un altro esempio di riflessione che va oltre le misure emergenziali e che si lega al punto 7) della ricetta di Garattini è il libro dell’economista Massimo Florio edito da Laterza e intitolato “La privatizzazione della conoscenza“. L’alternativa ai monopoli ed oligopoli intellettuali, come quelli delle Big Pharma, è rappresentata da grandi imprese pubbliche europee di infrastruttura di ricerca e sviluppo. Una di queste “Biomed Europa” sarebbe destinata non solo alla ricerca ma anche alla produzione e alla distribuzione di nuovi farmaci. La proposta da Massimo Florio e altri suoi colleghi è stata presentata al Parlamento Europeo lo scorso dicembre 2021.
L’ultimo esempio che vale la pena citare è rappresentato dal libro del giurista americano Tim Wu intitolato emblematicamente “La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia” (Il Mulino, 2021). In questo pamphlet Wu sostiene che occorre urgentemente tornare a un’aggressiva politica antimonopolistica che blocchi le concentrazioni e provveda, quando necessario, allo smembramento delle grandi compagnie monopolistiche od oligopolistiche. Non si tratta solo di una questione di mercato, ma di democrazia. Ritornando alla storia dei primi decenni del ‘900, Wu ripercorre le tappe che portarono in Germania e in Giappone all’alleanza tra monopoli industriali e regimi totalitari.
Non sorprende che tra gli esempi dei grandi oligopoli dell’era contemporanea ci siano le Big Pharma. A pag. 121 si legge “il settore farmaceutico, che era stato opportunamente frammentato, ha attraversato un enorme processo di concentrazione tra il 1995 e il 2015, quando migliaia di aggregazioni hanno ridotto il mercato internazionale da oltre 60 imprese a circa 10”.
Insomma, il dibattito sulle disuguaglianze e sui rischi per la democrazia ingenerati dai grandi monopoli e oligopoli intellettuali sta maturando. Non resta che tradurlo in politica e diritto. C’è qualcuno in ascolto?
Si tratta di pagine chiare e preziose. Una guida agile e lucida per accedere al grande dibattito internazionale sui problemi dell’attuale sistema di produzione dei farmaci.
Il sistema si basa sul mercato e sulla proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, segreti industriali, marchi, diritti d’autore). La tesi del grande farmacologo italiano è netta: mercato e proprietà intellettuale funzionano molto male. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano innovazione, si basano su opacità e conflitti di interesse. Le argomentazioni sono solide, corredate da numeri e fatti, nonché da alcuni essenziali riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo.
“Se le attuali regole di mercato, di proprietà intellettuale e di profitto, non garantiscono l’accesso alla salute a tutti i cittadini, forse vanno riformate, fatte evolvere in modo da mettere al centro l’interesse dei pazienti e della società” [p. 26]
La pandemia da COVID-19 ha riportato tragicamente sotto riflettori tutti i difetti dell’attuale politica di produzione dei farmaci. La globalizzazione ha edificato alla metà degli anni ’90 uno stringente apparato di protezione di diritti di proprietà intellettuale che copre dispositivi medici, farmaci e vaccini sull’assunto che più diritti di esclusiva avrebbero portato a più innovazione. Ma questo assunto nel tempo si è dimostrato infondato.
La proprietà intellettuale ha favorito l’emersione di monopoli e il mercato ha smesso di innovare: è possibile – denuncia Garattini – brevettare e mettere in commercio farmaci che non presentano un reale avanzamento in termini di cura (“valore terapeutico aggiunto”) [pp. 37, 48, 89-90]. Gli Stati hanno consegnato tutto il potere alle grandi industrie farmaceutiche, le quali producono solo quel che promette di generare profitto e non necessariamente ciò di cui la gente ha bisogno.
Buona parte dell’innovazione si deve alla ricerca di base di università, enti e istituti di ricerca finanziati con i fondi pubblici (i soldi dei cittadini), ma questa innovazione finisce per essere privatizzata dalle industrie farmaceutiche. Rastrellamento di brevetti universitari, cannibalizzazione di società nate in ambito universitario (spin-off e start-up) [p. 33], appropriazione dei risultati della ricerca (pubblicazioni e dati) messi in accesso aperto su Internet sono alcuni esempi di privatizzazione.
I cittadini comprano a prezzi monopolistici direttamente o indirettamente – in Italia tramite il Sistema Sanitario Nazionale per i prodotti a carico dello Stato inseriti in un’apposita lista – i farmaci che sono stati sviluppati anche grazie alle tasse da loro stessi versate. Insomma, pagano due volte la stessa cosa: la prima volta versando le tasse che vanno alla ricerca pubblica, la seconda volta acquistando il farmaco. Di più, il prezzo del farmaco non include solo la rendita monopolistica ma anche una quota che serve a coprire costi delle industrie totalmente slegati da ricerca e innovazione: lobbying presso decisori pubblici (legislatori, agenzie di controllo ecc.) nonché presso i medici, pubblicità del marchio, altre spese di commercializzazione [p. 76].
Le malattie rare e i c.d. farmaci orfani che non presentano prospettive di guadagno sono fuori dal radar delle industrie farmaceutiche [pp. 78-79]. I Paesi poveri che non possono permettersi i prezzi monopolistici sono espulsi dal mercato della salute. A quest’ultimo proposito, la storia ci ripropone la catastrofe morale che ha visto negare le cure per l’HIV/AIDS e l’epatite C ad ampie fasce della popolazione. La distribuzione dei vaccini contro il SARS Cov-2 è palesemente sbilanciata: mentre il ricco Occidente fornisce la terza e la quarta dose del siero, i Paesi a basso reddito non riescono a somministrare nemmeno la prima. L’ineguale distribuzione dei vaccini causa ingiustizia e moltiplica il rischio che si diffondano nuove pericolose varianti del virus. Una rapida ed eguale distribuzione dei vaccini su scala globale avrebbe evitato molti morti e consentito di uscire in breve tempo dalla pandemia.
Anche le agenzie di controllo dei farmaci non funzionano in modo ottimale, sebbene il quadro sia molto migliorato rispetto dagli anni ’50. Gli studi clinici (trials) su qualità, efficacia e sicurezza sono demandati alle stesse industrie farmaceutiche che producono i farmaci, con evidente conflitto di interessi [pp. 90-93]. I dati relativi alle sperimentazioni cliniche sono oggetto di un’esclusiva ad hoc (c.d. data exclusivity) che può aggiungersi al brevetto per invenzione. A questo proposito ha fatto scalpore il recente editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare adesso i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal.
La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).
1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.
2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.
3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.
4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.
5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.
6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.
7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).
Quale dovrebbe essere il risultato della riforma del sistema brevettuale e della sperimentazione di forme di ricerca e imprenditorialità non-profit? Si potrebbe indurre una sana competizione tra industrie ed enti non-profit favorendo lo sviluppo di farmaci migliori e a più basso costo.
Garattini mostra di saper contemperare visione e pragmatismo.
“Forse in un mondo come quello di oggi non è possibile trovare una soluzione unica, ma è necessario mettere a punto diverse misure; quello che non va trascurato nei discorsi pratici è l’obiettivo finale: garantire l’accesso alla salute a tutti i cittadini, come dichiarato dalla nostra Costituzione e nei principi dell’Organizzazione mondiale della sanità” [p. 113]. “[…] Nel complesso, sul breve e lungo periodo, quello di una riforma di questo sistema è comunque un processo che prevede piccole tappe; un percorso che può avvenire su strade che possono correre in parallelo o magari in direzioni opposte ed essere contradditorie, perché il progresso è fatto di errori: trials and errors, esperimenti ed errori” [p. 114].
Nel libro Garattini non solo suggerisce le linee guida per un cambiamento radicale delle politiche di produzione dei farmaci – politiche che evidentemente sono nelle mani dei decisori pubblici -, ma ricorda anche di aver messo in pratica i fondamentali principi etici che le ispirano (pp. 73-75). Infatti, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS ha una prospettiva della ricerca schiettamente anti-brevettuale. Sul sito web dell’istituto la ragione dell’ostilità verso i brevetti è spiegata in un’apposita pagina: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche?”. La risposta è: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare.
“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.
La scelta di rinunciare ai brevetti non riflette solo i celebri precedenti di Salk e Sabin, ma sembra trovare conferme anche in questi giorni con la promessa di un nuovo vaccino anti-COVID-19 libero dalla proprietà intellettuale: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi per la ricerca che fa capo al Texas Children’s Hospital e al Baylor College of Medicine. Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma per la produzione dei vaccini a mRNA. Il vaccino privo di brevetti costituisce un modello importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.
Il libro si chiude con un sogno. Si può immagine un futuro in cui la salute possa prescindere da mercato e proprietà intellettuale. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di:
“[…] giungere a una società più matura e con più ideali, in cui la ricerca in ambito medico e di salute pubblica non dovrebbe essere stimolata dal profitto, ma piuttosto da riconoscimenti di gratitudine pubblica. Potrebbe essere l’epoca in cui la medicina non è più un ‘mercato’ , ma un’organizzazione al servizio di chi soffre. […] Diversi lettori potrebbero giudicare tutto questo un’ingenuità e un sogno. Tuttavia, sognare […] è pur sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà” [p. 125].
Le pagine del volume meritano un’attenta lettura, soprattutto da parte dei giovani, perché rappresentano la straordinaria testimonianza di chi, in 70 anni di esperienza nel campo della scienza dei farmaci, ha saputo coniugare amore per la conoscenza, capacità organizzativa e dedizione per la cura delle persone. Un messaggio in grado di ispirare chi non ha perso la speranza di poter cambiare in meglio il mondo: a cominciare dalla realizzazione dei fondamentali diritti alla salute e alla scienza.
Nelle ultime settimane hanno avuto risonanza due notizie.
1) La messa a punto da parte del Texas Children’s Hospital e del Baylor College of Medicine di un vaccino anti COVID-19 privo di brevetti: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi.
2) Un editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare immediatamente i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.).
Cosa lega le due notizie? Una concezione della lotta contro la pandemia basata su beni comuni della conoscenza e scienza aperta.
Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma. Il vaccino privo di brevetti costituisce una promessa importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.
I vaccini delle Big Pharma occidentali poggiano oltre che su una fittissima rete di brevetti e sul segreto commerciale anche su dati di sperimentazione clinica tenuti riservati in base a una legge speciale (c.d. esclusiva sui dati). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal. Ferma restando la fiducia nei vaccini come uno degli strumenti fondamentali per la prevenzione della malattia, occorre che tutti possano accedere ai dati dei trials e condividerli per effettuare le opportune verifiche e praticare una delle norme fondanti della scienza: lo scetticismo organizzato. La scienza, infatti, non può esistere senza la pubblicità e la riproducibilità dei dati.
Tra i maggiori ostacoli a vaccinare il mondo spiccano: la proprietà intellettuale e la diffidenza verso i vaccini. La proprietà intellettuale è una delle ragioni per le quali nel sud del mondo pochi hanno accesso ai vaccini. La ritrosia a vaccinarsi riguarda soprattutto i sieri incentrati sulle nuove tecnologie vaccinali come quelle a mRNA.
Viene da chiedersi, riavvolgendo il nastro della storia a due anni fa, se l’evoluzione della pandemia sarebbe stata diversa in un mondo disposto fin da subito a puntare tutto sulla cooperazione e sulla condivisione della conoscenza. Forse avremmo meno paure irrazionali, meno disuguaglianze e persino meno morti e malati.
Per non ripetere gli errori fin qui commessi occorre ripensare profondamente il nostro sistema di ricerca e il nostro sistema sanitario. Cambiare paradigmi consolidati è, come ha rilevato Maria Elena Bottazzi, moralmente necessario.
Da dove cominciare? Dal rapporto tra ricerca finanziata con fondi pubblici e proprietà intellettuale.
Un esempio viene dalla politica anti-brevettuale del prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS. Perché rinunciare ai brevetti? La risposta è sul sito web dell’istituto: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare. “Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.
Jamie Zawinski (program); Church of emacs (screenshot), CC Atribution, https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9b/The.Matrix.glmatrix.2.png/640px-The.Matrix.glmatrix.2.png
Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti l’interazione, nel diritto dell’Unione Europea, tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.
La riflessione è innescata da una novità nella politica normativa dell’Unione Europea di apertura dei dati nel settore pubblico. La direttiva 2019/1024/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (“Open Data directive” o “direttiva dati aperti”) determina un cambio di rotta sui dati della ricerca (art. 10, considerando 27 e 28), prima esclusi dalla materia e oggi invece oggetto di disciplina.
La tesi di questo scritto è la seguente. Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti per testi, dati e codici occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati. Da questa politica normativa dipende il futuro dell’autonomia e della libertà delle istituzioni di ricerca (prime fra tutte: le università) e in, ultima analisi, della democrazia.
Sommario
Introduzione
Scienza aperta o proprietà intellettuale?
Controllo dei dati e degli algoritmi
Controllo delle infrastrutture
Conclusioni
1. Introduzione
Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti, nel diritto dell’Unione Europea, l’interazione tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.
L’art. 10 (dati della ricerca) della dir. 2019/1024/UE così recita:
“1. Gli Stati membri promuovono la disponibilità dei dati della ricerca adottando politiche nazionali e azioni pertinenti per rendere (‘politiche di accesso aperto’) secondo il principio dell’apertura per impostazione predefinita e compatibili con i principi FAIR. In tale contesto, occorre prendere in considerazione le preoccupazioni in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali, in conformità del principio «il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario». Tali politiche di accesso aperto sono indirizzate alle organizzazioni che svolgono attività di ricerca e alle organizzazioni che finanziano la ricerca.
2. Fatto salvo l’articolo 1, paragrafo 2, lettera c), i dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente ai capi III e IV, nella misura in cui tali ricerche sono finanziate con fondi pubblici e ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca li hanno già resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica. In tale contesto viene tenuto conto degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti”.
Dall’articolo emergono cinque principi sui dati della ricerca in riferimento all’obbligo rivolto agli Stati membri di adottare politiche nazionali e azioni pertinenti (“politiche di accesso aperto”):
1) apertura per impostazione predefinita;
2) compatibilità con le caratteristiche Findability, Accessibility, Interoperability, Reusability (FAIR), in italiano: reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità;
3) riutilizzabilità a fini commerciali e non commerciali nella misura in cui le ricerche sono finanziate con fondi pubblici e i dati sono stati resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica;
4) i primi tre principi devono prendere in considerazione le “preoccupazioni” (“concerns” nella versione inglese) in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali e devono “tener conto” degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti.
5) il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario (“as open as possible, as closed as necessary”).
Il principio n. 4) è, ai fini di questo scritto, quello più problematico. La sintesi tra le opposte esigenze di apertura e chiusura dovrebbe trovare espressione nel principio n. 5). Insomma, l’art. 10 getta un ponte tra politiche dei dati aperti nel settore pubblico e politiche in materia di Open Science: principi FAIR e principio “il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario” sono, infatti, importati dalla politica europea in materia di scienza aperta.
La dir. 2019/1024/UE ha reso necessario un riordino normativo (rifusione) delle norme adottate nel 2003 (dir. 2003/98/CE, relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico) e nel 2013 (dir. 2013/37/UE, che modifica la dir. 2003/98/CE), non più adeguate al nuovo scenario tecnologico caratterizzato, tra l’altro, da Big Data, intelligenza artificiale e Internet delle cose [Pascuzzi 2020, 274]. Tale normativa incrocia ora la strategia europea in materia di dati, composta a sua volta di molteplici iniziative normative, e la nuova politica normativa in campo digitale.
Lo slogan che sintetizza sul sito web di riferimento la strategia europea in materia dei dati è formulato nel modo seguente:
“La strategia europea in materia di dati mira a fare dell’UE un leader in una società basata sui dati. La creazione di un mercato unico dei dati consentirà a questi ultimi di circolare liberamente all’interno dell’UE e in tutti i settori a vantaggio delle imprese, dei ricercatori e delle amministrazioni pubbliche.
Le singole persone, le imprese e le organizzazioni dovrebbero essere messe in grado di adottare decisioni migliori sulla base delle informazioni derivate da dati non personali”.
Tralascio considerazioni sugli obiettivi politici e sulla retorica di questo testo. Mi limito a osservare che il termine strategia è largamente abusato nei documenti politici e amministrativi, ma in questo caso il suo uso metaforico ha un nesso con l’etimologia militare. L’Unione Europea è nella tenaglia delle due superpotenze digitali (USA e Cina), e prova – almeno a parole – a difendere la propria autonomia facendo geopolitica dei dati.
“1. I dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente a quanto previsto dal presente decreto legislativo, nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali, ove applicabile, degli interessi commerciali, nonché della normativa in materia di diritti di proprietà intellettuale ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, e dei diritti di proprietà industriale ai sensi del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.
2. La previsione del comma 1 si applica nelle ipotesi in cui i dati siano il risultato di attività di ricerca finanziata con fondi pubblici e quando gli stessi dati siano resi pubblici, anche attraverso l’archiviazione in una banca dati pubblica, da ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca, tramite una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica.
3. I dati della ricerca di cui ai commi precedenti rispettano i requisiti di reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità”.
Il d.lgs 2006/36 fornisce all’art. 2 le definizioni di “dati della ricerca” e “dato pubblico”.
“Dati della ricerca: documenti informatici, diversi dalle pubblicazioni scientifiche, raccolti o prodotti nel corso della ricerca scientifica e utilizzati come elementi di prova nel processo di ricerca, o comunemente accettati nella comunità di ricerca come necessari per convalidare le conclusioni e i risultati della ricerca”.
“Dato pubblico: il dato conoscibile da chiunque”.
Il considerando 27 della dir. 2019/1024/UE offre alcuni esempi di dati della ricerca:
“[…] Sono dati della ricerca per esempio le statistiche, i risultati di esperimenti, le misurazioni, le osservazioni risultanti dall’indagine sul campo, i risultati di indagini, le immagini e le registrazioni di interviste, oltre a metadati, specifiche e altri oggetti digitali. I dati della ricerca sono diversi dagli articoli scientifici, in cui si riportano e si commentano le conclusioni della ricerca scientifica sottostante […]”.
L’art. 9-bis del d.lgs 2006/36 tace sulle “politiche nazionali di accesso aperto”, implicitamente rinviando ad altre sedi l’attuazione dell’obbligo della loro adozione (v. conclusioni di questo scritto a margine del Piano Nazionale per la Scienza Aperta preannunciato dal Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027), e mette in esponente il “principio di riutilizzabilità”.
A prima vista l’affermazione del “principio di riutilizzabilità” dei dati pubblici (non segreti, non riservati) della ricerca finanziata con fondi pubblici (derivanti dallo Stato) appare superflua. Secondo l’impostazione giuridica tradizionale i dati non possono essere oggetto né di proprietà (intesa in senso proprio, cioè come proprietà su beni tangibili, cose), né di proprietà intellettuale. Tuttavia, l’impostazione tradizionale appare contraddetta dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi decenni che vede un’inarrestabile espansione della proprietà intellettuale sempre più vicina a comprendere i mattoni di base della conoscenza (dati e informazioni), la comparsa di forme anomale di esclusiva giuridica (“pseudo-proprietà intellettuale”) e l’emersione del controllo esclusivo di fatto basato sul potere tecnologico. Tra le forme anomale di esclusiva vanno annoverati, ad esempio, la titolarità dei dati da parte della PA, l’interazione tra contratto e misure tecnologiche di protezione dei dati e, in campo biomedico, l’esclusiva sui dati dei trials clinici. Il linguaggio della prassi spesso si riferisce a queste forme di controllo con l’espressione “proprietà dei dati” o “titolarità dei dati”.
Chi è promotore della scienza aperta dovrebbe accogliere con favore l’affermazione sul piano legislativo del principio di riutilizzabilità dei dati della ricerca. Tuttavia, per come formulato e disciplinato, a cominciare dalla clausola di salvezza “nel rispetto …” della proprietà intellettuale, il principio rischia di essere inutile. Ciò per diversi ordini di ragione.
a) La scienza aperta è inconciliabile con la continua espansione della proprietà intellettuale [David 2003]. L’Unione Europea e l’Italia non mostrano alcuna intenzione di voler invertire la tendenza espansiva della proprietà intellettuale. Anzi, i documenti programmatici – come il Piano di Azione della Commissione UE sulla proprietà intellettuale e la strategia sulla proprietà industriale del Ministero dello Sviluppo Economico – e le ultime normative – ad es. la direttiva 2019/790/UE -, provano esattamente il contrario: l’obiettivo è quello di rafforzare la proprietà intellettuale. Nemmeno la pandemia ha indotto un ripensamento [Caso 2020c]. Basterà qui ricordare che l’Unione Europea figura tra i più strenui oppositori della richiesta di sospensione dei TRIPS (gli accordi sulla proprietà intellettuale nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), una misura temporanea che non mette in discussione il quadro di fondo [Caso 2021].
b) Il principio di riutilizzabilità non prevale sulla proprietà intellettuale, ma – come si è detto – la fa salva (considerando 54-56, art. 1.2 c) e d), art. 1.5) dir. 2019/1024/UE; art. 9-bis d.lgs. 2006/36).
c) Decenni di politiche di finanziamento e valutazione della ricerca hanno esaltato l’idea di premiare la c.d. “eccellenza”, instaurando un regime valutativo meritocratico, concentrando i fondi su pochi e scatenando una competizione tra ricercatori e tra istituzioni della ricerca per l’accaparramento delle poche risorse a disposizione. Le tradizionali norme informali della scienza aperta volte al comunismo della conoscenza sono state investite da pressioni che spingono a tenere i dati riservati. Di più, i ricercatori finanziati con fondi pubblici sono incentivati tramite regole valutative e prospettive di guadagno a reclamare diritti di proprietà intellettuale funzionali al trasferimento della tecnologia alle imprese, vero e proprio mantra delle politiche dell’innovazione.
d) L’apertura dei dati della ricerca deve tener conto di chi ha la disponibilità delle infrastrutture e del potere computazionale per poterli elaborare. Al momento molte di queste infrastrutture fisiche e logiche sono in mano a oligopoli commerciali che si trovano per la maggior parte fuori dell’Unione Europea. Il tema è ben presente alle istituzioni unionali, ma le misure finora messe in campo non sembrano sufficienti a risolvere il problema. L’apertura dei dati, senza infrastrutture al servizio di tutti, rischia di alimentare il potere degli oligopoli, il quale produce, tra l’altro, disuguaglianza.
Si determina perciò un circolo vizioso. Le regole valutative incidono sulle norme sociali della scienza diminuendo la propensione a condividere i dati della ricerca. D’altra parte, in modo contradditorio, le politiche in materia Open Science spingono a condividere e ad aprire su Internet i dati mediante licenze che ne determinano – anche giuridicamente – la totale perdita di controllo [Pievatolo 2020b]. I dati aperti finiscono sotto il controllo delle piattaforme Internet che li difendono con la proprietà intellettuale e la pseudo-proprietà intellettuale nonché li elaborano con algoritmi a loro volta difesi da proprietà intellettuale (segreto commerciale). Parte di questo potere di controllo e computazione dei dati è usata per alimentare la valutazione bibliometrica, la quale genera il potere oligopolistico delle piattaforme che operano in campo scientifico. Questo ecosistema della proprietà intellettuale e della privatizzazione dei dati della ricerca mette a rischio le norme sociali della scienza volte al comunismo della conoscenza e in ultima analisi la democrazia [Pagano 2021].
Fig. 1: Il circolo vizioso di privatizzazione dei dati della ricerca
Il resto di questo scritto è organizzato nel modo seguente. Nel paragrafo 2 si mette in evidenza la contraddizione delle politiche europee: da un lato, promozione della scienza aperta, dall’altro, rafforzamento della proprietà intellettuale. Nel paragrafo 3 si descrivono le dinamiche di privatizzazione dei dati aperti basate sul controllo esclusivo di dati e algoritmi. Nel paragrafo 4 si passano in rassegna alcune proposte di cambiamento nella politica delle infrastrutture di ricerca col fine di restituire a settore pubblico, università, enti e istituti di ricerca il controllo dei dati. Nel paragrafo 5 si traggono alcune conclusioni anche in relazione al panorama italiano.
– la valutazione della ricerca (nuove metriche e un sistema di premi, incentivi e riconoscimenti ai ricercatori che praticano la scienza aperta);
– l’etica della ricerca (integrità e riproducibilità dei risultati);
– la formazione e le competenze in materia di scienza aperta;
– il coinvolgimento dei cittadini nella scienza (citizen science).
Tuttavia, sul piano dell’armonizzazione del diritto degli Stati membri l’intervento è stato limitato. I due interventi più direttamente pertinenti alla materia sono:
2) l’art. 10 della dir. 2019/1024/UE di cui qui si discute e che eleva a principio legislativo l’obbligo di adottare politiche nazionali di accesso aperto.
D’altra parte, sul fronte della proprietà intellettuale si marcia, come si è accennato nel primo paragrafo introduttivo, verso il continuo rafforzamento delle esclusive. Non è solo una questione di ampliamento delle esclusive esistenti, ma anche di proliferazione di nuovi diritti di esclusiva esclusiva [Resta 2011]: ad es., nuovi diritti connessi al diritto d’autore [Sganga 2021]. Questa legislazione alluvionale non presenta nemmeno definizioni condivise dei concetti fondamentali: dato e informazione. E deve coordinarsi con normative come quelle sugli Open Data e protezioni dei dati personali che definiscono in modo settoriale alcune nozioni (innanzitutto, la nozione di dato) [Guarda 2021, 11 ss.]. Insomma, il quadro legislativo si fa via via più intricato e confuso. Emerge plasticamente una contraddizione finora insoluta: da una parte, si promuove l’Open Science, dall’altra, si rafforza la proprietà intellettuale [Caso 2020a, 39].
Ad esempio, il diritto d’autore in linea di principio non conferisce un’esclusiva sui dati ma sulle opere dell’ingegno originali. Dell’opera dell’ingegno non sono vietati tutti gli usi. Si possono riprodurre le idee, i fatti, le informazioni e, appunto, i dati che compongono l’opera dell’ingegno. Non si può invece riprodurre la forma espressiva dell’opera. Il principio è conosciuto con la formula della distinzione tra idea (non protetta) ed espressione (protetta) o dicotomia idea/espressione. Ebbene, per quanto di difficile e controversa interpretazione (le definizioni giurisprudenziali di opera, idea, fatto e dato sono “liquide”), il principio ha costituito per molto tempo un baluardo della libertà di informazione ed espressione nonché della libertà di ricerca. Tuttavia, una serie di modifiche normative ne hanno ridotto la portata.
In particolare, la direttiva 1996/9/CE (direttiva banche dati) ha istituito un diritto sui generis (un diritto distinto dal diritto d’autore) in capo al costitutore di una banca dati.
La direttiva definisce la nozione di “banca dati”.
Per “Banca di dati” si intende una raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili grazie a mezzi elettronici o in altro modo.
L’art. 7.1 e 7.4 della dir. 1996/9/CE così statuiscono:
“1. Gli Stati membri attribuiscono al costitutore di una banca di dati il diritto di vietare operazioni di estrazione e/o reimpiego della totalità o di una parte sostanziale del contenuto della stessa, valutata in termini qualitativi o quantitativi, qualora il conseguimento, la verifica e la presentazione di tale contenuto attestino un investimento rilevante sotto il profilo qualitativo o quantitativo. […]
4. Il diritto di cui al paragrafo 1 si applica a prescindere dalla tutelabilità della banca di dati a norma del diritto d’autore o di altri diritti. Esso si applica inoltre a prescindere dalla tutelabilità del contenuto della banca di dati in questione a norma del diritto d’autore o di altri diritti. La tutela delle banche di dati in base al diritto di cui al paragrafo 1 lascia impregiudicati i diritti esistenti sul loro contenuto”.
La direttiva si proponeva di incentivare la creazione di un florido mercato delle banche dati attraverso l’istituzione di un nuovo diritto di esclusiva (un diritto connesso al diritto d’autore). L’equazione alla base dell’intervento normativo era: più proprietà intellettuale = più innovazione. Insomma, la nuova esclusiva avrebbe dovuto aiutare le imprese europee nella competizione globale e in particolare nella competizione con gli USA.
L’equazione si è rivelata errata. Gli Stati Uniti pur non essendo – o forse, proprio per non essere – dotati di un diritto equivalente al diritto sui generis europeo hanno stravinto la competizione. La Commissione UE nel valutare l’impatto della direttiva ha, per ben due volte – nel 2005 e nel 2018 -, dovuto ammettere che non ci sono prove sull’impatto del diritto sui generis nella produzione di database. Nonostante ciò, la Commissione ha deciso di lasciare inalterata la direttiva.
Ma ora il vento sembra cambiare (almeno con riferimento alla direttiva banche dati). Nella strategia europea dei dati la parola d’ordine è diventata: condivisione [van Eechoud 2021].
Non a caso, l’art. 1.6 della dir. 2019/1024/UE (direttiva dati aperti) statuisce che:
“6. Il diritto del costitutore di una banca di dati di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 96/9/CE non è esercitato dagli enti pubblici al fine di impedire il riutilizzo di documenti o di limitare il riutilizzo oltre i limiti stabiliti dalla presente direttiva”.
La spinta verso la condivisione dei dati si vede anche meglio nella proposta del Data Governance Act (condivisione da parte del settore pubblico di dati non aperti e condivisione di dati tra imprese) e nelle premesse di quella che diventerà la proposta del Data Act (condivisione dei dati detenuti dalle imprese con il settore pubblico).
Tuttavia, nonostante tale spinta verso la condivisione dei dati, spalmata su un ventaglio di iniziative normative difficili da ricondurre a un sistema organico, il progressivo e inarrestabile rafforzamento della proprietà intellettuale continua a contrapporsi allo sviluppo della scienza aperta.
Un esempio è costituito dalla controversa direttiva 2019/790/UE (direttiva copyright), attuata in Italia con decreto legislativo 2021/177.
L’art. 3 della dir. 2019/790/UE è la disposizione normativa che riguarda più da vicino il tema dei dati della ricerca. La norma dispone un’eccezione ad alcuni diritti di esclusiva derivanti dal diritto d’autore e dal diritto sui generis sulle banche dati per consentire a organismi di ricerca e istituti di tutela del patrimonio culturale – come definiti dalla stessa direttiva – di effettuare l’estrazione, per scopi di ricerca scientifica, di testo e di dati da “opere” (protette da diritto d’autore) o altri “materiali” (protetti da diritti connessi) cui essi hanno legalmente accesso [Margoni, Kretschmer 2021]. Senza entrare nei dettagli, la norma, come quella che la attua in Italia, è contorta nonché presidiata da una serie di cautele, poste a presidio degli interessi dei titolari dei diritti di esclusiva, tanto ampia da ridurne fortemente la portata applicativa [Caso 2020b].
L’esempio merita di essere citato perché offre un’idea della politica legislativa dell’UE in materia di proprietà intellettuale. Tale politica si sostanzia nel rafforzamento del diritto di esclusiva che dovrebbe essere controbilanciato da specifiche eccezioni e limitazioni. Senonché il “sistema” delle eccezioni e limitazioni si è trasformato in un groviglio di norme disorganiche e in gran parte inutili. Ragion per cui non resta che sperare nei giudici, gli unici in grado di riequilibrare il rapporto tra esclusiva e libertà di uso mediante tecniche argomentative che eludono le restrizioni poste dalle eccezioni e limitazioni. Anche se occorre sottolineare che il ruolo della giurisprudenza nel campo del rafforzamento della proprietà rimane ambiguo: da una parte, contenimento delle esclusive, dall’altra, estensione delle esclusive legislative o addirittura creazione di nuove esclusive per via pretoria [Resta 2011].
3. Controllo dei dati e degli algoritmi
La filosofa della scienza Sabina Leonelli [Leonelli 2018, 29, 30-31] mette in evidenza due fenomeni:
a) il datocentrismo;
b) la combinazione di Big e Open Data.
“Nell’approccio datocentrico, i dati sono visti come entità pubbliche che hanno valore scientifico indipendentemente dal loro ruolo di prova per una determinata ipotesi e che possono essere interpretati in modi diversi a seconda delle abilità e degli interessi dei ricercatori che li analizzano. […]
L’ascesa del datocentrismo e la combinazione di Big e Open Data ha enormi implicazioni per come la ricerca scientifica – e in particolare l’organizzazione e l’utilizzo dei dati – viene condotta, organizzata, governata e valutata. La capacità dei dati di servire come fonte di conoscenza scaturisce dalla loro mobilità: ossia, dalla loro capacità di viaggiare attraverso diverse situazioni di analisi e riuso e di essere relazionati con quanti più tipi di dati diversi possibile”.
Insomma, una volta messi in Rete, i dati si muovono, viaggiano e dispiegano la loro natura non rivale: un dato non è come una cosa tangibile che è rivale all’uso, è invece usabile contemporaneamente da più soggetti. Sabina Leonelli ha dedicato molti anni delle sue ricerche per seguire i viaggi dei dati, concludendo che questi viaggi espongono la scienza datocentrica a diversi rischi, tra i quali risaltano: la produzione di conoscenza errata e la creazione o l’aggravamento di discriminazioni e diseguaglianze [Leonelli 2018, 43 ss.].
Per questo c’è bisogno di un’epistemologia dei dati che mitighi tali rischi.
Alcuni dei rischi messi in luce da Leonelli riguardano la commercializzazione dei dati della ricerca. I dati della ricerca possono, infatti, avere un grande valore economico.
Il fatto che le imprese possano giovarsi dei dati della ricerca finanziata pubblicamente è un aspetto fisiologico in un sistema capitalistico che potenzialmente è in grado di generare innovazione [Gold 2016]. Ciò che non è fisiologico è l’uso scorretto dei dati da parte delle imprese. Ciò che è ancor più patologico è che Internet non è più un luogo dove trionfano la libertà e la concorrenza, ma è sempre più un ecosistema malato dove dominano alcuni grandi centri potere privato (Big Tech) e pubblico (Big Governement) e dove il confine tra privato e pubblico si fa alquanto sfumato.
I dati della ricerca una volta in circolazione vengono messi sotto il controllo del potere computazionale delle grandi piattaforme le quali li mischiano con altri dati, soprattutto con dati personali, per finalità che in gran parte attengono al “capitalismo della sorveglianza” [Zuboff 2019]. Li elaborano attraverso algoritmi di apprendimento automatico (c.d. intelligenza artificiale) che sono difesi da segreti commerciali.
In altri termini, i dati aperti della ricerca finiscono sotto il controllo esclusivo delle piattaforme che può rispondere a forme propriamente dette di proprietà intellettuale o a forme anomale di controllo esclusivo (“pseudo-proprietà intellettuale”). La pseudo-proprietà intellettuale, peraltro, tende a sfuggire al controllo giuridico – giudici, autorità amministrative – e ai meccanismi di bilanciamento tipici del diritto della proprietà intellettuale.
A tal proposito l’economista Massimo Florio [Florio 2021, 62] rileva quanto segue.
“Gli algoritmi con cui funzionano i motori di ricerca o le piattaforme social, per quanto segreti, non implicano conoscenze tecnologiche e scientifiche superiori a quanto sia alla portata dei dipartimenti universitari dove si fa ricerca avanzata sulla tecnologia dell’informazione, inclusa l’intelligenza artificiale e in generale le tecniche di trattamento dei Big Data. Al contrario, le sette sorelle dell’economia digitale attirano conoscenze e capitale umano mettendolo al servizio di un’agenda di accumulazione di capitale. Se questo avviene senza ostacoli è anche perché la legislazione che si è voluta applicare alla protezione del consumatore e alla regolazione del mercato in settori come ad esempio la telefonia mobile non si è voluta applicare a queste piattaforme. Non vi è nulla di intrinsecamente tecnologico in questo, è una scelta politica derivante da circostanze reversibili. Quindi se non esistono, o non sono dominanti, piattaforme digitali che si impegnino a lasciarci la proprietà dei nostri dati e a gestirli solo nell’interesse pubblico in base a un protocollo a tutti noto, senza finalità commerciali o di comunicazione politica, questo non è un caso. È una scelta politica […]” .
Che la situazione attuale sia frutto di decisioni politiche è un ormai un fatto assodato. Il giurista Cesare Salvi in proposito svolge le seguenti considerazioni.
“La creazione di ‘nuove proprietà’ da parte del diritto è stata studiata di recente da Katharina Pistor, e non riguarda solo gli strumenti finanziari […].
Per Pistor, il ‘Code of Capital’ è un processo di ‘codifica’ cioè di scrittura di un linguaggio (operata dagli studi legali, ma garantita dalla legislazione globale), attraverso il quale la qualifica di bene giuridico, cioè di oggetto di proprietà privata, viene attribuita a un numero crescente di entità, alcune delle quali ‘esistono soltanto nella legge’. In questo modo, tali entità diventano ‘capitale’.
Oggi la cosiddetta proprietà intellettuale […] è assimilata alla proprietà in senso proprio (lo dice esplicitamente l’art. 17 della Carta dei diritti dell’Unione Europea), attribuendo così allo sfruttamento economico della conoscenza le medesime garanzie accordate alla proprietà dei beni materiali. La figura è in costante espansione, comprende entità eterogenee configurate come oggetto di diritti proprietari.
I diritti d’autore e i brevetti nacquero, parallelamente all’invenzione della proprietà moderna, tra il Seicento e l’Ottocento, per tutelare – per un breve periodo – autori e inventori di beni socialmente utili. Negli ultimi decenni il neoproprietarismo ha stravolto la logica e le finalità del sistema. La brevettabilità è stata estesa dal prodotto alle fasi precedenti (la ricerca), un numero crescente di beni e di attività sono state rese meritevoli di protezione, la durata si è allungata, è fiorente un mercato dei brevetti […].
È anche protetto il potere di controllare, utilizzando tecniche sempre più raffinate, i flussi di informazione. Attraverso algoritmi tenuti segreti (‘il vero signore di questa epoca digitale’) in quanto considerati ‘proprietà intellettuale’, le grandi imprese della rete decidono quali ‘informazioni’ diffondere e come queste devono essere conosciute. […]
Siamo in presenza non di un effetto ‘naturale’ del progresso tecnologico, ma di decisioni politiche, tradotte in norme giuridiche.
L’idea di privatizzare internet […] aprendolo agli usi commerciali, è stata una decisione dell’amministrazione Clinton. […]
Chi immaginava la rete come un bene comune, ecosistema di una miriade di innovatori e interlocutori, si trova oggi di fronte a un luogo occupato da pochi proprietari monopolistici”. [Salvi 2021, 57-59].
Si assiste a un paradosso: la scienza aperta produce dati che dovrebbero servire a tutti e che invece vengono privatizzati.
“Da un lato l’esistenza di un vasto patrimonio di open science frutto della ricerca di migliaia di università ed enti pubblici di ricerca rappresenterebbe un grande potenziale per accrescere la giustizia sociale. Ma dall’altro quel patrimonio può produrre l’effetto contrario: le imprese private che si collocano a valle, grazie agli investimenti in conoscenza già realizzati a monte, con la loro attività di R&S, si appropriano privatamente della conoscenza” [Florio 2021, 63].
Non è un caso che alcuni critici dell’Open Science abbiano argomentato contro l’apertura sostenendo che si tratta di un meccanismo di produzione di dati finalizzato ad alimentare il capitalismo digitale [Hagner 2018].
Tra le voci critiche si può segnalare – per la sua rinomanza – lo storico e divulgatore Yuval Noah Harari [Harari 2017, 559, 582-583, 599] che parla della nuova religione dei dati: il datismo.
“Il datismo sostiene che l’universo consiste di flussi di dati e che il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati […] Il datismo è nato dalla confluenza esplosiva di due maree scientifiche. Nei centocinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione dell’Origine della specie di Charles Darwin, le scienze biologiche sono giunte a concepire gli organismi come algoritmi biochimici. Contemporaneamente, negli ottant’anni trascorsi da quando Alan Turing formulò l’idea della macchina che porta il suo nome, gli informatici hanno imparato a progettare algoritmi digitali interpretabili da elaboratori elettronici sempre più sofisticati. Il datismo mette insieme queste due concezioni, evidenziando che esattamente le stesse leggi matematiche si applicano sia agli algoritmi biochimici sia a quelli computerizzati digitali. Inoltre, questa nuova visione delle cose abbatte il muro tra animali e macchine, e prevede che gli algoritmi computerizzati alla fine decifreranno e supereranno le prestazioni degli algoritmi biochimici.
[…] Il datismo sostiene la libertà delle informazioni come il bene più importante. […]
La gente di rado si inventa valori nuovi. […]. Il datismo è il primo movimento, dal 1789, che ha creato un valore autenticamente innovativo: la libertà delle informazioni.
Non dobbiamo confondere la libertà delle informazioni con il vecchio ideale liberale della libertà di espressione. La libertà di espressione era data agli umani e proteggeva il loro diritto a pensare e dire quello che volevano – tra cui il diritto di tenere la bocca chiusa e i propri pensieri per sé stessi. La libertà delle informazioni, invece, non è data agli umani. È data alle informazioni. Inoltre, questo valore nuovo può ledere la tradizionale libertà di espressione degli umani, privilegiando il diritto delle informazioni a circolare liberamente sul diritto degli umani a possedere dati e restringerne il movimento […].
Un esame critico del dogma datista è forse non soltanto la più grande sfida scientifica del XXI secolo, ma anche il progetto politico ed economico più urgente. Gli studiosi di scienze biologiche dovrebbero chiedersi se perdiamo qualcosa quando concepiamo la vita come un processo di elaborazione dati e decisionale”.
Più di recente Kate Crawford [Crawford 2021, 127] ha denunciato ciò che si nasconde dietro la retorica dei dati e dell’apprendimento automatico.
“Espressioni come data mining e frasi come ‘i dati sono il nuovo petrolio’ rappresentano una modalità retorica che serve a spostare la nozione di dato da qualcosa di personale, intimo o soggetto alla proprietà e al controllo individuale a qualcosa di più inerte e non umano. I dati hanno iniziato a essere descritti come una risorsa da consumare, un flusso da controllare o un investimento da sfruttare. L’espressione ‘i dati come petrolio’ è diventata un luogo comune e per quanto faccia pensare ai dati come a un materiale grezzo da estrarre, raramente è servita ad evidenziare i costi delle industrie petrolifere e minerarie: lavoro a contratto, conflitti geopolitici, depauperamento delle risorse naturali e conseguenze che vanno ben oltre la durata della vita umana.
In definitiva, la parola ‘dati’ ha perso sostanza; nasconde sia le sue origini materiali che i suoi fini. E una volta concepiti nella loro astrattezza e immaterialità, i dati sfuggono più facilmente ai concetti e alle responsabilità dell’attenzione, del consenso o del rischio.”
Le preoccupazioni non finiscono qui. Non solo i dati aperti della ricerca finiscono nel controllo privato della conoscenza, ma vengono incrociati con i dati personali di terze persone e anche con i dati personali degli stessi scienziati.
Numerose analisi mettono in luce che il capitalismo della sorveglianza è pienamente in funzione anche nella scienza [Aspesi et al. 2019, 32; Deutsche Forschungsgemeinschaft 2021; R. Siems 2021; Pievatolo 2021b; Pooley 2021]. Singoli scienziati e comunità di ricercatori vengono costantemente sorvegliati per prevedere e, in ultima analisi, influenzarne il comportamento, più in generale per influenzare l’evoluzione della scienza. Per quanto concerne le università ciò avviene per quanto attiene alla ricerca, alla didattica e alla gestione amministrativa. Non sorprende perciò che sia nata una campagna di mobilitazione “Stop Tracking Science” che reclama la cessazione della sorveglianza dei ricercatori.
Nel documento di SPARC del 2019 [Aspesi et al. 2019] poi aggiornato negli anni successivi [Aspesi et al. 2020, Aspesi et al. 2021] si rileva come il mercato dell’editoria scientifica stia passando dai contenuti ai dati. In particolare, le imprese come Elsevier concentrano il loro business sull’analisi dei dati. Il modello commerciale estende il suo oggetto dalle riviste scientifiche e dai libri fino ad arrivare alla valutazione, agli strumenti gestionali e ai sistemi per l’apprendimento online con quel che ne deriva in termini di rischi per i dati personali [Ducato et al. 2020; C. Angiolini et al. 2020]. Il controllo dei dati relativi a studenti, docenti e ricercatori, risultati della ricerca e funzionamento delle istituzioni ha un valore economico enorme. Perciò l’Open Access alle pubblicazioni scientifiche praticato dalle imprese di analisi dei dati non è la via che conduce all’Open Science [Aspesi, Brand 2020].
4. Controllo delle infrastrutture
Molte delle analisi sui problemi legati alla privatizzazione dei dati della ricerca convergono nel delineare soluzioni che puntano a riprendere il controllo delle infrastrutture fondamentali della scienza o, per lo meno, ad affiancare infrastrutture indipendenti a quelle nelle mani degli oligopoli commerciali.
SPARC nel 2019 ha pubblicato una road map per le soluzioni organizzative necessarie per le università a riprendere il controllo di dati e infrastrutture [Aspesi, et al. 2019b]. La road map di SPARC è sintetizzata nella figura che segue.
Fig. 2: “Open Data Infrastructure: A Road Map” [Aspesi, et al. 2019b]
Il menu delle soluzioni si basa su due principi organizzativi. Il primo distingue metriche ed algoritmi. Il secondo distingue tre tipi di azioni (mitigazione dei rischi, scelte strategiche e azioni della comunità dei portatori di interesse).
Secondo SPARC le metriche – ciò che è oggetto di misura – dovrebbero essere nel controllo accademico, mentre gli algoritmi – come si misura – potrebbero anche non essere nel diretto controllo delle istituzioni accademiche, ma dovrebbero comunque essere trasparenti al fine di essere attentamente compresi e monitorati.
Esempi di azioni di mitigazione del rischio includono la predisposizione di meccanismo di coordinamento tra le varie strutture all’interno del campus, la revisione delle politiche sui dati, l’adozione di procedure trasparenti per l’acquisizione di servizi esterni.
Le questioni relative alle scelte strategiche comprendono quali metriche usare, in che misura fare ricorso all’intelligenza artificiale, l’alternativa tra proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza.
Tra le azioni della comunità spicca la costruzione o l’acquisizione di una propria infrastruttura per la gestione dei dati.
Karen Maex rettrice dell’Università di Amsterdam – e anche Presidente della League of European Research Universities (LERU) – ha denunciato questo stato di cose nel discorso per l’inaugurazione del 389. Dies Natalis – 8 gennaio 2021 – dell’istituzione che governa [Maex 2021].
Maex denuncia il fatto che grandi compagnie private esercitano un ruolo sempre più importante nella vita delle università diminuendo il loro grado di autonomia e libertà.
L’erosione dell’indipendenza delle università è cominciata dalle biblioteche. Con il passaggio dalle biblioteche alle banche dati commerciali online le università hanno perso il controllo delle fonti di conoscenza. Dall’avere la proprietà dei supporti e il controllo della logica con cui ordinare le fonti (libri, riviste), le biblioteche universitarie si sono ridotte a intermediari per l’accesso e l’uso delle banche dati online pre-ordinate dagli editori commerciali. Quel che preoccupa di più è la perdita delle biblioteche come arene gratuite e aperte della ricerca. Il movimento dell’Open Access ha provato a ricostruire online queste arene, ma gli editori commerciali stanno prendendo il controllo anche dell’Open Access attraverso nuove formule contrattuali – i c.d. contratti trasformativi che dovrebbero condurre dagli abbonamenti per le banche dati ad accesso chiuso ad abbonamenti per pubblicare in accesso aperto [cfr. AISA 2020; Galimberti 2021] – i loro servizi valutativi.
L’erosione dell’indipendenza si è poi estesa ai dati della ricerca e agli altri dati prodotti dalle università (dati relativi alle abitudini di ricerca e lettura, dati relativi ai sistemi di didattica e apprendimento online, dati relativi alla selezione di studenti e docenti, dati relativi alla gestione amministrativa). I grandi editori commerciali come Elsevier, trasformatisi in imprese di analisi dei dati, sono penetratati a fondo nella vita delle università.
Nel riprendere il discorso di Karen Maex la filosofa politica Maria Chiara Pievatolo [Pievatolo 2021b] aggiunge la seguente nota a margine:
“La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente”.
La questione nel riguardare il futuro dell’università, giocoforza riguarda il futuro della democrazia di cui le università, come luoghi di formazione della conoscenza e dello spirito critico, costituiscono un pilastro. Occorre perciò proteggere il carattere pubblico e autonomo della conoscenza prodotta nelle università.
Per difendere l’autonomia e la libertà delle università la rettrice Maex ritiene insufficiente la politica normativa europea attualmente in discussione, in particolare il Digital Services Act con le sue implicazioni in termini di maggiore trasparenza degli algoritmi alla base delle piattaforme Internet. Reclama invece l’introduzione di un Digital University Act che abbia quattro obiettivi.
1. Dati della ricerca. La conservazione e l’accesso ai dati della ricerca deve essere gestita da università e infrastrutture pubbliche.
2. Pubblicazioni scientifiche. Le pubblicazioni scientifiche devono essere in Open Access e non devono ingenerare alti costi per la pubblicazione o, peggio, dipendenza economica da un’impresa privata di analisi dei dati.
3. Strumenti per la didattica e per la ricerca. Le università devono avere il controllo degli strumenti digitali per la didattica e la ricerca. Tali strumenti dovrebbero far capo a piattaforme pubbliche o private, ma le università dovrebbero mantenere un controllo sui dati di uso e il potere di influenzare lo sviluppo degli stessi strumenti.
4. Dati delle piattaforme. Ricercatori e docenti devono avere accesso ai dati delle piattaforme per motivi di studio e insegnamento.
L’analisi delle debolezze della strategia europea dei dati e le proposte avanzate da Maex sono sostanzialmente riprese in un documento della LERU del dicembre 2021 [LERU 2021]. In tale documento, partendo dal rischio che la politica europea dei dati tratti le università alla stregua di imprese, le proposte vengono declinate e dettagliate su 16 principi rivolti a vari portatori di interesse: legislatori, digital providers, individui appartenenti alle università, università, industria.
L’iniziativa denominata Plan I – dove la “I” sta per Infrastructure – è stata avanzata da un gruppo di ricercatori tedeschi, tra questi si segnala il nome di Biorn Brembs, uno dei più autorevoli promotori a livello internazionale dell’Open Science [Brembs et al. 2021; Pievatolo 2021a]. Brembs e i suoi colleghi partono da un’analisi disincantata dell’attuale stato delle cose. Per trent’anni scienziati e ricercatori universitari hanno abbandonato il campo dell’innovazione delle infrastrutture di ricerca. Quel campo è stato occupato dai grandi editori commerciali come Elsevier, ora imprese di analisi dei dati, e dalle Big Tech come Microsoft.
Tutte le fasi del ciclo del lavoro dello scienziato che porta dalla ricerca e analisi dei dati, alla scrittura dei testi, fino alla pubblicazione, alla promozione (outreach) e alla valutazione dei risultati è occupato da poche grandi imprese commerciali (oligopoli).
Fig. 3: “Providers of digital tools for the scientific workflow (CC BY: Bianca Kramer, Jeroen Bosman, https://101innovations.wordpress.com/workflows). The preconditions for a functioning market exist, but a common standard is missing that provides for the substitutability of service providers or tools”. Tratta da Brembs et al. 2021
All’interno di queste infrastrutture commerciali attraverso tecnologie di sorveglianza e tracciamento le imprese estrapolano dati relativi al comportamento dei ricercatori che vengono sia venduti ad altre imprese sia sfruttati all’interno delle infrastrutture commerciali per rimodellare i propri modelli di business e offrire servizi alle istituzioni di ricerca.
La proposta Plan I si sostanzia in due punti.
1) Aprire gli standard di testi, dati e codici al fine di innescare la concorrenza dei servizi editoriali. In altri termini, l’apertura degli standard servirebbe a diminuire il potere di mercato dei grandi oligopoli. In particolare, servirebbe a distruggere il “vendor lock-in” (la dipendenza economica dal fornitore oligopolista).
2) Incentivare l’uso di standard aperti e riformare la valutazione della ricerca scientifica abolendo, secondo i principi della DORA declaration, criteri di valutazione che premiano la sede di pubblicazione invece del contenuto della pubblicazione.
L’obiettivo finale è quello di demolire il sistema oligopolistico di pubblicazione basato sulle riviste scientifiche (e sui servizi di analisi di dati) per costruire un mercato concorrenziale di servizi editoriali in cui testi, dati e codici sono liberamente accessibili e riproducibili. Secondo le stime di Brembs e dei suoi colleghi in un mercato concorrenziale di servizi editoriali le istituzioni di ricerca risparmierebbero il 90 % degli attuali costi di abbonamento alle banche dati oligopolistiche.
Una diversa proposta viene dall’economista Massimo Florio, sopra citato. L’alternativa all’oligopolio è rappresentata da una grande impresa pubblica europea di infrastruttura di ricerca [Florio 2021, 74 e 92].
“Si tratta di riscoprire l’idea dell’impresa pubblica e ibridarla con quella di infrastruttura di ricerca: un nuovo tipo di impresa come polo della creazione di conoscenza. Questo tipo di organizzazione potrebbe gestire come proprietà sociale il capitale intangibile derivante dalla ricerca pubblica in alcuni campi, creando un portafoglio di progetti i cui ritorni alimentino un fondo destinato sia a reinvestire nella stessa ricerca sia a programmi di promozione dell’uguaglianza nell’accesso alle nuove conoscenze. […]
Le proposte che seguono [Biomed Europa, Green Europa, Digital Europa] intendono quindi proporre soggetti unitari hub, eventualmente multicentrici, puntando su progetti su larga scala che integrino ricerca e servizio pubblico, intorno ai quali si possa aggregare una costellazione di altri soggetti pubblici e privati”.
Per quanto riguarda Digital Europa, l’infrastruttura che dovrebbe consentire di ripretendere il controllo dei dati, Florio dà conto delle iniziative in corso in Europa (Gaia-X e EOSC ecc.) e in Italia ICDI-Italian Computing and Data Infrastructure, ma le ritiene insufficienti.
“Nonostante questi segnali incoraggianti, difficilmente senza una vera infrastruttura sul modello delineato […] l’Europa recupererà il divario che si è creato con USA e Cina nella tecnologia dell’informazione e settori connessi. […]
Occorrerebbe immaginare un soggetto sovranazionale europeo che non abbia solo funzioni di coordinamento, ma abbia a tutti gli effetti autonomia manageriale, di bilancio, di capitale tangibile e intangibile, di personale dedicato con la missione di creare una piattaforma pubblica alternativa ai Tech Giants”.
Si è scelto qui di dar conto di alcune delle proposte di modifica delle politiche in materia di infrastrutture di ricerca. Si tratta di proposte che hanno elementi di differenziazione e convergenza. Segnalano che, rispetto solo a qualche hanno fa, c’è una maggiore e diffusa consapevolezza della malattia che affligge l’attuale ecosistema dei dati.
Tuttavia, tutte queste proposte lasciano immutato il quadro legislativo dei diritti di proprietà intellettuale e questo è un limite.
Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati.
D’altra parte, le ricette in campo per contrastare gli oligopoli sono note e ampiamente discusse. Concernono politiche della concorrenza e della regolazione dei mercati, politiche fiscali, responsabilità, diritto dei contratti, protezione dei dati personali e, appunto, la proprietà intellettuale.
5. Conclusioni
L’Italia sconta un ritardo cronico in materia di Open Science. Il nostro Paese è da sempre all’inseguimento dei modelli più avanzati di scienza aperta.
Università, enti e istituti di ricerca pubblici mancano di strutture istituzionali di coordinamento all’interno (coordinamento tra dipartimenti) e all’esterno (coordinamento tra università, enti e istituti di ricerca). Poche istituzioni si sono dotate di politiche per la gestione dei dati della ricerca. Non ci sono numeri e statistiche circa lo stato di avanzamento della scienza aperta sul territorio nazionale. La formazione sulla materia è frammentata ed episodica. Il dibattito sulle infrastrutture per la ricerca e per la didattica è, come abbiamo visto, all’inizio, anche se non mancano infrastrutture già mature ed efficienti come quelle messe a disposizione dal consorzio GARR che necessiterebbero solo di essere ulteriormente sviluppate e promosse dai decisori pubblici [Nardelli 2020; Pievatolo 2020a; Barchiesi et al. 2021]. Il quadro giuridico è lacunoso, disarmonico e del tutto inefficace. La proposta Gallo (d.d.l. 1146) sull’accesso aperto all’informazione scientifica, che prevede tra l’altro l’istituzione di un diritto di ripubblicazione in Open Access in capo all’autore scientifico [AISA 2016; Caso 2020a; Caso, Dore 2021; Bellia, Moscon 2021], giace ferma al Senato da più di due anni. Persino il Piano Nazionale sulla Scienza Aperta preannunciato più di un anno fa nel Programma Nazionale della Ricerca 2021-2021 non riesce a vedere la luce (peraltro, l’adozione di politiche di accesso aperto è ora un obbligo per lo Stato italiano in attuazione dell’art. 10 dir. dir. 2019/1024/UE Open Data).
Soprattutto l’Italia è il Paese dove la proprietà intellettuale sui risultati della ricerca pubblica non è vista come frontalmente contraria alla logica dell’Open Science, ma come una leva fondamentale dell’innovazione e dove la valutazione bibliometrica di Stato, grazie anche all’onnipresente ANVUR, dilaga. La pandemia ha, inoltre, accelerato ed esteso la dipendenza delle università e delle istituzioni di ricerca dalle piattaforme commerciali [Fiormonte 2021; Monella 2021]. Al di là di poche eccezioni, la morsa del potere del potere delle piattaforme sulla didattica e sulla ricerca è sempre più stringente.
Quel che si riesce a fare per difendere l’autonomia e la libertà della ricerca scientifica lo si deve a poche istituzioni illuminate e a un manipolo di persone che ancora credono che l’art. 33 della Cost. non sia un simulacro, ma un principio fondante (ancora vigente).
Se c’è del buono nell’art. 10 della dir. 2019/1024/UE, cioè nel ponte gettato dal legislatore europeo tra politiche in materia di Open Data del settore pubblico e politiche in materia di Open Science, è che può essere un pretesto per riaprire un dibattito a livello di decisori pubblici – Governo, Parlamento – quanto mai urgente.
Anche dal controllo dei dati della ricerca dipende il futuro della democrazia. Un futuro che in questo periodo storico appare più cupo che mai.
M. Bellia, V. Moscon [2021], Academic Authors, Copyright and Dissemination of Knowledge: A Comparative Overview (October 28, 2021). Forthcoming in: C. Sappa, E. Bonadio(eds), Art and Literature in Copyright Law: Protecting the Rights of Creators and Managers of Artistic and Literary Works, Cheltenham: Edward Elgar Publishing, forthcoming, Max Planck Institute for Innovation & Competition Research Paper No. 21-27, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3970476
Il 17 gennaio 2022 alle ora 15.00 al Senato della Repubblica si è dialogato sui dati aperti. Si è parlato anche di dati aperti della ricerca scientifica.
Pubblicato il post nel quale il Gruppo di ricerca LawTech dell’Università di Treneto sintetizza i principali risultati raggiunti in termini di pubblicazioni scientifiche e didattiche nell’anno 2021
Oggi entra in vigore un’importante modifica della legge sul diritto d’autore: il decreto legislativo n. 177 del 2021 di attuazione della direttiva dell’Unione Europea n. 790 del 2019, meglio conosciuta come “direttiva copyright”.
Il tema è (apparentemente) di nicchia. Eppure, si tratta di una novella legislativa importante. Essa produce la modifica più estesa e profonda della legge italiana sul diritto d’autore degli ultimi 20 anni. E la legge sul diritto d’autore, in quanto strettamente legata alla libertà di espressione e informazione, dovrebbe interessare tutti. In questa prospettiva, essa rappresenta un pilastro fondamentale su cui basano le società democratiche. Dalla stampa a caratteri mobili fino a Internet il diritto d’autore ha sempre costituito un elemento essenziale dell’ecosistema informativo.
A leggere superficialmente le reazioni che hanno avuto voce su giornali, radio e televisioni sembrerebbe che l’attuazione italiana della direttiva copyright incontri un vasto coro di consensi. La SIAE, l’Associazione Italiana Editori, la Federazione Italiana Editori Giornali e la Federazione Industria Musicale Italiana hanno usato toni trionfalistici all’indomani dell’approvazione in Consiglio dei Ministri. Quel che sorprende di più è la trasversalità politica delle manifestazioni di soddisfazione. Dal Partito Democratico a Fratelli d’Italia sembra che il restyling del diritto d’autore metta d’accordo tutti.
Tuttavia, chi conosce la storia dei travagliati processi legislativi che hanno portato nel 2019 all’approvazione della direttiva e ora alla sua attuazione in Italia sa che esiste un vasto movimento di opinione contrario all’impostazione di fondo e a molti contenuti di questa nuova normativa. Questo movimento composto da persone, partiti, associazioni e organizzazioni che promuovono l’apertura della conoscenza come Wikimedia, Creative Commons, Communia e AISA raramente trovano ospitalità in giornali, radio e televisioni. D’altra parte, l’approvazione in Parlamento Europeo fu a maggioranza (348 voti a favore, 274 contrari) ed alcuni Stati Membri, tra i quali l’Italia, nel Consiglio dell’UE votarano contro.
L’impostazione di fondo della direttiva tradisce i suoi limiti a partire dal titolo: diritto d’autore nel mercato unico digitale. Si tratta, nell’idea della Commissione UE Junker, di una parte della strategia per la costruzione del mercato europeo digitale. Un mercato viziato da barriere legislative: le differenze tra le leggi nazionali sul diritto d’autore sono troppo marcate. Viziato, inoltre, da una disparità di potere tra le grandi piattaforme Internet (statunitensi) e gli intermediari tradizionali come editori e produttori musicali. La direttiva, perciò, nei suoi principali obbiettivi intendeva riavvicinare le legislazioni nazionali e riequilibrare il potere degli intermediari.
In particolare, al fine di riequilibrare il potere degli intermediari vecchi e nuovi il legislatore unionale ha creato un nuovo diritto degli editori di giornali sulle pubblicazioni giornalistiche (art. 15) e ha determinato un aggravamento della responsabilità degli intermediari Internet che consentono il caricamento di contenuti da parte di utenti: ad es. YouTube (art. 17). Il nuovo diritto degli editori dovrebbe consentire agli stessi di recuperare il valore di cui si approprierebbero piattaforme come Google News e Facebook. La nuova responsabilità, tramite l’obbligo dell’uso di filtri automatici basati sull’intelligenza artificiale dovrebbe mettere i titolari di diritti d’autore (in particolare, l’industria musicale) nella condizione di avere un ritorno economico per lo sfruttamento commerciale dei contenuti protetti caricati dagli utenti.
Insomma, la direttiva si muove su un crinale geopolitico di regolamentazione del mercato e lo fa rafforzando i diritti di esclusiva degli intermediari tradizionali nella speranza di dare respiro all’industria digitale europea messa nell’angolo dallo strapotere americano.
Non c’è dubbio che la concentrazione di potere delle grandi piattaforme Internet (oggi americane e domani anche cinesi) sia uno dei problemi più rilevanti per le nostre democrazie. Lo testimoniano i molti interventi su diversi fronti: fiscale, antitrust, della protezione dei dati personali. Tuttavia, deformare il diritto d’autore piegandolo a un obiettivo puramente economico, qual è la restituzione ai vecchi intermediari del valore appropriato dai nuovi, dimentica il fatto che il diritto d’autore è innanzitutto una questione politica, perché regola l’accesso alla cultura e alla conoscenza.
Nuovi diritti di esclusiva e nuove responsabilità impattano la vita di tutti. Il nuovo diritto degli editori si aggiunge ai diritti di esclusiva già riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore, restringendo i margini per l’accesso e il riuso delle pubblicazioni giornalistiche online. L’aggravamento della responsabilità di intermediari come YouTube obbliga di fatto a usare tecnologie di filtraggio automatico che riducono la libertà di espressione e di informazione degli utenti.
Vero è che la direttiva prevede anche salvaguardie e spazi di libertà dalle esclusive vecchie e nuove. Prevede, inoltre, alcuni diritti per proteggere gli autori dal maggiore potere contrattuale degli intermediari. Ma tali meccanismi sono alquanto farraginosi e contraddittori.
L’attuazione italiana (il decreto legislativo n. 177 del 2021) complica un quadro legislativo già ampiamente compromesso a monte. Introduce strumenti giuridici non previsti dalla direttiva, guarda soprattutto agli interessi dei grandi editori, estende il potere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) – un’autorità che non è dotata degli stessi requisiti di indipendenza e imparzialità dei giudici ordinari – e comprime ulteriormente gli spazi di libero accesso ai contenuti protetti da diritti di esclusiva.
Non rimane che sperare nell’interpretazione dei giudici. A cominciare dalla Corte di Giustizia dell’UE che dovrà decidere a breve sulla legittimità di una delle norme cardine della direttiva: l’art. 17 sulla responsabilità degli intermediari Internet che consentono il caricamento di contenuti da parte di utenti.
La storia ricorda che il vero diritto d’autore, quello che opera nella realtà della prassi lo scrivono corti e tribunali. Nel 1774 quando l’House of Lords decise che il copyright della legge della Regina Anna del 1710 doveva essere interpretato come un’esclusiva limitata temporalmente e non come una proprietà perpetua la gente scese in piazza a festeggiare. Le persone sapevano benissimo che dalla limitazione temporale del copyright sarebbero derivati prezzi di acquisto dei libri molto più bassi: tutti gli editori potevano ristampare le opere cadute in pubblico dominio.
In definitiva, i giudici rappresentano uno degli ultimi argini della democrazia. L’ultima linea di difesa al dilagare della tecnocrazia.
“The Green route to Open Access (OA), meaning the re-publication in OA venues of previously published works, can essentially be executed by contract and by copyright law. In theory, rights retention and contracts may allow authors to re-publish and communicate their works to the public, by means of license to publish agreements or specific addenda to copyright transfer agreements. But as a matter of fact, because authors lack bargaining power, they usually transfer all economic copyrights to publishers. Legislation, which overcomes the constraints of a contractual scheme where authors usually have less bargaining power, may deliver a (digital) second publication or communication right, which this paper discusses in the context of research publications. Outlining the historical and philosophical roots of the secondary publication right, the paper provocatively suggests that it has a “moral” nature that even makes it a shield for academic freedom as well as a major step forward in the overall development of OA”.
Il dibattito sulla sospensione a livello internazionale degli accordi relativi proprietà intellettuale torna alla ribalta dei mass media. Su giornali, televisioni e web si riaccendono discussioni rimaste sopite nelle ultime settimane.
I motivi della rinnovata attenzione sono almeno tre: la diffusione della variante Omicron, il rinvio della riunione in presenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che avrebbe dovuto discutere in questi giorni la proposta avanzata già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica di sospensione degli accordi sulla proprietà intellettuale nel ambito del commercio internazionale (TRIPS), la convocazione per questa settimana da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di una sessione speciale dell’assemblea globale della sanità che dovrebbe iniziare a discutere di un nuovo trattato per la prevenzione delle pandemie.
Gli organi di informazione ci sbattano in faccia i dati di quella che è stata definita, a giusta ragione, una catastrofe morale. Mentre il ricco Occidente si affretta a somministrare la terza dose di vaccino e irrobustisce le misure per convincere od obbligare chi non ha assunto nemmeno la prima, nei Paesi meno sviluppati e in quelli poveri le percentuali di vaccinati sono irrisorie. I motivi della difficoltà a vaccinare le proprie popolazioni da parte di Stati economicamente svantaggiati sono molti. Tra questi figura, senza dubbio, l’impossibilità di poter usare conoscenze e tecnologie protette dalla proprietà intellettuale occidentale.
La retorica del “o ci si salva tutti assieme, o non ci si salva” suona come un sinistro ritornello che stride con la conta (parziale) dei milioni di morti. I ricchi Paesi occidentali, con in testa la nostra Unione Europea, non vogliono rinunciare al dominio tecnologico e a proteggere le grandi case farmaceutiche. Il macabro balletto di dichiarazioni confuse e contradditorie con mezze aperture subito smentite da intransigenti chiusure rende chiaro che non ci sarà nessun serio intervento volto a sospendere a livello internazionale e nazionale la proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su farmaci (non solo i vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.
Né gli argomenti solidaristici – riflessi nei sempre più numerosi appelli e petizioni della società civile – né quelli egoistici – “il virus e le sue mutazioni non conoscono frontiere” – sembrano far breccia nei decisori politici.
Il divario tra principi fondanti delle nostre democrazie – uguaglianza e solidarietà – e quel che viene messo in pratica dai governi si fa baratro. Lo ha denunciato recentemente il Presidente Mattarella con riferimento a quel che accade ai migranti che tentano di trovare rifugio in Europa. Si ripropone per la vicenda dei milioni di persone che meriterebbero di trovare protezione sanitaria dal virus e che invece sono abbandonati a sé stessi.
Il problema non sta solo nella politica e nel diritto dell’emergenza – la sospensione temporanea della proprietà intellettuale – ma nella proprietà intellettuale in sé. La proprietà intellettuale è pensata per competere al fine di ottenere il controllo monopolistico della conoscenza. Per elevare barriere e steccati intorno alle tecnologie. A livello geopolitico per dominare chi non è in grado “produrre” proprietà intellettuale. L’esatto contrario di quello che di cui ha bisogno l’umanità per questa, per le prossime pandemie e per altre minacce come il cambiamento climatico.
Il problema sta anche (e soprattutto) nella politica e nel diritto del futuro. Insomma, ci sarebbe bisogno di una riforma organica del sistema di produzione della conoscenza. In particolare, andrebbe ripensato il rapporto tra la conoscenza prodotta con fondi pubblici dalle istituzioni non orientate al profitto e quella prodotta dalle imprese. In decenni di deriva neoliberista è stato costruito un sistema che determina il paradosso – ben visibile in campo farmaceutico – che la conoscenza prodotta con fondi pubblici finisce per essere privatizzata. Ciò è inaccettabile: lo Stato paga una prima volta finanziando la ricerca e una seconda volta comprando il farmaco dalle imprese. Ma soprattutto perde il controllo della tecnologia. Se l’impresa farmaceutica (pur finanziata con fondi pubblici) è lasciata libera di controllare la tecnologia con segreti e brevetti, sarà l’unica a decidere a chi e a quanto vendere.
A leggere i vari piani e strategie dell’Unione Europea e dell’Italia – dai piani d’azione sulla proprietà intellettuale al PNRR – l’auspicato ripensamento del sistema di produzione della conoscenza non è neanche all’orizzonte. Le indicazioni che emergono dai documenti istituzionali sono chiare: rafforzamento della proprietà intellettuale e del trasferimento tecnologico da università ed enti di ricerca a imprese.
Insomma, quando si parla di “strategia” della proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici, si parla di guerra. Ma per favore non chiamiamola retoricamente “guerra contro il virus”. È la solita sporca guerra tra uomini, solo che il sangue non è immediatamente visibile.
La lezione prova a illustrare alcune premesse storiche e concettuali della direttiva copyright 2019/790. Mentre gran parte del dibattito sul copyright si focalizza su questioni economiche, la discussione sul diritto d’autore nell’era digitale riguarda questioni politiche fondamentali che attengono alla tenuta delle società demcratiche.
Vediamo, limitandoci ad aspetti esplicitamente etichettati come attinenti all’Open Science, alcuni dei principali problemi irrisolti.
Il Piano Nazionale per la Scienza Aperta: un documento-fantasma
Con delibera n. 74 del 2020 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale, serie generale, del 23 gennaio 2021) il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, su proposta del Ministero dell’Università e della Ricerca, ha approvato il Programma Nazionale della Ricerca 2021-2027. Tale programma preannuncia, con due estratti, il Piano Nazionale per le Infrastrutture di Ricerca (IR) e il Piano Nazionale per la Scienza Aperta. A distanza di quasi un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale mentre il piano infrastrutture è stato pubblicato il 20 ottobre 2021 del piano sulla scienza aperta si sono perse le tracce.
Il PNR prevede (p. 153) a proposito delle IR le seguenti principali azioni:
– la creazione di una rete delle IR e la loro diffusione e conoscenza;
– il rafforzamento delle politiche per l’accesso;
– il riconoscimento delle IR quale strumento per l’attività di ricerca degli ambiti del PNR e per la partecipazione ai partenariati europei (ad esempio, EOSC e EuroHPC);
– il ruolo delle IR nell’innovazione e nei rapporti con l’industria e lo sviluppo di Infrastrutture Tecnologiche (IT);
– l’utilizzo delle IR nell’alta formazione;
– le modalità di finanziamento.
Le IR sono strumentali allo sviluppo della scienza aperta.
Il PNR (p. 154) così si esprime in proposito:
“Con l’accesso aperto ai risultati (dati, articoli, standard, procedure, strumenti ecc.) e alle facilities dove svolgere e perfezionare la ricerca, le IR si impegnano a svolgere un ruolo rilevante nell’attuazione della strategia sulla scienza aperta promossa dalla Commissione Europea per migliorare la circolazione delle conoscenze e l’innovazione”.
“Le IR sono e devono essere elemento fortemente attrattivo per i ricercatori di tutto il mondo, rappresentando il luogo fisico o virtuale aperto a tutti, per poter condurre ricerche d’avanguardia, sperimentare, crescere ed innovare. L’accesso offerto dalle IR con la possibilità di fruire di dati, attrezzature, servizi ed expertise diversi per condurre studi ed esperimenti scientifici ha un ruolo decisivo nel far avanzare le frontiere della conoscenza nei vari settori, con la creazione di saperi orientati a sfide sociali globali che mai come ora richiedono approcci e metodi innovativi.
Con l’accesso aperto ai risultati (dati, articoli, standard, procedure, strumenti ecc.) e alle facility, dove svolgere e perfezionare la ricerca, le IR si impegnano a svolgere un ruolo rilevante nell’attuazione della Strategia sulla Scienza Aperta promossa dalla Commissione europea per migliorare la circolazione delle conoscenze e l’innovazione”.
A proposito della Scienza Aperta nel PNR si legge (p. 156) quanto segue:
“Per “scienza aperta” si intende un nuovo paradigma per la creazione della conoscenza scientifica basato su trasparenza e cooperazione, capace di potenziare la ricerca e l’insegnamento scientifico. Esso promuove la condivisione di conoscenza rimuovendo le barriere create dalle gabbie editoriali e dai rigidi ambiti disciplinari. La scienza aperta accresce l’efficacia della collaborazione e la riproducibilità dei risultati della ricerca, la possibilità di riuso dei dati per nuove analisi anche di tipo interdisciplinare, nonché la fruibilità del sapere scientifico generando fiducia nel pubblico.
Per “accesso aperto” all’informazione scientifica si intende la possibilità di reperire in rete le pubblicazioni scientifiche, i dati e i metadati che li rendono fruibili, e ogni altro risultato della ricerca e dell’insegnamento scientifico, senza costi e senza barriere giuridiche e tecniche.
I principi della scienza aperta sono:
– la conoscenza come bene comune;
– la collaborazione e la solidarietà tra scienziati nonché tra scienziati e cittadini;
– la possibilità per tutti di accedere ai risultati della ricerca scientifica;
– la trasparenza del processo e dei contributi usati per la produzione e la validazione dei risultati scientifici;
– la disponibilità gratuita e con diritti di riuso, in rete, dei risultati della ricerca e dell’insegnamento;
– il rigore scientifico, la riproducibilità dei risultati sperimentali, la discussione critica dei dati, delle
informazioni e della conoscenza resi accessibili in rete”.
Il Piano Nazionale per la Scienza Aperta costituisce (p. 158) un documento programmatico che:
– “concorre all’implementazione della scienza aperta come visione d’insieme con strategie specifiche per i singoli elementi, profondamente interconnessi, che debbono interagire per creare un ecosistema aperto (pubblicazioni, dati, strumenti di analisi, infrastrutture, valutazione, formazione);
– assicura il coordinamento e la sinergia fra tutti gli attori coinvolti, ovvero il MUR, l’ANVUR, le infrastrutture di ricerca, gli enti di ricerca e gli atenei, impegnando gli attori del sistema su obiettivi chiari e misurabili;
– definisce il ruolo che l’Italia deve giocare a livello europeo sul tema della scienza aperta e nel quadro dell’iniziativa EOSC, evidenziando le priorità e le specificità nazionali;
– ottempera a quanto richiesto dalla Raccomandazione (UE) 2018/790 della Commissione Europea sull’accesso alla comunicazione scientifica e la sua conservazione in termini di coordinamento e strategia a livello nazionale sulla scienza aperta”.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vi è nella Missione 4 “istruzione e ricerca” il richiamo al Programma Nazionale della Ricerca in riferimento a un apposito fondo (p. 191), tuttavia manca qualsiasi accenno alla scienza aperta, mentre abbondano i richiami al trasferimento tecnologico (vero e proprio mantra della contemporaneità). Il dato sorprende, anche se letto nella logica asfittica che informa il documento: “dalla ricerca all’impresa” [M4C2]. Ammesso e non concesso che la ricerca finanziata con fondi pubblici serva solo a imprese e mercato, non si comprende la ragione dell’omissione della scienza aperta che avvantaggia tutti i cittadini e anche tutte le imprese.
Un paio di cenni all’Open Science si rinvengono curiosamente nelle Linee Guida del Ministero dell’Università e della Ricerca sul PNRR. In particolare, a proposito delle Infrastrutture di Ricerca e Infrastrutture tecnologiche di Innovazione quando si parla (p. 34) della quota di accesso alle infrastrutture si specifica:
“La quota di accesso destinata al sostegno alla scienza aperta e all’innovazione aperta sarà prevalente, pur offrendo opportunità sostanziali di accesso protetto a pagamento”.
“Il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND) è lo strumento per guidare il processo di cambiamento verso la trasformazione digitale degli istituti culturali nella digitalizzazione del patrimonio culturale e nella creazione di nuovi servizi.
In questa prospettiva, il PND facilita il governo dell’ecosistema digitale della cultura, nella consapevolezza che la digitalizzazione del patrimonio culturale è un progetto collettivo e non la sommatoria di azioni individuali.
L’obiettivo è inquadrare ogni azione degli istituti del territorio all’interno di un framework condiviso fatto di policy e regole comuni.
Il PND si configura come il dispositivo che individua principi comuni per affrontare problemi comuni ai diversi settori disciplinari; come ogni documento di pianificazione strategica deve inoltre saper cogliere i trend attuali che riguardano le tecnologie digitali per declinarli utilmente nel settore del patrimonio culturale. Così come deve prevedere degli strumenti di monitoraggio con delle chiare metriche per definire gli impatti delle attività di digitalizzazione”.
“15. Cultural heritage institutions should adhere to relevant standards and frameworks, such as those used by the Europeana initiative for sharing digital content and metadata, including the Europeana Data Model, RightsStatements.org, and the Europeana Publishing Framework, to achieve interoperability at European level. Member States should take the necessary measures to promote and facilitate the adherence to such existing and future standards and frameworks and collaborate at the European level to expand them in the context of the data space.
16. Member States should actively encourage cultural heritage institutions to make their digitised assets available through Europeana and thus contribute to the data space, in line with the standards and frameworks referred to in point 15 and with the indicative targets provided in Annexes I and II.
17. Contributions from cultural heritage institutions, referred to in point 16, should include, in particular, 3D digitised cultural heritage assets to promote European cultural jewels, enhance the potential reuse in important domains such as social sciences and humanities, sustainable cultural tourism, cultural and creative sectors, or help identify cultural goods that are illicitly trafficked.
18. Member States should ensure that, as a result of their policies, data resulting from publicly funded digitisation projects become and stay findable, accessible, interoperable and reusable (‘FAIR principles’) through digital infrastructures (including the data space) to accelerate data sharing.
19. All public funding for future digitisation projects of cultural heritage assets should be made conditional upon making digitised content available in Europeana and the data space, as referred to in point 16.
20. Member States should take all the necessary measures to support and raise awareness of Europeana among the general public and particularly in the education sector and schools, including through educational materials.
21. Member States should exploit the European federation of cloud-to-edge infrastructure and services in order to scale up the storage, management and access to digitised cultural heritage assets”.
La pandemia: conoscenza come bene privato o comune?
Si è scritto molte volte che la pandemia avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per accelerare lo sviluppo della scienza aperta anche attraverso la compressione della proprietà intellettuale. Meno proprietà intellettuale, più scienza aperta. Così non è stato.
L’esempio macroscopicamente più evidente è offerto dai vaccini anti-COVID-19. Le proposte volte alla condivisione globale di conoscenze e tecnologie alla base dei vaccini così come quelle di sospensione delle normative internazionali e nazionali sulla proprietà intellettuale segnano il passo. Vaccini, altri farmaci e dispositivi medici sono diventati strumenti di geopolitica al servizio delle logiche del dominio e del condizionamento.
In particolare, la proposta di India e Sudafrica di sospensione di parte dell’accordo TRIPS (l’accordo sui diritti di proprietà intellettuale nell’ambito del WTO), avanzata nell’ottobre 2020 e riformulata nel maggio 2021, che ha incontrato un vastissimo consenso (anche tra i cittadini europei), sarà discussa in seno al WTO per l’ennesima volta a fine novembre 2021. Ma sono esigue le speranze che tale discussione possa esitare in un voto favorevole alla sospensione. Un blocco di Paesi occidentali, con l’Unione Europea in testa, si oppone risolutamente.
Il problema non riguarda solo il diritto dell’emergenza, cui è ascrivibile, la proposta di sospensione dell’accordo TRIPS, ma anche (e soprattutto) la visione del futuro, cioè le riforme organiche del diritto che servirà ad affrontare i problemi di domani, comprese le prossime pandemie.
Oligopoli più forti che mai. Due esempi: contratti trasformativi e piattaforme per l’interazione a distanza
Il sistema della comunicazione della scienza è saldamente nel controllo di pochi grandi editori commerciali e piattaforme Internet che praticano l’analisi di dati. Le infrastrutture di ogni anello della catena che porta dalla ricerca dei dati grezzi alla valutazione dei risultati sono in mano a grandi attori privati del mercato digitale.
Due esempi bastano a rendere l’idea: a) le infrastrutture per la comunicazione e per la valutazione delle pubblicazioni e b) le infrastrutture per l’interazione a distanza (convegni, seminari, didattica, riunioni).
a) Pubblicazioni scientifiche. Il sistema commerciale delle pubblicazioni digitali degli ultimi decenni si è basato prevalentemente su licenze di accesso e d’uso dei contenuti di grandi banche dati. Tali licenze sono normalmente stipulate da editori commerciali (ora imprese di analisi di dati) e consorzi di utenti (ad esempio, consorzi universitari come CRUI-CARE in Italia). Si tratta di contratti pluriennali a pacchetto (in gergo big deal). Tale sistema presenta una serie di gravi difetti: ingessa il mercato e alimenta il potere oligopolistico facendo crescere esponenzialmente i prezzi, sottrae il controllo fisico delle informazioni e dei dati alle biblioteche e agli utenti, consente alle imprese di praticare la sorveglianza di massa (i fruitori delle banche dati sono costantemente spiati secondo le consuete pratiche del capitalismo della sorveglianza), lega indissolubilmente le pubblicazioni scientifiche alla valutazione bibliometrica.
Per mettere fine a questo sistema malato servivano le seguenti riforme: comprimere la proprietà intellettuale degli intermediari commerciali, rafforzare il diritto d’autore dello scienziato mediante il riconoscimento di un diritto irrinunciabile e inalienabile di ripubblicazione in Open Access e azzerare o quantomeno ridurre il peso della valutazione bibliometrica. Queste riforme avrebbero consentito lo sviluppo di Open Access alle pubblicazioni scientifiche libero dal potere oligopolistico.
Invece, sta passando l’idea dei c.d. “contratti trasformativi”. Gli editori si impegnano – si noti che si tratta di un “impegno dello spirito” che non può trovare alcuna tutela giuridica – a trasformare gradualmente il proprio modello commerciale ad accesso chiuso in accesso aperto a pagamento per chi pubblica. Alla fine della trasformazione – non si sa quando – si pagherà solo per pubblicare, ma l’accesso del pubblico alle pubblicazioni sarà gratuito e con diritti di riuso. Nella fase di transizione gli editori continuano a commercializzare i consueti abbonamenti per l’accesso chiuso, ma lucrando – in base a varie formule commerciali – anche su complementari diritti di pubblicazione in accesso aperto. Il sistema presenta difetti non meno gravi di quello basato sui classici big deal per abbonamenti ad accesso chiuso: consolida il potere oligopolistico con effetti sia sui prezzi per accedere sia su quelli per pubblicare, mantiene la capacità di sorveglianza globale e il potere di valutazione bibliometrica, innesca nuove forme disuguaglianza e ingiustizia avvantaggiando chi ha il potere economico per comprare i diritti di pubblicazione in accesso aperto.
b) Interazione a distanza. Al di là di alcune lodevoli eccezioni, come la piattaforma GARR Meet e quella del Politecnico di Torino, durante la pandemia l’interazione a distanza (convegni, seminari, lezioni, riunioni) in Italia si è basata sull’uso di piattaforme proprietarie facenti capo alla galassia GAFAM o a nuove emergenti realtà imprenditoriali come Zoom. Nonostante numerosi studi abbiano messo in evidenza i rischi – innanzitutto in termini di violazione del diritto alla protezione dei dati personali – legati all’uso di tali piattaforme, non esiste un “piano” o semplicemente un’azione per restituire al settore pubblico il controllo delle infrastrutture per l’interazione a distanza.
Conclusioni
In Italia ci sono tre priorità nello sviluppo della scienza aperta, intesa come scienza pubblica e democratica.
1) Creare infrastrutture pubbliche e aperte per sottrarre la scienza agli oligopoli commerciali. Ciò vale, in particolare, per il software, per le pubblicazioni, per i dati della ricerca, per le piattaforme per l’interazione a distanza, per le invenzioni come farmaci e dispositivi medici essenziali.
3) Riformare organicamente le leggi sulla proprietà intellettuale allo scopo di sfoltire e comprimere le esclusive nonché, specularmente, di estendere il pubblico dominio. Non si tratta tanto di creare zone franche per la scienza istituzionale, quanto di eliminare o restringere diritti di proprietà intellettuale, restituendo a tutti i cittadini gli spazi di libertà via via sottratti.
Si noti che i tre punti sono strettamente connessi. In particolare, la creazione di infrastrutture del settore pubblico è garanzia di libertà solo se lo stesso settore pubblico non opera in base a una valutazione amministrativa verticistica, cioè solo se non opera autoritariamente. D’altra parte, il solo intervento sulla proprietà intellettuale non può da solo distruggere gli oligopoli se non si interviene sulla valutazione.
In ogni caso, nessuno dei tre punti rientra nell’agenda politica dello Stato italiano. Non in quella del Governo, non in quella parlamentare. Manca un efficace coordinamento delle azioni portate avanti dalle singole istituzioni. Mancano persino dati e numeri affidabili sullo stato di avanzamento della scienza aperta. Ad es., sono poche le università che pubblicano relazioni sui progressi in termini di attuazione della scienza aperta (per alcune eccezioni v. qui e qui).
Insomma, la discussione politica sulla scienza aperta in Italia suona come altri e più noti dibattiti: un triste (o sinistro) “bla bla bla”, un (inquietante) rumore di fondo che copre scelte molto nette e precise di accentramento del controllo e di privatizzazione della scienza.
Gli unici progressi che si registrano nel nostro Paese sono dovuti alla buona volontà di singoli ricercatori, piccoli gruppi e poche istituzioni – università, enti e istituti di ricerca – che si districano negli angusti spazi di libertà dell’attuale ecosistema provando a tenere accesa la speranza di una scienza realmente aperta.
[1] L’autore è presidente dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) ed è stato componente del gruppo di esperti che ha contribuito alla redazione del Piano Nazionale per la Scienza Aperta previsto dal Programma Nazionale della Ricerca 2021-2027.
Abstract: Partendo da tre casi recenti verificatisi in ambito accademico la lezione intende far riflettere criticamente gli studenti sul rapporto tra etica, diritto, valutazione e tecnologia nella materia del plagio e della violazione dell’integrità scientifica.
R. Caso (a cura di), Plagio e creatività: un dialogo tra diritto e altri saperi. Atti dei Seminari tenuti il 21 e il 28 aprile 2010 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento), Università degli Studi di Trento, Trento, 2011
“Member States of the WTO who block or otherwise impede the adoption of a waiver of intellectual property rights for COVID-19 vaccines and other therapeutics are breaching their legal obligations to realize the rights to health, equality, life and science, the ICJ said today in an expert legal opinion published with the endorsement of over 85 jurists from across the world”.
Join our upcoming workshop on legal aspects related to digitisation for Galleries and Museums (GM) on October 20-21, hosted by Museo Egizio (Egyptian Museum) in Turin, Italy.
Other contributors: Creative Commons + Creative Commons – Italian Chapter, Wikimedia Foundation + Wikimedia Italia, Europeana, Fondazione Torino Musei, inDICEs Project, ICOM Italia
Giovanni Destrobisol, Consiglio direttivo AISA, Sapienza Università di Roma, Paolo Anagnostou Sapienza Università di Roma, e Marco Capocasa, Sapienza Università di Roma, COVID-19 e Open Access
Pubblicato sulla Rivista Critica del Diritto Privato nr. 2 del 2021 l’articolo “Vaccini: scienza aperta o proprietà intellettuale?”, disponibile in Open Access qui (versione pdf) e qui (versione web ipertestuale)
Una riflessione a margine di una recente pronuncia della Corte di giustizia UE in materia di diritto d’autore pubblicata su Il Foro italiano di settembre 2021 e disponibile in Open Access qui: https://zenodo.org/record/5094312#.YO1FChMza3I
Audizione dell’AISA per le Commissioni II e VIII del Senato della Repubblica
Il testo dell’intervento di AISA sull’attuazione della direttiva copyright, previsto per il 5 ottobre alle ore 15.40, è visibile qui e riprodotto in calce. Si tratta di una versione significativamente ampliata del testo già reso pubblico qui.
“Spett.li Segreterie
2a Commissione permanente –
8a Commissione permanente –
Senato della Repubblica
COMM02A@senato.it
COMM08A@senato.it
Trento, 4 ottobre 2021
Oggetto: Schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 295 – XVIII Legislatura.
Con riferimento al documento in oggetto, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA), che aveva partecipato alle audizioni informali presso la 14a Commissione permanente (Politiche dell’Unione Europea) del Senato della Repubblica Italiana sul disegno di legge n. 1721 (Legge di delegazione europea 2019-2020), intende proporre alcuni rilievi critici.
a) La scienza aperta è incompatibile con la continua estensione dei diritti di proprietà intellettuale
Scienza aperta significa scienza pubblica e democratica. Uno degli aspetti fondamentali della scienza aperta è l’Open Access ai risultati della ricerca, in particolare pubblicazioni e dati. Open Access significa che i risultati devono essere gratuitamente accessibili al pubblico su Internet con diritti di riuso. I diritti di riuso sono resi possibili dalla cancellazione delle barriere riconducibili a proprietà intellettuale, contratti e misure tecnologiche.
L’Unione Europea e l’Italia dichiarano a parole di voler promuovere la scienza aperta, ma nei fatti perseguono politiche di estensione dei diritti di proprietà intellettuale (si vedano, a titolo di esempio, il Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE della Commissione UE del 25 novembre 2020 COM(2020) 760 final, nonché le Linee di intervento strategiche per il trienno 2021-2023 del MISE approvate con decreto ministeriale del 23 giugno 2023). Ciò costituisce una palese contraddizione. L’espansione della scienza aperta è incompatibile con il rafforzamento della proprietà intellettuale.
A questa contraddizione non sfuggono la Direttiva (UE) 2019/790, la legge di delegazione europea 2019-2020 (l. 22 aprile 2021, n. 53) e lo schema di decreto legislativo qui in commento. Prima di procedere ai rilievi critici sui contenuti dello schema di decreto, occorre premettere alcune osservazioni sulle modalità con cui si è proceduto all’elaborazione del testo normativo.
È forse superfluo ricordare che, nelle procedure legislative, la consultazione dei portatori di interesse risponde a regole e prassi volte a principi di pubblicità, trasparenza e inclusione. Questi principi sono stati in questa occasione consapevolmente calpestati dal legislatore. La direttiva 2019/790 è un testo normativo che ha diviso il Parlamento europeo, suscitato una valanga di critiche da parte degli accademici esperti della materia e alimentato un vasto movimento di opinione fortemente contrario alla sua approvazione.
L’AISA si rallegra perciò che il Senato le abbia restituito il diritto di parola in questa procedura di normazione.
c) La mancanza di una visione d’insieme sulla proprietà intellettuale di una società democratica
La direttiva 2019/790 e la sua attuazione in Italia mediante modifica della l. 22 aprile 1941, n. 633 (legge sul diritto d’autore o lda) ripropongono la classica visione unionale che riduce il diritto d’autore a una mera questione di mercato. Invece, il diritto d’autore è un pezzo fondamentale della democrazia. La misura e il modo con cui la comunità scientifica può pubblicare, ripubblicare e condividere i risultati della ricerca influiscono sul modo in cui evolve o involve una democrazia. Spazi più ampi di libertà nella pubblicazione e nella condivisione dei risultati della ricerca scientifica si traducono in maggiore libertà accademica e contribuiscono allo sviluppo di un dibattito pubblico e critico sulle dinamiche politiche ed economiche. Viceversa, vincoli più stringenti, come quelli che derivano da diritti di esclusiva – peraltro, sempre più attributi in via originaria e diretta agli intermediari commerciali e non agli autori – restringono i margini di libertà di informazione ed espressione del pensiero.
In buona sostanza, la direttiva 2019/790 guarda al diritto d’autore del mercato unico digitale come una questione tra intermediari commerciali vecchi (gli editori) e nuovi (Big Tech e grandi piattaforme di Internet). I cittadini, gli autori, gli scienziati, gli insegnanti, le università, le scuole, gli istituti di tutela del patrimonio culturale sono collocati ai margini della scena. La loro tutela è affidata a strumenti residuali, macchinosi e di incerta interpretazione come le eccezioni e limitazioni ai diritti di esclusiva. Mentre i diritti di esclusiva vengono rafforzati, e la responsabilità per la loro violazione aggravata, il promesso rafforzamento delle eccezioni e limitazioni si traduce in un corpo normativo intricato, confuso, contradditorio e prono agli interessi degli intermediari commerciali.
A ben vedere, la direttiva 2019/790 si colloca con coerenza nell’alveo di un’ampia strategia dell’Unione Europea che, persino in epoca pandemica, ripropone come formula magica l’equazione “più esclusive = più innovazione” (si veda la già citata Comunicazione della Commissione UE COM(2020) 760 final del 25.11.2020 che contiene il Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE). Nonostante dati e teoria della proprietà intellettuale smentiscano l’equazione, il legislatore unionale e quello nazionale procedono sicuri verso il rafforzamento e la proliferazione delle esclusive, focalizzandosi solo su alcuni interessi particolari e smarrendo la visione ampia e lungimirante che guarda agli interessi generali di una società democratica.
Un fugace sguardo all’inizio della storia del diritto d’autore europea può aiutare a comprendere il punto. I legislatori che approvarono, durante la Rivoluzione francese, la prima legge continentale sul diritto d’autore erano infatti ben consapevoli della sua natura politica, cosmopolitica e pubblica prima che commerciale e privata. “Con la stampa” – sosteneva la relazione con la quale Sieyès presentava la sua proposta – “la libertà non è più confinata in repubbliche di piccole dimensioni, ma si espande per regni ed imperi. La stampa è, per l’estensione dello spazio, quello che era la voce dell’oratore nella piazza pubblica di Atene e di Roma”.[1] Ma, a quanto pare, i legislatori europei e italiani, pur deliberando su spazi paragonabilmente ampi (Internet), non hanno occhi che per alcuni interessi.
A livello italiano, la controprova della focalizzazione sugli interessi degli intermediari commerciali è offerta dalla stasi di una delle poche iniziative legislative che puntava al rafforzamento del diritto dell’autore (e non dell’editore) scientifico. Il riferimento è alla proposta di legge Gallo (DDL 1146 Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, nonché introduzione dell’articolo 42-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica). La proposta, la cui ultima discussione in Parlamento risale al novembre 2019, prevede l’introduzione dell’art. 42-bis nella legge sul diritto d’autore volto a riconoscere all’autore il diritto di ripubblicare la propria opera scientifica in accesso aperto.
d) Il diritto degli editori delle pubblicazioni giornalistiche
Il nuovo diritto connesso riconosciuto agli editori di pubblicazioni giornalistiche poggia su fondamenta economiche e giuridiche fragili.
Centinaia di accademici indipendenti hanno sconsigliato a più riprese (vedi qui: https://www.create.ac.uk/wp-content/uploads/2017/02/OpenLetter_EU_Copyright_Reform_24_02_2017.pdf?x24425 e qui: https://www.create.ac.uk/blog/2018/04/26/eu_copyright_directive_is_failing/) di includere tale diritto connesso nella direttiva. In primo luogo, esso si pone in cima a un’altra serie di diritti esclusivi sulle pubblicazioni giornalistiche (diritti d’autore, diritto sui generis sulle banche dati, diritti sulle emissioni radio-televisive, ecc.). La proliferazione di diritti di esclusiva su notizie e articoli di giornali infligge una ferita profonda alla libera circolazione delle informazioni in una società democratica. In secondo luogo, l’attuazione del nuovo diritto connesso sarà diversa in ciascuno degli Stati membri dell’UE determinando una frammentazione che costituirà un’ulteriore barriera alla libera circolazione delle informazioni sul territorio dell’Unione. In terzo luogo, il diritto avvantaggerà gli editori e le agenzie giornalistiche che hanno già una posizione consolidata sul mercato, svantaggiando soggetti e imprese – magari di piccole dimensioni – che praticano giornalismo innovativo e indipendente.
L’attuazione italiana peggiora il quadro normativo già ampiamente compromesso dalle scelte contenute nella direttiva.
Come diversi commentatori e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel suo parere del 31 agosto 2021, hanno rilevato a margine dello schema di decreto, l’art. 1 lett. b dello schema di decreto introduce disposizioni normative che sono estranee alla direttiva, eccedono il perimetro fissato dalla legge di delegazione e comprimono la concorrenza sul mercato giornalistico.
In particolare, come rilevato dall’autorità antitrust “le tutele accordate dalla Direttiva Copyright non dovrebbero, […], essere perseguite con strumenti di natura pubblicistica – peraltro particolarmente invasivi – e con interventi di regolazione che determinano ingiustificati vincoli alla autonomia negoziale delle parti e, in definitiva, al funzionamento dei mercati, soprattutto in assenza di evidenze circa possibili fallimenti del mercato”.
e) La nuova responsabilità dei prestatori di servizi di condivisione di contenuti online
La Commissione europea nella sua Comunicazione “Orientamenti relativi all’articolo 17 della direttiva 2019/790/UE sul diritto d’autore nel mercato unico digitale” COM(2021) 288 final del 4 giugno 2021 ha espresso alcune linee guida sull’interpretazione dell’art. 17. Pur non essendo giuridicamente vincolante, il documento della Commissione dovrebbe essere tenuto in considerazione nel recepimento della direttiva.
Uno degli orientamenti della Commissione afferma che i “paragrafi 7 [disponibilità di contenuti che non violano il diritto d’autore], 8 [assenza di un obbligo generale di sorveglianza; trasparenza delle prassi dei prestatori di servizi di condivisione dei contenuti online] e 9 [meccanismo di reclamo e ricorso celere ed efficace da parte degli utenti] dell’articolo 17 sono formulati come obblighi di risultato. Nelle rispettive leggi di attuazione gli Stati membri devono pertanto garantire che tali obblighi prevalgano in caso di conflitto con altre disposizioni di cui all’articolo 17, e in particolare con quanto disposto all’articolo 17, paragrafo 4 [presupposti per l’esenzione di responsabilità del prestatore di servizi]”.
Dalla prevalenza di queste disposizioni discende anche un altro orientamento della Commissione in base al quale “caricamenti, che non sono manifestamente lesivi del diritto d’autore o dei diritti connessi, dovrebbero in linea di principio essere ammessi online e possono [rectius, dovrebbero] essere oggetto di una verifica umana ex post qualora i titolari dei diritti si oppongano inviando una segnalazione”.
Lo schema di decreto invece non distingue tra contenuti manifestamente lesivi e non. Il distacco dagli orientamenti della Commissione determina un aggravamento del rischio di violazione di diritti fondamentali insito nel nuovo regime di responsabilità, la cui attuazione passa per l’utilizzo da parte dei prestatori di tecnologie per loro natura fallibili.
Si suggerisce di riformulare il testo del decreto e di tenere conto degli orientamenti della Commissione UE qui riportati.
f) Eccezioni e limitazioni in campo scientifico-accademico e opzioni legislative di attuazione della direttiva
Come si è già rilevato, il meccanismo delle eccezioni e limitazioni è di per sé debole. In altri termini, non è idoneo a difendere adeguatamente l’interesse di scienziati e accademici a condividere liberamente dati, informazioni, conoscenze.
Al di là dell’intrinseca debolezza del meccanismo, la Direttiva (UE) 2019/790 lasciava gli Stati membri liberi di rendere le eccezioni e limitazioni presenti nella medesima direttiva più ampie (v. art. 25 della direttiva: “Gli Stati membri possono adottare o mantenere in vigore disposizioni più ampie, compatibili con le eccezioni e limitazioni di cui alle direttive 96/9/CE e 2001/29/CE, per gli utilizzi o gli ambiti oggetto delle eccezioni o delle limitazioni di cui alla presente direttiva”). Il legislatore italiano non ha usufruito di questa libertà di estensione, anzi ha ristretto il campo di applicazione delle eccezioni. Questa scelta ha un impatto negativo sulla scienza aperta.
Estrazione di testo e dati
La definizione di estrazione di testo e dati fornita dallo schema di decreto legislativo è ingiustificatamente restrittiva. La definizione della direttiva è ricavabile dai considerando 8-19. In particolare, il considerando 8 offre la seguente definizione: “un’analisi computazionale automatizzata delle informazioni in formato digitale, quali testi, suoni, immagini o dati”.
Il riferimento contenuto nello schema di decreto legislativo a “grandi quantità” di testi, suoni, immagini o dati è concettualmente errato e non corrisponde alla definizione offerta dal legislatore unionale.
Lo schema di decreto legislativo, inoltre, traspone l’eccezione di cui all’art. 4 della Direttiva, senza specificare in che modo il titolare del diritto d’autore possa riservare il diritto di utilizzo dell’opera. La direttiva stessa al considerando 18 prevede che “nel caso dei contenuti resi disponibili al pubblico online, dovrebbe essere ritenuto appropriato riservare tali diritti solo attraverso l’uso di strumenti che consentano una lettura automatizzata, inclusi i metadati e i termini e le condizioni di un sito web o di un servizio”. Alla luce del tipo di operazione svolta con l’estrazione di testo e dati, sarebbe di fatto richiesto uno sforzo sproporzionato al legittimo utilizzatore se questo dovesse manualmente leggere i termini contrattuali dei dati che intende estrarre dalle banche dati. Sarebbe, dunque, auspicabile – come rilevato anche da Creative Commons Italia e Wikimedia Italia – che il nostro legislatore specificasse che nel caso in cui le risorse oggetto di estrazione siano disponibili al pubblico in rete, il titolare possa riservare il diritto di utilizzo dell’opera solo attraverso mezzi che consentano la lettura automatizzata di tale decisione.
Utilizzo di opere e altri materiali in attività didattiche digitali e transfrontaliere
Il legislatore unionale lasciava aperte opzioni legislative atte a restringere o estendere l’operatività delle eccezioni e limitazioni. Ciò vale anche per l’eccezione prevista dall’art. 5, par. 1, sull’utilizzo di opere e altri materiali in attività didattiche digitali e transfrontaliere, un’eccezione che attiene a una materia fondamentale per la scienza aperta qual è l’insegnamento. In particolare, l’art. 5, par. 2, prevede che gli Stati membri “possono prevedere che l’eccezione o limitazione adottata a norma del paragrafo 1 non si applichi o non si applichi per determinati utilizzi o tipi di opere o altri materiali, tra cui il materiale destinato principalmente al mercato dell’istruzione o gli spartiti musicali, ove siano facilmente reperibili sul mercato opportune licenze che autorizzino gli atti di cui al paragrafo 1 del presente articolo e rispondano alle necessità e specificità degli istituti di istruzione”.
L’art. 9, c. 1, lett. b, della legge di delegazione europea (l. 2021/53) ha stabilito che il governo potesse limitare o escludere l’applicazione dell’eccezione in campo didattico secondo quanto previsto dalla direttiva.
Il testo dello schema di decreto legislativo peggiora il quadro inserendo ulteriori restrizioni non presenti nell’art. 5 della direttiva. Infatti, esso limita l’eccezione a determinati utilizzi “riassunto, citazione, riproduzione, traduzione e adattamento” mentre la direttiva parla in via generale di “utilizzo digitale di opere e altri materiali”. Si suggerisce di espungere il riferimento a “riassunto, citazione, riproduzione, traduzione e adattamento”.
Rapporti tra misure tecnologiche di protezione ed eccezioni e limitazioni
L’art. 1, c. 1, lett. g dello schema di decreto costituisce l’attuazione dell’art. 7 della direttiva. Si tratta di un’attuazione errata. L’art. 7 della direttiva mira disciplinare l’interazione tra uso delle misure tecnologiche di protezione ed eccezioni e limitazioni previste dagli art. da 3 e a 6. Al considerando 7 la direttiva statuisce espressamente che l’uso misure tecnologiche di protezione non deve impedire di beneficiare delle eccezioni e delle limitazioni previste dalla stessa direttiva. Invece, l’art. 1, c. 1, lett. g dello schema, in riferimento ai nuovi art. 70-bis e 70-ter della l. 1941/633 limita ingiustificatamente il diritto del beneficiario dell’eccezione all’estrazione di una copia dell’opera o del materiale. Si suggerisce di modificare la disposizione normativa in modo da garantire la fruizione di tutte le eccezioni e limitazioni previste dagli articoli da 3 a 6 della direttiva nonostante l’operatività di misure tecnologiche di protezione applicate a opere e materiali.
Opere fuori commercio
I requisiti per la definizione delle opere fuori commercio sono eccessivamente restrittivi. In particolare, lo sono nel campo delle opere scientifiche. Come rilevato anche da altri portatori di interesse e in particolare da Wikimedia Italia e Creative Commons Italia, lo schema di decreto legislativo andrebbe riformulato. Più specificamente, nella definizione di opere fuori commercio andrebbero comprese anche le opere che non sono mai state in commercio e il termine di presunzione andrebbe ridotto da dieci a tre anni.
g) Riproduzione delle opere delle arti visive in pubblico dominio
L’art. 14 della Direttiva UE 2019/790 è formulato con l’obiettivo di estendere il pubblico dominio. Lo scopo della norma è, come si evince dalla sua lettera, di fare in modo che il materiale derivante dalla riproduzione di un’opera delle arti visive di pubblico dominio non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi. Tuttavia, la norma presuppone, sia pure implicitamente, una libertà, cioè quella appunto di riprodurre le opere in pubblico dominio. Tale libertà andrebbe esplicitata nella disposizione legislativa di recepimento, indicando precisamente che tale libertà riguarda anche le opere delle arti visive di pubblico dominio che rivestono la qualifica di beni culturali soggetti alla disciplina del codice dei beni culturali (d.lgs. 2004/42). In altre parole, andrebbe non solo cancellata, come suggerito da Creative Commons Italia e Wikimedia Italia, l’attuale clausola di salvezza delle disposizioni del codice, ma anche inserita un’esplicita deroga alle medesime disposizioni.
Cordialmente,
Prof. Roberto Caso
Presidente dell’Associazione Italiana
per la promozione della Scienza Aperta
[1] Sieyès, Emmanuel Joseph (1790) Rapport de M. l’abbé Sieyès sur la liberté de la presse, et projet de loi contre les délits qui peuvent se commettre par la voie de l’impression, et par la publication des écrits et des gravures, http://www.copyrighthistory.org/cam/tools/request/showRecord?id=record_f_1790″
Charles W. Saalburg – The Wasp (San Francisco) Vol. 26, 1891 https://archive.org/stream/waspjanjune1891 “The Assemblyman is perplexed” (immagine tratta da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_di_pressione#/media/File:The_Wasp_1891-03-14_cover.jpg)
La direttiva (UE) 2019/790, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale (detta anche direttiva copyright o, in inglese, CDSM directive) è un testo normativo elefantiaco, intricato e divisivo. Di più, come rilevato a più riprese da schiere di accademici esperti della materia della proprietà intellettuale (v. qui), esso è malamente concepito. Facile prevedere che la sua attuazione negli Stati membri dell’UE, oltre a fallire nei dichiarati intenti di armonizzazione e di riduzione del potere delle grandi piattaforme Internet, diventerà un formidabile generatore di (un enorme) contenzioso giudiziario a livello nazionale e unionale.
La direttiva interviene su molteplici e rilevanti aspetti del diritto d’autore. Tra questi si possono qui ricordare:
a) eccezioni e limitazioni a diritto d’autore e diritti connessi nell’ambiente digitale e nel contesto transfrontaliero nonché per finalità di conservazione del patrimonio culturale (art. 3-7);
b) riproducibilità delle opere d’arte di pubblico dominio (art. 14);
c) diritto connesso dell’editore su pubblicazioni di carattere giornalistico (art. 15);
d) responsabilità dei prestatori di servizi online (ad es. YouTube) che memorizzano contenuti caricati dagli utenti (art. 17).
L’art. 17 della direttiva è stato poi impugnato dalla Polonia davanti alla Corte di Giustizia, che ancora deve pronunciarsi sulla sua legittimità (l’Avvocato Generale si è già espresso per il rigetto del ricorso polacco).
Molti Stati membri dell’Unione Europea sono in ritardo rispetto al termine di attuazione della direttiva scaduto il 7 giugno 2021 (v. qui).
L’Italia è tra questi (v. qui). Dopo l’approvazione della legge di delegazione europea 2019-2020 (legge 22 aprile 2021, n. 53), la procedura di attuazione è passata nelle mani del Governo.
Il Ministero della Cultura (MIC) ha elaborato una prima bozza di schema di decreto legislativo che ha sottoposto al parere del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore. Né la bozza originale, né il parere del comitato sono stati resi pubblici.
Il 15 e 16 luglio 2021 il MIC ha svolto audizioni informali sullo schema di decreto legislativo, convocando via email solo alcuni selezionati stakeholder. Altri portatori di interesse, che erano stati ascoltati in Parlamento durante i lavori sulla legge di delegazione europea, non sono stati convocati (ad esempio, Creative Commons – Capitolo italiano, Wikimedia Italia, Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta: v. qui, qui e qui). Eppure l’elenco dei soggetti ascoltati in Parlamento e la relativa documentazione audio e video erano pubblicamente accessibili dai siti web parlamentari. Di questa oscura e distorta procedura il pubblico è venuto a conoscenza solo grazie al post sul proprio sito web da parte di Audicoop della lettera di convocazione del MIC.
Il testo dello schema di decreto legislativo è stato trasmesso i primi giorni di agosto alle Camere per i pareri delle commissioni competenti. La discussione nelle commissioni è in corso (v. qui e qui).
Un membro del comitato consultivo del MIC ha dichiarato alla stampa che il testo trasmesso alle Camere è completamente diverso da quello sottoposto al parere del comitato consultivo.
La consultazione pubblica dei portatori di interesse è un aspetto delle procedure legislative che risponde a principi e regole della democrazia partecipativa sempre più formalizzate. Ad esempio, la Commissione dell’UE ha recentemente rivisto le proprie linee guida di “better regulation”. Un intero capitolo è dedicato alla “Stakeholder consultation“. Sebbene la formalizzazione di queste procedure non sia esente da critiche, è innegabile che essa muova nella giusta direzione: porre principi e regole che valgono per tutti e rendono il processo di normazione inclusivo, trasparente e controllabile, anche a futura memoria.
Le consultazioni pubbliche possono essere ridotte a un rito formale volto ad ammantare decisioni già prese dal velo della disponibilità ad ascoltare, oppure possono essere l’occasione per rendere più equilibrati e migliori i testi normativi. In ogni caso, il legislatore – soprattutto quando si tratta del governo – dovrebbe prendere molto sul serio le modalità con cui consultare pubblicamente i portatori di interesse.
In questa prospettiva, non vi è dubbio che il modello di consultazione pubblica normalmente in uso risponde a una procedura che inizia con un annuncio pubblico sul sito web istituzionale rivolto a tutti gli interessati ad esprimersi stabilendo un congruo termine massimo per la presentazione delle osservazioni. Le posizioni degli interessati vengono poi rese pubbliche sullo stesso sito web istituzionale. Dopo la scadenza del termine l’organo di normazione pubblica il documento in cui risponde alle osservazioni ricevute e un documento normativo definitivo. Di tutta la procedura resta traccia in modo che il pubblico possa maturare una propria opinione sul se e sul come il legislatore ha operato una sintesi degli interessi particolari guardando all’interesse generale.
Questo tipo di consultazione pubblica è quanto mai opportuno quando il legislatore mette mano a interventi normativi importanti finalizzati a incidere profondamente e a lungo sull’ordinamento. Per fare un esempio recente e attinente alla materia della proprietà intellettuale, allo scopo di iniziare il processo di revisione del codice della proprietà industriale il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato un documento provvisorio con le linee strategiche di riforma, ha chiamato con un annuncio pubblico i portatori di interesse a esprimersi in un determinato tempo, ha caricato sul sito web istituzionale le osservazioni ricevute e sullo stesso sito ha pubblicato le linee strategiche definitive.
È davvero sorprendente che il MIC non abbia pensato a una procedura simile per un intervento importante sul diritto d’autore come quello indotto dalla direttiva copyright e abbia invece scelto di convocare con comunicazione privata solo alcuni portatori di interesse.
Al di là dei contenuti normativi dello schema di decreto legislativo che recano le stimmate di una (verbosa) direttiva e di una (laconica) legge delega, entrambe sbilanciate a favore degli interessi commerciali legati alla proprietà intellettuale, il modo con cui si è proceduto a elaborare le nuove disposizioni legislative condanna la c.d. modernizzazione del diritto d’autore a un’intrinseca debolezza.
Osservazioni di AISA sullo schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale per l’uso della Commissione XIV del Senato della Repubblica. Il documento inviato al Senato è visibile qui.
Il testo del documento è riprodotto qui di seguito.
“Spett.le Segreteria 14a Commissione permanente – Politiche dell’Unione europea Senato della Repubblica
Trento, 15 settembre 2021
Oggetto: Schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 295 – XVIII Legislatura.
Con riferimento al documento in oggetto, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA), che aveva partecipato alle audizioni informali presso la XIV Commissione permanente (Politiche dell’Unione Europea) del Senato della Repubblica Italiana sul disegno di legge n. 1721 (Legge di delegazione europea 2019), intende proporre alcuni rilievi critici.
È forse superfluo ricordare che, nelle procedure legislative, la consultazione dei portatori di interesse risponde a regole e prassi volte a principi di pubblicità, trasparenza e inclusione. Questi principi sono stati in questa occasione consapevolmente calpestati dal legislatore. La direttiva 2019/790 è un testo normativo che ha diviso il Parlamento europeo, suscitato una valanga di critiche da parte degli accademici esperti della materia e alimentato un vasto movimento di opinione fortemente contrario alla sua approvazione. Le modalità anomale e opache con le quali si sta procedendo alla sua attuazione in Italia renderanno ancor più debole il risultato finale.
b) La mancanza di una visione d’insieme sulla proprietà intellettuale di una società democratica
La direttiva 2019/790 e la sua attuazione in Italia mediante modifica della l. 22 aprile 1941, n. 633 (legge sul diritto d’autore o lda) ripropongono la classica visione unionale che riduce il diritto d’autore a una mera questione di mercato. Invece, il diritto d’autore è un pezzo fondamentale della democrazia. La misura e il modo con cui la comunità scientifica può pubblicare e condividere i risultati della ricerca influiscono sul modo in cui evolve o involve una democrazia. Spazi più ampi di libertà nella pubblicazione e nella condivisione dei risultati della ricerca scientifica si traducono in maggiore libertà accademica e contribuiscono allo sviluppo di un dibattito pubblico e critico sulle dinamiche politiche ed economiche. Viceversa, vincoli più stringenti, come quelli che derivano da diritti di esclusiva – peraltro, sempre più attributi in via originaria e diretta agli intermediari commerciali e non agli autori – restringono i margini di libertà di informazione ed espressione del pensiero.
In buona sostanza, la direttiva 2019/790 guarda al diritto d’autore del mercato unico digitale come una questione tra intermediari commerciali vecchi (gli editori) e nuovi (Big Tech e grandi piattaforme di Internet). I cittadini, gli autori, gli scienziati, gli insegnanti, le università, le scuole, gli istituti di tutela del patrimonio culturale sono collocati ai margini della scena. La loro tutela è affidata a strumenti residuali e macchinosi come le eccezioni e limitazioni ai diritti di esclusiva. Mentre i diritti di esclusiva vengono rafforzati, e la responsabilità per la loro violazione aggravata, il promesso rafforzamento delle eccezioni e limitazioni si traduce in un corpo normativo intricato, confuso, contradditorio e prono agli interessi degli intermediari commerciali.
A ben vedere, la direttiva 2019/790 si colloca con coerenza nell’alveo di un’ampia strategia dell’Unione Europea che, persino in epoca pandemica, ripropone come formula magica l’equazione “più esclusive = più innovazione” (si veda la Comunicazione della Commissione UE COM(2020) 760 final del 25.11.2020 che contiene il Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE). Nonostante dati e teoria della proprietà intellettuale smentiscano l’equazione, il legislatore unionale e quello nazionale procedono sicuri verso un progressivo rafforzamento delle esclusive, focalizzandosi solo ad alcuni interessi particolari e smarrendo la visione ampia e lungimirante che guarda agli interessi generali di una società democratica.
Un fugace sguardo all’inizio della storia del diritto d’autore continentale può aiutare a comprendere il punto. I legislatori che approvarono, durante la Rivoluzione francese, la prima legge europea sul diritto d’autore erano infatti ben consapevoli della sua natura politica, cosmopolitica e pubblica prima che commerciale e privata. “Con la stampa” – sosteneva la relazione con la quale Sieyès presentava la sua proposta – “la libertà non è più confinata in repubbliche di piccole dimensioni, ma si espande per regni ed imperi. La stampa è, per l’estensione dello spazio, quello che era la voce dell’oratore nella piazza pubblica di Atene e di Roma”[1] Ma, a quanto pare, i legislatori europei e italiani, pur deliberando su spazi paragonabilmente ampi, non hanno occhi che per piccoli interessi.
A livello italiano, la controprova della focalizzazione sugli interessi degli intermediari commerciali è offerta dalla stasi di una delle poche iniziative legislative che puntava al rafforzamento del diritto dell’autore scientifico. Il riferimento è alla proposta di legge Gallo (DDL 1146 Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, nonché introduzione dell’articolo 42-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica). La proposta, la cui ultima discussione in Parlamento risale al novembre 2019, prevede l’introduzione dell’art. 42-bis nella legge sul diritto d’autore volto a riconoscere all’autore il diritto di ripubblicare la propria opera scientifica in accesso aperto.
c) Conclusioni
Alla luce del poco tempo messo a disposizione non è possibile formulare osservazioni di dettaglio sulle singole disposizioni normative dello schema di decreto legislativo.
L’AISA chiede espressamente alla Segreteria della 14a Commissione permanente di rendere pubblico questo documento sul sito web del Senato della Repubblica.
Cordialmente,
Prof. Roberto Caso
Presidente dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta
[1] Sieyès, Emmanuel Joseph (1790) Rapport de M. l’abbé Sieyès sur la liberté de la presse, et projet de loi contre les délits qui peuvent se commettre par la voie de l’impression, et par la publication des écrits et des gravures, http://www.copyrighthistory.org/cam/tools/request/showRecord?id=record_f_1790″
Pubblicato (anche in Open Access) il libro di Paolo Guarda su “Il regime giuridico dei dati della ricerca scientifica”. Nel libro si parla anche di Open Science e Open Access
“La ricerca scientifica si basa sui dati, i quali rappresentano l’assunto di partenza per il postulato di teoremi, per la dimostrazione di tesi, per la proposta di soluzioni affidanti. I dati sono perciò le pietre, i mattoni della scienza, ma necessitano di esser organizzati mediante criteri sistematici rigorosi per divenire elemento strutturale e fondante. Il mondo del diritto ha nel tempo predisposto apparati normativi che hanno, in modo frammentato e settoriale, fornito una regolamentazione ai vari contesti interessati dalla gestione dei dati concentrando l’attenzione sullo specifico scenario applicativo, ma raramente ricercando, se non in via eccezionale e talvolta inconsapevole, una visione complessiva. Anzi, proprio l’affastellarsi di diversificate soluzioni normative relativamente a contesti che, invece, si presentavano fortemente contaminati gli uni dagli altri, ha fatto in modo che si venisse a determinare un risultato finale caratterizzato da un regime di sovra-protezione. Quest’opera si propone di esplorare le specificità del regime giuridico dei dati della ricerca scientifica, offrendo un’analisi fondata su un metodo sistematico ad un tema troppo spesso frammentato in tanti e diversi sotto-insiemi di regole. Un approccio olistico che non intende solo fornire una gui