15.05.2024
R. Caso, ‘Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica : 1940, 1980, 2020‘, (2023) 1 EJPLT
Saggi e articoli
15.05.2024
R. Caso, ‘Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica : 1940, 1980, 2020‘, (2023) 1 EJPLT
31.03.2024
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ghost_(dark).svg, Editor B, CC BY 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by/4.0, via Wikimedia Commons
Roberto Caso, Uno spettro si aggira per l’Europa (ma non per l’Italia): il diritto di aprire le pubblicazioni scientifiche, in corso di pubblicazione, versione 1.0 – 31.03.2024, Zenodo. https://doi.org/10.5281/zenodo.10900212
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Nel 2016, a un anno dalla sua costituzione, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) propose di introdurre nella legge sul diritto d’autore (l. 1941/633) il diritto di ripubblicazione in ambito scientifico[1].
Non era ancora l’epoca del grande inganno dei contratti trasformativi[2], ma se ne erano poste, tanto entusiasticamente quanto insensatamente, le premesse[3]. Insomma, il potere monopolistico dei grandi editori commerciali, mutati in imprese di analisi dei dati, si avviava a consolidarsi.
L’idea di dotare gli autori di pubblicazioni scientifiche di un diritto inalienabile di riprodurre, distribuire e mettere a disposizione gratuita del pubblico la propria opera aveva lo scopo di contrastare il potere monopolistico delle imprese di analisi dei dati e di tenere in vita gli archivi non commerciali. In un mondo giuridico ideale in cui gli autori, dopo aver ceduto gratuitamente i diritti economici di esclusiva[4], sono liberi di ripubblicare negli archivi non commerciali, le imprese di analisi dei dati vedono ridotto il potere legato al fatto di essere la fonte unica o privilegiata dell’informazione scientifica e le istituzioni scientifiche mantengono il controllo dei file digitali che rappresentano le pubblicazioni scientifiche.
Nel mondo reale (e non ideale) le ragioni per promuovere l’introduzione di un nuovo diritto erano essenzialmente due.
a) L’art. 4 della legge 2013/112 è uno strumento giuridico intricato e inutile basato su obblighi di pubblicazione in accesso aperto circondati da molte limitazioni e non assistiti da regime sanzionatorio[5].
b) L’art. 42 della legge 1941/633 non può rappresentare un utile meccanismo di difesa della libertà di aprire le pubblicazioni scientifiche per la sua derogabilità contrattuale.
Occorreva guardare comparativamente ai modelli legislativi introdotti dal 2013 in alcuni paesi europei a partire dalla Germania e dai Paesi Bassi. Ed è quello che si fece. Si pubblicò una bozza di un possibile nuovo art. 42-bis sul sito web dell’associazione invitando il pubblico a intervenire e commentare. Dopo la discussione pubblica, la proposta definitiva apparve sul web[6]. Ad essa, durante la XVIII Legislatura, si ispirò la proposta di legge Gallo contrastata dall’Associazione Italiana Editori[7] e arenatasi, per responsabilità politica bipartisan, nel novembre del 2019[8].
Intanto maturava un dibattito dottrinale che portava a guardare al diritto di ripubblicazione anche nella sua componente morale. Se in alcuni modelli legislativi stranieri il diritto era dotato delle caratteristiche dell’irrinunciabilità e dell’inalienabilità, allora – sostenevano alcuni[9] – anche di diritto morale d’autore si trattava. L’eco di questo dibattito sulla natura del diritto arrivava nell’agenda politica[10], negli studi scientifici[11], nei progetti di ricerca[12] della Commissione Europea. Emergeva l’ipotesi di introdurre un Secondary Publication Right (SPR) nel diritto dell’Unione Europea e veniva prospettato un duplice e alternativo inquadramento: diritto dell’autore o eccezione e limitazione al diritto di esclusiva[13].
Chi scrive si è sempre espresso a favore dell’inquadramento in termini di vero proprio diritto nascente in capo all’autore (e non in capo all’eventuale istituzione di afferenza), composto di diritti economici e morali. L’inquadramento in termini diritto è strettamente legato a una concezione che guarda al SPR come strumento di esercizio della libertà del ricercatore di scegliere quando, come e dove pubblicare e ripubblicare, quale aspetto, in termini filosofici, dell’uso pubblico della ragione[14], e, in termini giuridico-costituzionali, della libertà di espressione del pensiero, di ricerca e di insegnamento nonché del diritto umano alla scienza.
Se si sposa questa prospettiva, la stessa denominazione di diritto di ripubblicazione o SPR appare insoddisfacente. Occorrerebbe invece preferire una diversa rubrica: diritto di aprire le pubblicazioni scientifiche[15]. Quest’ultima descrive meglio un diritto finalizzato all’immediata pubblicazione in un archivio non commerciale al quale potrà eventualmente (ma non necessariamente) seguire una pubblicazione presso una sede editoriale commerciale.
Se l’Unione Europea volesse sciogliere le proprie contraddizioni di fondo[16] e procedere all’armonizzazione della materia, dovrebbe introdurre uno strumento giuridico utile ed efficace: un diritto irrinunciabile e inalienabile di apertura immediata, privo di limitazioni attinenti alla natura del finanziamento della ricerca, del genere letterario e della versione del testo. Intanto il “pigro” legislatore italiano potrebbe, nelle more del processo legislativo europeo, dedicarsi a rinvigorire, da una parte, l’art. 42 della l. 633/41 con un’operazione (non meramente cosmetica) volta a neutralizzare la derogabilità contrattuale e a estendere la portata della norma a tutti i diritti economici, e, dall’altra, l’art. 67 della medesima legge, per chiarire che l’eccezione riguarda anche la riproduzione e la comunicazione al pubblico nell’ambito delle procedure di valutazione della ricerca.
Non sarebbero soluzioni ai problemi di fondo delle pubblicazioni scientifiche che attengono alla valutazione[17] e alla mentalità dei ricercatori, ma potrebbero contribuire a comprimere il potere monopolistico dei grandi editori commerciali.
Gli argomenti mossi contro il diritto di aprire le pubblicazioni scientifiche sono deboli.
a) Se dotato di irrinunciabilità e inalienabilità, il diritto limiterebbe la libertà contrattuale degli autori. L’argomento può valere solo per le pubblicazioni per le quali l’autore riceve un compenso in cambio della trasmissione dei diritti d’autore. Ma il problema può essere risolto con opportune deroghe all’irrinunciabilità del diritto per questi casi specifici.
b) Sul piano del diritto internazionale privato, la portata del diritto è limitata dalla libertà dei contraenti di scegliere la legge di una giurisdizione che non conosce questo tipo di strumento giuridico. Ma il problema trova una soluzione nella qualifica del diritto in termini di norma di applicazione necessaria. Non è forse una soluzione definitiva, ma aiuta a irrobustire il diritto. In altri termini, il diritto di aprire le pubblicazioni scientifiche è una soluzione che sconta la natura territoriale del diritto d’autore. A maggior ragione, c’è bisogno di armonizzazione nell’ambito dell’Unione Europea.
c) Il diritto incide sui modelli commerciali degli editori disincentivandone gli investimenti legati a mercati che presuppongono il controllo delle copie. L’argomento è ineccepibile, con la cautela di ricordare tre aspetti: l’autore generalmente non è remunerato dall’editore, il mercato è monopolistico (almeno in alcune aree scientifiche), vi sono editori e altri intermediari che innovano e vorrebbero promuovere, in un mercato realmente concorrenziale, modelli commerciali non basati sul controllo delle copie. Se si vuole incidere sul potere monopolistico, occorre innanzitutto agire, a monte, sulla sua fonte: il diritto d’autore. Qualsiasi intervento giuridico sulla materia incide sui modelli commerciali degli intermediari. La stessa creazione del diritto d’autore mutò all’epoca il quadro degli interessi: la fine del monopolio degli editori legati al potere sovrano aprì il mercato dei diritti d’autore. Nel caso del diritto di aprire le pubblicazioni scientifiche, il decisore politico deve assumersi la responsabilità di una decisione che non può accontentare tutti, tenendo a mente che qui non sono in gioco solo interessi economici ma i fondamenti di una società democratica.
[1] AISA, Proposta di modifica alla legge italiana sul diritto d’autore (prima versione), https://aisa.sp.unipi.it/attivita/diritto-di-ripubblicazione-in-ambito-scientifico/novella_old/
[2] P. Galimberti, Circa 70 anni: il tempo necessario agli editori per trasformarsi, Roars, 14.04.2024, https://www.roars.it/circa-70-anni-il-tempo-necessario-agli-editori-per-trasformarsi/; AISA, Contratti trasformativi: perché, in Italia, varrebbe la pena discuterne, https://aisa.sp.unipi.it/contratti-trasformativi-perche-varrebbe-la-pena-discuterne/
[3] R. Schimmer, K.K. Geschun, A. Vogler, Disrupting the subscription journals’ business model for the necessary large-scale transformation to open access. A Max Planck Digital Library Open Access Policy White Paper, 2015, doi:10.17617/1.3, http://hdl.handle.net/11858/00-001M-0000-0026-C274-7
[4] La cessione gratuita dei diritti economici fa venir meno il classico argomento promosso dalla teoria utilitaristica in base al quale il monopolio da copyright costituisce un incentivo alla creatività, oltre che un affrancamento dal mecenatismo, cfr. S. Shavell, Should Copyright of Academic Works be Abolished?. The Journal of Legal Analysis, Harvard Law and Economics Discussion Paper No. 655, Harvard Public Law Working Paper No. 10-10, SSRN: https://ssrn.com/abstract=1525667
[5] R. Caso, La legge italiana sull’accesso aperto agli articoli scientifici: prime note comparatistiche, Trento LawTech Research Papers, nr. 18, Trento, Università degli Studi di Trento, 2014; in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, nr. 4/2013, 681-702. http://eprints.biblio.unitn.it/4257/
[6] AISA, Proposta di modifica alla legge italiana sul diritto d’autore, https://aisa.sp.unipi.it/attivita/diritto-di-ripubblicazione-in-ambito-scientifico/novella/
[7] Associazione Italiana Editori, A.S. 1146 Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica. Nota dell’Associazione Italiana Editori, https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/040/901/AIE_29.10.2019_.pdf
[8] XVIII Legislatura, Sentato della Repubblica, d.d.l. n. 1146, Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, nonché introduzione dell’articolo 42-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica, https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51466.htm
[9] R. Caso, La libertà accademica e il diritto di messa a disposizione del pubblico in Open Access, Trento LawTech Research Papers, nr. 37, Trento, Università degli studi di Trento, 2019, in Opinio Juris in Comparatione, v. 2019, n. 1/2019 (2019), p. 45-78, https://zenodo.org/records/3635771#.Yjjl47jSJQJ; R. Caso, G. Dore, Academic Copyright, Open Access and the “Moral” Second Publication Right, Trento LawTech Research Paper nr. 47, 2021, in European Intellectual Property Review, 6/2022, 332-342, https://zenodo.org/records/5764841
[10] European Commission, Directorate-General for Research and Innovation European Research, European Research Area Policy Agenda – Overview of actions for the period 2022-2024, Brussels, Manuscript completed in November 2021, 1st edition, B-1049, https://commission.europa.eu/system/files/2021-11/ec_rtd_era-policy-agenda-2021.pdf
[11] European Commission, Directorate-General for Research and Innovation, C. Angelopoulos, Study on EU copyright and related rights and access to and reuse of scientific publications, including open access: exceptions and limitations, rights retention strategies and the secondary publication right, Publications Office of the European Union, 2022, https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/884062d5-1145-11ed-8fa0-01aa75ed71a1/language-en; European Commission, Directorate-General for Research and Innovation, PPMI, Sant’Anna Scuola Universitaria Superiore Pisa, KU Leven CITIP, IViR, Study to evaluate the effects of the EU copyright framework on research and the effects of potential interventions and to identify and present relevant provisions for research in EU data and digital legislation, with a focus on rights and obligations, in Corso di pubblicazione.
[12] reCreating Europe Consortium. (2023). reCreating Europe Final Conference Booklet. Zenodo. https://doi.org/10.5281/zenodo.7774557
[13] European Commission, Directorate-General for Research and Innovation, C. Angelopoulos, Study on EU copyright and related rights and access to and reuse of scientific publications, including open access: exceptions and limitations, rights retention strategies and the secondary publication right, cit.
[14] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? [trad. di F. Di Donato, supervisione di M.C. Pievatolo, dall’orig. Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? in Berlinische Monatsschrift, 04 (Dezember) 1784], 481, in Bol- lettino Telematico di Filosofia Politica, http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ ar01s04.xhtml#a037; M.C. Pievatolo, I padroni del discorso. Platone e la libertà della conoscenza, Pisa, Edizioni PLUS, 2003 http://bfp.sp.unipi.it/ebooks/mcpla. html; F. Di Donato, La scienza e la rete. L’uso pubblico della ragione nell’età del Web, Firenze, Firenze University Press, 2009, http://www.fupress.com/archivio/ pdf/3867.pdf
[15] R. Caso, Il diritto umano alla scienza e il diritto morale di aprire le pubblicazioni scientifiche. Open Access, “secondary publication right” ed eccezioni e limitazioni al diritto d’autore, Trento LawTech Research Paper n. 56, 2023, in Rivista italiana di informatica e diritto 1/2023. https://zenodo.org/records/7544153#.Y8aRnuLMK3I
[16] R. Caso, Proprietà intellettuale e scienza aperta nelle politiche dell’Unione Europea su ricerca e innovazione. Quale ruolo per il settore pubblico e l’università?, Trento LawTech Research Paper, n. 60 (2024), Zenodo, in corso di pubblicazione negli atti del XXVII Colloquio Biennale “Public and Private in Contemporary Societies” dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato (AIDC), svoltosi presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Taranto-Bari, il 25-27 maggio 2023. https://zenodo.org/records/10863825
[17] M.C. Pievatolo, To publish or to republish, that is the question. La necessità e i limiti di un diritto di ripubblicazione in ambito scientifico, in corso di pubblicazione.
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Novembre 2023
R. Caso, Capitalismo dei monopoli intellettuali, pseudo-proprietà intellettuale e dati nel settore dell’agricoltura di precisione e dello smart farming: note a margine del right to repair, Trento LawTech Research Paper series, n. 57, 2023, in Rivista di diritto alimentare, Anno XVII, Quaderno n. 1-2023
5 settembre 2023
Pubblicato il n. 57 della serie dei LawTech Research Paper
Abstract
“Questo scritto è finalizzato a discutere, da una prospettiva giuridica, i problemi derivanti dalla concentrazione di potere di controllo ed elaborazione dei dati e delle informazioni nelle mani di monopoli e oligopoli commerciali che forniscono ai produttori agricoli macchine (ad es., trattori), sementi, prodotti chimici (ad es. fertilizzanti e diserbanti) nonché servizi di agricoltura di precisione e smart farming.
Tali monopoli e oligopoli traggono, almeno in parte, la loro forza dalla proprietà intellettuale e dalla pseudo-proprietà intellettuale. La pseudo-proprietà intellettuale consiste in quelle forme anomale di esclusiva che si basano, ad esempio, su contratto e misure tecnologiche di protezione nonché sul potere di fatto che deriva dal controllo dell’infrastruttura tecnologica su cui i dati vengono memorizzati, elaborati e trasmessi sulle reti telematiche.
Nel settore dello smart farming e dell’agricoltura di precisione il potere delle imprese che forniscono fattori di produzione può determinare effetti anticoncorrenziali e abusi di dipendenza economica. Più in generale il potere dei monopoli intellettuali diminuisce il grado di autonomia e libertà degli agricoltori: non solo del singolo agricoltore di fronte all’impresa fornitrice del fattore di produzione, ma anche della categoria degli agricoltori di fronte a quella dei fornitori dei fattori di produzione all’interno della filiera agroalimentare. Tra gli strumenti giuridici che sono stati immaginati per contrastare tale potere merita attenzione il c.d. right to repair, il diritto dell’utente di un dispositivo di poterlo riparare senza sottostare alle restrizioni imposte dal produttore del dispositivo. Tale diritto, per essere efficace, deve limitare la proprietà intellettuale e la pseudo-proprietà intellettuale”.
29 agosto 2023
Roberto Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio? (Nota a Trib. Firenze 20 aprile 2023 e Trib. Venezia, ord. 17 novembre 2022), in Foro it., 2023, I, 2283
26 agosto 2023
AA. VV., Perché la valutazione ha fallito. Per una nuova Università pubblica, Morlacchi Editore U.P., volume in Open Access (all’interno R. Caso, La valutazione autoritaria e la privatizzazione della conoscenza contro la scienza aperta, Trento LawTech Research Paper nr. 52, 2022)
Presentazione a Roma Tre, 20 settembre 2023: “Valutazione e comunità scientifiche“
Isbn: 9788893924351
Pagine: 176
Anno di pubblicazione: 2023
Collana: Saggi e studi di scienze sociali
“Come si riconosce un’opera di scienza? Qualunque sia la risposta, l’unica cosa ovvia è che la qualità scientifica non può essere ridotta a quantità, a criteri burocraticamente oggettivi. Per quanto ci si sforzi nel formulare i regolamenti migliori, il punto fondamentale è che nessuno può espropriare le comunità scientifiche della loro autonomia. Soprattutto non tramite un’agenzia espressione dell’autorità politica. L’Università ha bisogno di liberarsi da inutili e complesse pastoie burocratiche, che alterano il modo di fare ricerca. Il nostro libro vuole essere un’occasione per riflettere: l’errore più grave sarebbe continuare ad accettare acriticamente un sistema di valutazione che dall’alto si impone al lavoro quotidiano di chi fa ricerca”.
Roberto Caso, Maria Chiara Pievatolo
R. Caso, M.C. Pievatolo, A liberal infrastructure in a neoliberal world: the Italian case of GARR, in Journal of Intellectual Property, Information Technology and Electronic Commerce – JIPITEC 14 (2) 2023, preprint available at Zenodo, <https://doi.org/10.5281/zenodo.7561821>
This paper aims to outline some issues concerning the interaction, in European Union law, between data policy, university regulation, open science, intellectual property and infrastructure policy. On the one hand, such issues primarily regard intellectual property: exclusive rights deriving from copyright and related rights, patents, trademarks, and trade secrets. On the other hand, they also concern forms of exclusive control on data that are not strictly related to intellectual property but enhanced by the control on technology and infrastructure. This exclusive control can accompany or be independent from the protection of intellectual property conferred by law. To make science open and to limit the market power of intellectual monopolies and oligopolies, restricting and reshaping intellectual property rights on data is not enough. It is also necessary to create or to revive public infrastructures and to implement open standards for texts, data, and code. An example of a public infrastructure for a university is the Italian consortium GARR, which during the COVID-19 pandemic contributed to anchor the local debate about academic and teaching freedom to an actual and viable alternative, protecting independent and public knowledge not just de jure but de facto as well.
Roberto Caso, June 15, Kluwer Copyright Blog
Roberto Caso, Michelangelo’s David and cultural heritage images. The Italian pseudo-intellectual property and the end of public domain, Kluwer Copyright Blog, June 15, 2023
29.03.2023
Roberto Caso, Copyright vs parody: the fair balance doctrine in front of the Italian Supreme Court, Kluwer Copyright Blog, 29.o3.2023
On 30 December 2022, the Italian Supreme Court (Corte di Cassazione) issued an order that intervened again on the interpretation of the quotation exception under Article 70 of the Italian Copyright Act (l. 633/1941, l.aut.). The decision concerns an advertising campaign of a mineral water company. The commercial video promoting the mineral water features a humorous version of the Zorro character created by Johnston McCulley in 1919, but itself inspired by earlier literary figures such as Robin Hood and the Scarlet Pimpernel as well as, according to some speculation, Joaquin Murrieta, a California outlaw who lived in the 1800s. The company that owns the copyright on the Zorro character sued the mineral water company for copyright infringement.
The ruling of the order is the following:
“Parody must respect a fair balance between, on the one hand, the intellectual property right of the copyright holder on the work and, on the other hand, the freedom of expression of the author of the parody; in this sense, the reproduction of protected work may be justified within the limits inherent in the parodistic purpose and provided that the parody does not prejudice the interests of the owner of the original work, as is the case when it competes with the economic use of original work”.
Italian copyright law and parody
Italy has chosen not to introduce an ad hoc exception on parody in its copyright law, even when it could have proceeded so on the basis of InfoSoc Directive. Today, Italian law, following the implementation of Art. 17 (7) Copyright Directive 2019/790 (CDSMD), explicitly names exceptions and limitations for the purpose of caricature, parody and pastiche in Art. 102-nonies (2) l.aut., but this provision is specifically aimed at protecting the freedom of expression of Internet users when they upload and make available content they generate through online content-sharing service providers. In other words, it is not a general exception on parody.
Towards the Italian fair balance doctrine?
The case decided by the Corte di Cassazione provides an opportunity to reformulate the legal principle of prevalence of freedom of parody over copyright in the terms used by the Court of ustice of the EU (CJEU). The (magic) formula is the “fair balance between fundamental rights”. In the lexicon of the EU Charter of Fundamental Rights (CRF), this is the balance between intellectual property (Article 17(2)) and freedom of expression and information (Article 11).
In short, the EU-style fair balance doctrine officially becomes part of the interpretive and argumentative techniques of the Italian Supreme Court.
But there are some open issues.
a) What is the relationship between the CRF and the Italian Constitution in the field of copyright?
b) The CJEU coined and used the fair balance formula to give itself the power to conform with European copyright law. In the arguments of the Corte di Cassazione, is the formula destined to assume real weight in the outcomes of the next decisions?
c) In the CJEU’s case law, the fair balance doctrine has served to give flexibility to the interpretation of exceptions and limitations, otherwise condemned to the narrow spaces of restrictive literal interpretation. In judging the permissibility of parody, the Court must respect a fair balance between fundamental rights. If the message contained in the parody has discriminatory content, the Court must consider the author’s interest in not having his work associated with the discriminatory message (Deckmyn, C-201/13). Is the Corte di Cassazione willing to follow the CJEU on this path?
d) Is the fair balance doctrine destinated to become a kind of Euro-Italian fair use in disguise? The question is relevant because many are calling for the inclusion of an open-ended clause in the European regulatory framework, as for instance suggested by reCreating Europe’s project policy recommendations.
The devil – as always – is in the details. The prevalence of the right to parody is only tendential, as copyright wins again when the parodic work competes with the economic use of the original work. This ruling of the Corte di Cassazione is not fully convincing for two reasons.
(i) The criterion based on the competition with the economic use of the work is slippery. On the one hand, the sophisticated techniques of antitrust law aimed at defining the boundaries of the relevant market have no place in copyright law. On the other hand, imitation or reproduction for parodistic reason is not always a source of taking away the profits of the original work; on the contrary, it can produce the opposite effect, multiplying fame and revenues.
(ii) The fair balance test in this way weighs in favor of the intellectual property at the expense of the freedom of expression. This reasoning reflects a one-dimensional (economic) view of copyright, while the same is historically, philosophically, and positively multidimensional, because it is precisely closely related to freedom of expression and information.
Quotation or transformative use of unprotectable ideas?
A final remark. The formulation of a legal problem is never a neutral act since, in reflecting the political and ideological beliefs of the interpreter, it guides the solution. The case submitted to the Corte di Cassazione was formulated in terms of a quotation exception. But the problem could be formulated not with reference to the quotation exception, but to the principles of creativity and the dichotomy idea/expression.
Several arguments move in this direction. The protection of Zorro is invoked not in relation to a complex work, but a character inspired by other historical precedents. Assuming that the identifying and figurative elements of the character (the name Zorro, the blackness of the clothes, the mask, the hat and the sword) are creative contents, these elements are relocated in a humorous context that undoubtedly determines a new semantic meaning. They take in the autonomous parodic work a “transformative” meaning that they do not have in the original work. Such creative elements, if evaluated in the comparative analysis between parodied and parodistic work, lose their original character and end up becoming ideas, data, facts.
This way of reasoning has the advantage of looking not at the formal distinction between idea and expression (which is always difficult to govern), but at the purpose of a work that draws inspiration from one or more previous works while modifying their meanings. This advantage is evident, for example, in disputes over contemporary art, which is known to be more focused on ideas than expressions.
The purpose of copyright law is not only to create a market for intellectual works but also to ensure freedom of expression and information. This freedom fosters, in a democratic society, the dialogue between authors and the public, the development of a plural, diverse and inclusive culture as well as the fulfillment of the social function of the exclusive right and its limits. In this perspective, the analysis of the parody-copyright conflict cannot be trapped in a criterion based on formal parameters (the abstract distinction between idea and expression) or merely economic ones (competition with the economic use of the original work) that disregard the purpose of the parody.
16 gennaio 2023
Pubblicato il n. 56 della serie dei LawTech Research Paper
Abstract: “Mentre gran parte del dibattito sul rapporto tra diritto umano alla scienza e alla ricerca, proprietà intellettuale e diritto d’autore si focalizza sulle eccezioni e limitazioni ai diritti di esclusiva (libere utilizzazioni) e sui diritti degli utenti, questo scritto sostiene, sulla scorta di precedenti ricerche, che occorre guardare anche ad altri dispositivi giuridici. Tra questi dispositivi spicca l’attribuzione in capo all’autore di un diritto di apertura dei testi scientifici (c.d. “secondary publication right”) a difesa dell’autonomia e della libertà accademiche, sempre più a rischio. Tale diritto non è un’eccezione o una limitazione del diritto di esclusiva né un diritto dell’utente ma un vero e proprio diritto morale (ed economico) dell’autore di aprire i testi scientifici. Esso è filosoficamente fondato sulla visione kantiana del diritto d’autore (il diritto d’autore non è una proprietà ma un diritto morale a protezione del discorso tra autore e pubblico), sull’uso pubblico della ragione e sulla norma mertoniana che prescrive la messa in comune della conoscenza scientifica. Il diritto di aprire i testi scientifici è una proiezione del diritto umano alla scienza (aperta)”.
Una riflessione presentata all’Università di Pisa e ad Harvard 4 anni fa e già disponibile in Open Access nella serie dei Trento LawTech Research Paper viene oggi pubblicata in un libro sulla libertà accademica nel contesto europeo curato dai colleghi Ivo De Gennaro, Hannes Hofmeister Ralf Lüfter.
Roberto Caso, 2 febbraio 2022
Nelle 125 pagine appena uscite da Il Mulino Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche – IRCCS Mario Negri dialoga con la giornalista e divulgatrice scientifica Caterina Visco su proprietà intellettuale e farmaci.
Si tratta di pagine chiare e preziose. Una guida agile e lucida per accedere al grande dibattito internazionale sui problemi dell’attuale sistema di produzione dei farmaci.
Il sistema si basa sul mercato e sulla proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, segreti industriali, marchi, diritti d’autore). La tesi del grande farmacologo italiano è netta: mercato e proprietà intellettuale funzionano molto male. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano innovazione, si basano su opacità e conflitti di interesse. Le argomentazioni sono solide, corredate da numeri e fatti, nonché da alcuni essenziali riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo.
“Se le attuali regole di mercato, di proprietà intellettuale e di profitto, non garantiscono l’accesso alla salute a tutti i cittadini, forse vanno riformate, fatte evolvere in modo da mettere al centro l’interesse dei pazienti e della società” [p. 26]
La pandemia da COVID-19 ha riportato tragicamente sotto riflettori tutti i difetti dell’attuale politica di produzione dei farmaci. La globalizzazione ha edificato alla metà degli anni ’90 uno stringente apparato di protezione di diritti di proprietà intellettuale che copre dispositivi medici, farmaci e vaccini sull’assunto che più diritti di esclusiva avrebbero portato a più innovazione. Ma questo assunto nel tempo si è dimostrato infondato.
La proprietà intellettuale ha favorito l’emersione di monopoli e il mercato ha smesso di innovare: è possibile – denuncia Garattini – brevettare e mettere in commercio farmaci che non presentano un reale avanzamento in termini di cura (“valore terapeutico aggiunto”) [pp. 37, 48, 89-90]. Gli Stati hanno consegnato tutto il potere alle grandi industrie farmaceutiche, le quali producono solo quel che promette di generare profitto e non necessariamente ciò di cui la gente ha bisogno.
Buona parte dell’innovazione si deve alla ricerca di base di università, enti e istituti di ricerca finanziati con i fondi pubblici (i soldi dei cittadini), ma questa innovazione finisce per essere privatizzata dalle industrie farmaceutiche. Rastrellamento di brevetti universitari, cannibalizzazione di società nate in ambito universitario (spin-off e start-up) [p. 33], appropriazione dei risultati della ricerca (pubblicazioni e dati) messi in accesso aperto su Internet sono alcuni esempi di privatizzazione.
I cittadini comprano a prezzi monopolistici direttamente o indirettamente – in Italia tramite il Sistema Sanitario Nazionale per i prodotti a carico dello Stato inseriti in un’apposita lista – i farmaci che sono stati sviluppati anche grazie alle tasse da loro stessi versate. Insomma, pagano due volte la stessa cosa: la prima volta versando le tasse che vanno alla ricerca pubblica, la seconda volta acquistando il farmaco. Di più, il prezzo del farmaco non include solo la rendita monopolistica ma anche una quota che serve a coprire costi delle industrie totalmente slegati da ricerca e innovazione: lobbying presso decisori pubblici (legislatori, agenzie di controllo ecc.) nonché presso i medici, pubblicità del marchio, altre spese di commercializzazione [p. 76].
Le malattie rare e i c.d. farmaci orfani che non presentano prospettive di guadagno sono fuori dal radar delle industrie farmaceutiche [pp. 78-79]. I Paesi poveri che non possono permettersi i prezzi monopolistici sono espulsi dal mercato della salute. A quest’ultimo proposito, la storia ci ripropone la catastrofe morale che ha visto negare le cure per l’HIV/AIDS e l’epatite C ad ampie fasce della popolazione. La distribuzione dei vaccini contro il SARS Cov-2 è palesemente sbilanciata: mentre il ricco Occidente fornisce la terza e la quarta dose del siero, i Paesi a basso reddito non riescono a somministrare nemmeno la prima. L’ineguale distribuzione dei vaccini causa ingiustizia e moltiplica il rischio che si diffondano nuove pericolose varianti del virus. Una rapida ed eguale distribuzione dei vaccini su scala globale avrebbe evitato molti morti e consentito di uscire in breve tempo dalla pandemia.
Anche le agenzie di controllo dei farmaci non funzionano in modo ottimale, sebbene il quadro sia molto migliorato rispetto dagli anni ’50. Gli studi clinici (trials) su qualità, efficacia e sicurezza sono demandati alle stesse industrie farmaceutiche che producono i farmaci, con evidente conflitto di interessi [pp. 90-93]. I dati relativi alle sperimentazioni cliniche sono oggetto di un’esclusiva ad hoc (c.d. data exclusivity) che può aggiungersi al brevetto per invenzione. A questo proposito ha fatto scalpore il recente editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare adesso i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal.
La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).
1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.
2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.
3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.
4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.
5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.
6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.
7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).
Quale dovrebbe essere il risultato della riforma del sistema brevettuale e della sperimentazione di forme di ricerca e imprenditorialità non-profit? Si potrebbe indurre una sana competizione tra industrie ed enti non-profit favorendo lo sviluppo di farmaci migliori e a più basso costo.
Garattini mostra di saper contemperare visione e pragmatismo.
“Forse in un mondo come quello di oggi non è possibile trovare una soluzione unica, ma è necessario mettere a punto diverse misure; quello che non va trascurato nei discorsi pratici è l’obiettivo finale: garantire l’accesso alla salute a tutti i cittadini, come dichiarato dalla nostra Costituzione e nei principi dell’Organizzazione mondiale della sanità” [p. 113]. “[…] Nel complesso, sul breve e lungo periodo, quello di una riforma di questo sistema è comunque un processo che prevede piccole tappe; un percorso che può avvenire su strade che possono correre in parallelo o magari in direzioni opposte ed essere contradditorie, perché il progresso è fatto di errori: trials and errors, esperimenti ed errori” [p. 114].
Nel libro Garattini non solo suggerisce le linee guida per un cambiamento radicale delle politiche di produzione dei farmaci – politiche che evidentemente sono nelle mani dei decisori pubblici -, ma ricorda anche di aver messo in pratica i fondamentali principi etici che le ispirano (pp. 73-75). Infatti, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS ha una prospettiva della ricerca schiettamente anti-brevettuale. Sul sito web dell’istituto la ragione dell’ostilità verso i brevetti è spiegata in un’apposita pagina: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche?”. La risposta è: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare.
“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.
La scelta di rinunciare ai brevetti non riflette solo i celebri precedenti di Salk e Sabin, ma sembra trovare conferme anche in questi giorni con la promessa di un nuovo vaccino anti-COVID-19 libero dalla proprietà intellettuale: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi per la ricerca che fa capo al Texas Children’s Hospital e al Baylor College of Medicine. Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma per la produzione dei vaccini a mRNA. Il vaccino privo di brevetti costituisce un modello importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.
Il libro si chiude con un sogno. Si può immagine un futuro in cui la salute possa prescindere da mercato e proprietà intellettuale. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di:
“[…] giungere a una società più matura e con più ideali, in cui la ricerca in ambito medico e di salute pubblica non dovrebbe essere stimolata dal profitto, ma piuttosto da riconoscimenti di gratitudine pubblica. Potrebbe essere l’epoca in cui la medicina non è più un ‘mercato’ , ma un’organizzazione al servizio di chi soffre. […] Diversi lettori potrebbero giudicare tutto questo un’ingenuità e un sogno. Tuttavia, sognare […] è pur sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà” [p. 125].
Le pagine del volume meritano un’attenta lettura, soprattutto da parte dei giovani, perché rappresentano la straordinaria testimonianza di chi, in 70 anni di esperienza nel campo della scienza dei farmaci, ha saputo coniugare amore per la conoscenza, capacità organizzativa e dedizione per la cura delle persone. Un messaggio in grado di ispirare chi non ha perso la speranza di poter cambiare in meglio il mondo: a cominciare dalla realizzazione dei fondamentali diritti alla salute e alla scienza.
Working paper versione 5.0, 8 aprile 2022; versione 3.0 25 gennaio 2022 (Trento LawTech Research Paper nr. 48; https://zenodo.org/record/5902766); 24 gennaio 2022 (versione 2.0) https://zenodo.org/record/5898995; 23 gennaio 2022 (versione 1.0): https://zenodo.org/record/5894534; in corso di pubblicazione in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 4/5 2022, 815-836
Roberto Caso
Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti l’interazione, nel diritto dell’Unione Europea, tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.
La riflessione è innescata da una novità nella politica normativa dell’Unione Europea di apertura dei dati nel settore pubblico. La direttiva 2019/1024/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (“Open Data directive” o “direttiva dati aperti”) determina un cambio di rotta sui dati della ricerca (art. 10, considerando 27 e 28), prima esclusi dalla materia e oggi invece oggetto di disciplina.
La tesi di questo scritto è la seguente. Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti per testi, dati e codici occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati. Da questa politica normativa dipende il futuro dell’autonomia e della libertà delle istituzioni di ricerca (prime fra tutte: le università) e in, ultima analisi, della democrazia.
Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti, nel diritto dell’Unione Europea, l’interazione tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.
La riflessione è innescata da una novità nella politica normativa dell’Unione Europea di apertura dei dati nel settore pubblico. La direttiva 2019/1024/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (“Open Data directive” o “direttiva dati aperti”) determina un cambio di rotta sui dati della ricerca (art. 10, considerando 27 e 28), prima esclusi dalla materia e oggi invece oggetto di disciplina [Richter 2018; Guarda 2021, 186 ss].
L’art. 10 (dati della ricerca) della dir. 2019/1024/UE così recita:
“1. Gli Stati membri promuovono la disponibilità dei dati della ricerca adottando politiche nazionali e azioni pertinenti per rendere (‘politiche di accesso aperto’) secondo il principio dell’apertura per impostazione predefinita e compatibili con i principi FAIR. In tale contesto, occorre prendere in considerazione le preoccupazioni in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali, in conformità del principio «il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario». Tali politiche di accesso aperto sono indirizzate alle organizzazioni che svolgono attività di ricerca e alle organizzazioni che finanziano la ricerca.
2. Fatto salvo l’articolo 1, paragrafo 2, lettera c), i dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente ai capi III e IV, nella misura in cui tali ricerche sono finanziate con fondi pubblici e ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca li hanno già resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica. In tale contesto viene tenuto conto degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti”.
Dall’articolo emergono cinque principi sui dati della ricerca in riferimento all’obbligo rivolto agli Stati membri di adottare politiche nazionali e azioni pertinenti (“politiche di accesso aperto”):
1) apertura per impostazione predefinita;
2) compatibilità con le caratteristiche Findability, Accessibility, Interoperability, Reusability (FAIR), in italiano: reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità;
3) riutilizzabilità a fini commerciali e non commerciali nella misura in cui le ricerche sono finanziate con fondi pubblici e i dati sono stati resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica;
4) i primi tre principi devono prendere in considerazione le “preoccupazioni” (“concerns” nella versione inglese) in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali e devono “tener conto” degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti.
5) il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario (“as open as possible, as closed as necessary”).
Il principio n. 4) è, ai fini di questo scritto, quello più problematico. La sintesi tra le opposte esigenze di apertura e chiusura dovrebbe trovare espressione nel principio n. 5). Insomma, l’art. 10 getta un ponte tra politiche dei dati aperti nel settore pubblico e politiche in materia di Open Science: principi FAIR e principio “il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario” sono, infatti, importati dalla politica europea in materia di scienza aperta.
La dir. 2019/1024/UE ha reso necessario un riordino normativo (rifusione) delle norme adottate nel 2003 (dir. 2003/98/CE, relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico) e nel 2013 (dir. 2013/37/UE, che modifica la dir. 2003/98/CE), non più adeguate al nuovo scenario tecnologico caratterizzato, tra l’altro, da Big Data, intelligenza artificiale e Internet delle cose [Pascuzzi 2020, 274]. Tale normativa incrocia ora la strategia europea in materia di dati, composta a sua volta di molteplici iniziative normative, e la nuova politica normativa in campo digitale.
Lo slogan che sintetizza sul sito web di riferimento la strategia europea in materia dei dati è formulato nel modo seguente:
“La strategia europea in materia di dati mira a fare dell’UE un leader in una società basata sui dati. La creazione di un mercato unico dei dati consentirà a questi ultimi di circolare liberamente all’interno dell’UE e in tutti i settori a vantaggio delle imprese, dei ricercatori e delle amministrazioni pubbliche.
Le singole persone, le imprese e le organizzazioni dovrebbero essere messe in grado di adottare decisioni migliori sulla base delle informazioni derivate da dati non personali”.
Tralascio considerazioni sugli obiettivi politici e sulla retorica di questo testo. Mi limito a osservare che il termine strategia è largamente abusato nei documenti politici e amministrativi, ma in questo caso il suo uso metaforico ha un nesso con l’etimologia militare. L’Unione Europea è nella tenaglia delle due superpotenze digitali (USA e Cina), e prova – almeno a parole – a difendere la propria autonomia facendo geopolitica dei dati.
L’Italia ha dato attuazione alla dir. 2019/1024/UE con il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 200 che ha modificato, per quanto attiene ai dati della ricerca, il decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, aggiungendo l’art. 9-bis (dati della ricerca) che statuisce quanto segue:
“1. I dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente a quanto previsto dal presente decreto legislativo, nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali, ove applicabile, degli interessi commerciali, nonché della normativa in materia di diritti di proprietà intellettuale ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, e dei diritti di proprietà industriale ai sensi del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.
2. La previsione del comma 1 si applica nelle ipotesi in cui i dati siano il risultato di attività di ricerca finanziata con fondi pubblici e quando gli stessi dati siano resi pubblici, anche attraverso l’archiviazione in una banca dati pubblica, da ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca, tramite una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica.
3. I dati della ricerca di cui ai commi precedenti rispettano i requisiti di reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità”.
Il d.lgs 2006/36 fornisce all’art. 2 le definizioni di “dati della ricerca” e “dato pubblico”.
“Dati della ricerca: documenti informatici, diversi dalle pubblicazioni scientifiche, raccolti o prodotti nel corso della ricerca scientifica e utilizzati come elementi di prova nel processo di ricerca, o comunemente accettati nella comunità di ricerca come necessari per convalidare le conclusioni e i risultati della ricerca”.
“Dato pubblico: il dato conoscibile da chiunque”.
Il considerando 27 della dir. 2019/1024/UE offre alcuni esempi di dati della ricerca:
“[…] Sono dati della ricerca per esempio le statistiche, i risultati di esperimenti, le misurazioni, le osservazioni risultanti dall’indagine sul campo, i risultati di indagini, le immagini e le registrazioni di interviste, oltre a metadati, specifiche e altri oggetti digitali. I dati della ricerca sono diversi dagli articoli scientifici, in cui si riportano e si commentano le conclusioni della ricerca scientifica sottostante […]”.
L’art. 9-bis del d.lgs 2006/36 tace sulle “politiche nazionali di accesso aperto”, implicitamente rinviando ad altre sedi l’attuazione dell’obbligo della loro adozione (v. conclusioni di questo scritto a margine del Piano Nazionale per la Scienza Aperta preannunciato dal Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027), e mette in esponente il “principio di riutilizzabilità”.
A prima vista l’affermazione del “principio di riutilizzabilità” dei dati pubblici (non segreti, non riservati) della ricerca finanziata con fondi pubblici (derivanti dallo Stato) appare superflua. Secondo l’impostazione giuridica tradizionale i dati non possono essere oggetto né di proprietà (intesa in senso proprio, cioè come proprietà su beni tangibili, cose), né di proprietà intellettuale. Tuttavia, l’impostazione tradizionale appare contraddetta dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi decenni che vede un’inarrestabile espansione della proprietà intellettuale sempre più vicina a comprendere i mattoni di base della conoscenza (dati e informazioni), la comparsa di forme anomale di esclusiva giuridica (“pseudo-proprietà intellettuale”) e l’emersione del controllo esclusivo di fatto basato sul potere tecnologico. Tra le forme anomale di esclusiva vanno annoverati, ad esempio, la titolarità dei dati da parte della PA, l’interazione tra contratto e misure tecnologiche di protezione dei dati e, in campo biomedico, l’esclusiva sui dati dei trials clinici. Il linguaggio della prassi spesso si riferisce a queste forme di controllo con l’espressione “proprietà dei dati” o “titolarità dei dati”.
Chi è promotore della scienza aperta dovrebbe accogliere con favore l’affermazione sul piano legislativo del principio di riutilizzabilità dei dati della ricerca. Tuttavia, per come formulato e disciplinato, a cominciare dalla clausola di salvezza “nel rispetto …” della proprietà intellettuale, il principio rischia di essere inutile. Ciò per diversi ordini di ragione.
a) La scienza aperta è inconciliabile con la continua espansione della proprietà intellettuale [David 2003]. L’Unione Europea e l’Italia non mostrano alcuna intenzione di voler invertire la tendenza espansiva della proprietà intellettuale. Anzi, i documenti programmatici – come il Piano di Azione della Commissione UE sulla proprietà intellettuale e la strategia sulla proprietà industriale del Ministero dello Sviluppo Economico – e le ultime normative – ad es. la direttiva 2019/790/UE -, provano esattamente il contrario: l’obiettivo è quello di rafforzare la proprietà intellettuale. Nemmeno la pandemia ha indotto un ripensamento [Caso 2020c]. Basterà qui ricordare che l’Unione Europea figura tra i più strenui oppositori della richiesta di sospensione dei TRIPS (gli accordi sulla proprietà intellettuale nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), una misura temporanea che non mette in discussione il quadro di fondo [Caso 2021].
b) Il principio di riutilizzabilità non prevale sulla proprietà intellettuale, ma – come si è detto – la fa salva (considerando 54-56, art. 1.2 c) e d), art. 1.5) dir. 2019/1024/UE; art. 9-bis d.lgs. 2006/36).
c) Decenni di politiche di finanziamento e valutazione della ricerca hanno esaltato l’idea di premiare la c.d. “eccellenza”, instaurando un regime valutativo meritocratico, concentrando i fondi su pochi e scatenando una competizione tra ricercatori e tra istituzioni della ricerca per l’accaparramento delle poche risorse a disposizione. Le tradizionali norme informali della scienza aperta volte al comunismo della conoscenza sono state investite da pressioni che spingono a tenere i dati riservati. Di più, i ricercatori finanziati con fondi pubblici sono incentivati tramite regole valutative e prospettive di guadagno a reclamare diritti di proprietà intellettuale funzionali al trasferimento della tecnologia alle imprese, vero e proprio mantra delle politiche dell’innovazione.
d) L’apertura dei dati della ricerca deve tener conto di chi ha la disponibilità delle infrastrutture e del potere computazionale per poterli elaborare. Al momento molte di queste infrastrutture fisiche e logiche sono in mano a oligopoli commerciali che si trovano per la maggior parte fuori dell’Unione Europea. Il tema è ben presente alle istituzioni unionali, ma le misure finora messe in campo non sembrano sufficienti a risolvere il problema. L’apertura dei dati, senza infrastrutture al servizio di tutti, rischia di alimentare il potere degli oligopoli, il quale produce, tra l’altro, disuguaglianza.
Si determina perciò un circolo vizioso. Le regole valutative incidono sulle norme sociali della scienza diminuendo la propensione a condividere i dati della ricerca. D’altra parte, in modo contradditorio, le politiche in materia Open Science spingono a condividere e ad aprire su Internet i dati mediante licenze che ne determinano – anche giuridicamente – la totale perdita di controllo [Pievatolo 2020b]. I dati aperti finiscono sotto il controllo delle piattaforme Internet che li difendono con la proprietà intellettuale e la pseudo-proprietà intellettuale nonché li elaborano con algoritmi a loro volta difesi da proprietà intellettuale (segreto commerciale). Parte di questo potere di controllo e computazione dei dati è usata per alimentare la valutazione bibliometrica, la quale genera il potere oligopolistico delle piattaforme che operano in campo scientifico. Questo ecosistema della proprietà intellettuale e della privatizzazione dei dati della ricerca mette a rischio le norme sociali della scienza volte al comunismo della conoscenza e in ultima analisi la democrazia [Pagano 2021].
Fig. 1: Il circolo vizioso di privatizzazione dei dati della ricerca
Il resto di questo scritto è organizzato nel modo seguente. Nel paragrafo 2 si mette in evidenza la contraddizione delle politiche europee: da un lato, promozione della scienza aperta, dall’altro, rafforzamento della proprietà intellettuale. Nel paragrafo 3 si descrivono le dinamiche di privatizzazione dei dati aperti basate sul controllo esclusivo di dati e algoritmi. Nel paragrafo 4 si passano in rassegna alcune proposte di cambiamento nella politica delle infrastrutture di ricerca col fine di restituire a settore pubblico, università, enti e istituti di ricerca il controllo dei dati. Nel paragrafo 5 si traggono alcune conclusioni anche in relazione al panorama italiano.
Negli ultimi dieci anni l’Unione Europea ha sviluppato un’ampia politica di promozione dell’Open Science che riguarda:
– i propri programmi quadro di ricerca (FP7, H2020, Horizon Europe);
– le infrastrutture della ricerca (OpenAIRE, Zenodo, European Open Science Cloud o EOSC, Open Research Europe);
– la valutazione della ricerca (nuove metriche e un sistema di premi, incentivi e riconoscimenti ai ricercatori che praticano la scienza aperta);
– l’etica della ricerca (integrità e riproducibilità dei risultati);
– la formazione e le competenze in materia di scienza aperta;
– il coinvolgimento dei cittadini nella scienza (citizen science).
Tuttavia, sul piano dell’armonizzazione del diritto degli Stati membri l’intervento è stato limitato. I due interventi più direttamente pertinenti alla materia sono:
1) la raccomandazione 2018/790/UE del 25 aprile 2018 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione (revisione della precedente versione del 2012: racc. 2012/417/UE);
2) l’art. 10 della dir. 2019/1024/UE di cui qui si discute e che eleva a principio legislativo l’obbligo di adottare politiche nazionali di accesso aperto.
D’altra parte, sul fronte della proprietà intellettuale si marcia, come si è accennato nel primo paragrafo introduttivo, verso il continuo rafforzamento delle esclusive. Non è solo una questione di ampliamento delle esclusive esistenti, ma anche di proliferazione di nuovi diritti di esclusiva esclusiva [Resta 2011]: ad es., nuovi diritti connessi al diritto d’autore [Sganga 2021]. Questa legislazione alluvionale non presenta nemmeno definizioni condivise dei concetti fondamentali: dato e informazione. E deve coordinarsi con normative come quelle sugli Open Data e protezioni dei dati personali che definiscono in modo settoriale alcune nozioni (innanzitutto, la nozione di dato) [Guarda 2021, 11 ss.]. Insomma, il quadro legislativo si fa via via più intricato e confuso. Emerge plasticamente una contraddizione finora insoluta: da una parte, si promuove l’Open Science, dall’altra, si rafforza la proprietà intellettuale [Caso 2020a, 39].
Ad esempio, il diritto d’autore in linea di principio non conferisce un’esclusiva sui dati ma sulle opere dell’ingegno originali. Dell’opera dell’ingegno non sono vietati tutti gli usi. Si possono riprodurre le idee, i fatti, le informazioni e, appunto, i dati che compongono l’opera dell’ingegno. Non si può invece riprodurre la forma espressiva dell’opera. Il principio è conosciuto con la formula della distinzione tra idea (non protetta) ed espressione (protetta) o dicotomia idea/espressione. Ebbene, per quanto di difficile e controversa interpretazione (le definizioni giurisprudenziali di opera, idea, fatto e dato sono “liquide”), il principio ha costituito per molto tempo un baluardo della libertà di informazione ed espressione nonché della libertà di ricerca. Tuttavia, una serie di modifiche normative ne hanno ridotto la portata.
In particolare, la direttiva 1996/9/CE (direttiva banche dati) ha istituito un diritto sui generis (un diritto distinto dal diritto d’autore) in capo al costitutore di una banca dati.
La direttiva definisce la nozione di “banca dati”.
Per “Banca di dati” si intende una raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili grazie a mezzi elettronici o in altro modo.
L’art. 7.1 e 7.4 della dir. 1996/9/CE così statuiscono:
“1. Gli Stati membri attribuiscono al costitutore di una banca di dati il diritto di vietare operazioni di estrazione e/o reimpiego della totalità o di una parte sostanziale del contenuto della stessa, valutata in termini qualitativi o quantitativi, qualora il conseguimento, la verifica e la presentazione di tale contenuto attestino un investimento rilevante sotto il profilo qualitativo o quantitativo. […]
4. Il diritto di cui al paragrafo 1 si applica a prescindere dalla tutelabilità della banca di dati a norma del diritto d’autore o di altri diritti. Esso si applica inoltre a prescindere dalla tutelabilità del contenuto della banca di dati in questione a norma del diritto d’autore o di altri diritti. La tutela delle banche di dati in base al diritto di cui al paragrafo 1 lascia impregiudicati i diritti esistenti sul loro contenuto”.
La direttiva si proponeva di incentivare la creazione di un florido mercato delle banche dati attraverso l’istituzione di un nuovo diritto di esclusiva (un diritto connesso al diritto d’autore). L’equazione alla base dell’intervento normativo era: più proprietà intellettuale = più innovazione. Insomma, la nuova esclusiva avrebbe dovuto aiutare le imprese europee nella competizione globale e in particolare nella competizione con gli USA.
L’equazione si è rivelata errata. Gli Stati Uniti pur non essendo – o forse, proprio per non essere – dotati di un diritto equivalente al diritto sui generis europeo hanno stravinto la competizione. La Commissione UE nel valutare l’impatto della direttiva ha, per ben due volte – nel 2005 e nel 2018 -, dovuto ammettere che non ci sono prove sull’impatto del diritto sui generis nella produzione di database. Nonostante ciò, la Commissione ha deciso di lasciare inalterata la direttiva.
Ma ora il vento sembra cambiare (almeno con riferimento alla direttiva banche dati). Nella strategia europea dei dati la parola d’ordine è diventata: condivisione [van Eechoud 2021].
Non a caso, l’art. 1.6 della dir. 2019/1024/UE (direttiva dati aperti) statuisce che:
“6. Il diritto del costitutore di una banca di dati di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 96/9/CE non è esercitato dagli enti pubblici al fine di impedire il riutilizzo di documenti o di limitare il riutilizzo oltre i limiti stabiliti dalla presente direttiva”.
La spinta verso la condivisione dei dati si vede anche meglio nella proposta del Data Governance Act (condivisione da parte del settore pubblico di dati non aperti e condivisione di dati tra imprese) e nelle premesse di quella che diventerà la proposta del Data Act (condivisione dei dati detenuti dalle imprese con il settore pubblico).
Tuttavia, nonostante tale spinta verso la condivisione dei dati, spalmata su un ventaglio di iniziative normative difficili da ricondurre a un sistema organico, il progressivo e inarrestabile rafforzamento della proprietà intellettuale continua a contrapporsi allo sviluppo della scienza aperta.
Un esempio è costituito dalla controversa direttiva 2019/790/UE (direttiva copyright), attuata in Italia con decreto legislativo 2021/177.
L’art. 3 della dir. 2019/790/UE è la disposizione normativa che riguarda più da vicino il tema dei dati della ricerca. La norma dispone un’eccezione ad alcuni diritti di esclusiva derivanti dal diritto d’autore e dal diritto sui generis sulle banche dati per consentire a organismi di ricerca e istituti di tutela del patrimonio culturale – come definiti dalla stessa direttiva – di effettuare l’estrazione, per scopi di ricerca scientifica, di testo e di dati da “opere” (protette da diritto d’autore) o altri “materiali” (protetti da diritti connessi) cui essi hanno legalmente accesso [Margoni, Kretschmer 2021]. Senza entrare nei dettagli, la norma, come quella che la attua in Italia, è contorta nonché presidiata da una serie di cautele, poste a presidio degli interessi dei titolari dei diritti di esclusiva, tanto ampia da ridurne fortemente la portata applicativa [Caso 2020b].
L’esempio merita di essere citato perché offre un’idea della politica legislativa dell’UE in materia di proprietà intellettuale. Tale politica si sostanzia nel rafforzamento del diritto di esclusiva che dovrebbe essere controbilanciato da specifiche eccezioni e limitazioni. Senonché il “sistema” delle eccezioni e limitazioni si è trasformato in un groviglio di norme disorganiche e in gran parte inutili. Ragion per cui non resta che sperare nei giudici, gli unici in grado di riequilibrare il rapporto tra esclusiva e libertà di uso mediante tecniche argomentative che eludono le restrizioni poste dalle eccezioni e limitazioni. Anche se occorre sottolineare che il ruolo della giurisprudenza nel campo del rafforzamento della proprietà rimane ambiguo: da una parte, contenimento delle esclusive, dall’altra, estensione delle esclusive legislative o addirittura creazione di nuove esclusive per via pretoria [Resta 2011].
La filosofa della scienza Sabina Leonelli [Leonelli 2018, 29, 30-31] mette in evidenza due fenomeni:
a) il datocentrismo;
b) la combinazione di Big e Open Data.
“Nell’approccio datocentrico, i dati sono visti come entità pubbliche che hanno valore scientifico indipendentemente dal loro ruolo di prova per una determinata ipotesi e che possono essere interpretati in modi diversi a seconda delle abilità e degli interessi dei ricercatori che li analizzano. […]
L’ascesa del datocentrismo e la combinazione di Big e Open Data ha enormi implicazioni per come la ricerca scientifica – e in particolare l’organizzazione e l’utilizzo dei dati – viene condotta, organizzata, governata e valutata. La capacità dei dati di servire come fonte di conoscenza scaturisce dalla loro mobilità: ossia, dalla loro capacità di viaggiare attraverso diverse situazioni di analisi e riuso e di essere relazionati con quanti più tipi di dati diversi possibile”.
Insomma, una volta messi in Rete, i dati si muovono, viaggiano e dispiegano la loro natura non rivale: un dato non è come una cosa tangibile che è rivale all’uso, è invece usabile contemporaneamente da più soggetti. Sabina Leonelli ha dedicato molti anni delle sue ricerche per seguire i viaggi dei dati, concludendo che questi viaggi espongono la scienza datocentrica a diversi rischi, tra i quali risaltano: la produzione di conoscenza errata e la creazione o l’aggravamento di discriminazioni e diseguaglianze [Leonelli 2018, 43 ss.].
Per questo c’è bisogno di un’epistemologia dei dati che mitighi tali rischi.
Alcuni dei rischi messi in luce da Leonelli riguardano la commercializzazione dei dati della ricerca. I dati della ricerca possono, infatti, avere un grande valore economico.
Il fatto che le imprese possano giovarsi dei dati della ricerca finanziata pubblicamente è un aspetto fisiologico in un sistema capitalistico che potenzialmente è in grado di generare innovazione [Gold 2016]. Ciò che non è fisiologico è l’uso scorretto dei dati da parte delle imprese. Ciò che è ancor più patologico è che Internet non è più un luogo dove trionfano la libertà e la concorrenza, ma è sempre più un ecosistema malato dove dominano alcuni grandi centri potere privato (Big Tech) e pubblico (Big Governement) e dove il confine tra privato e pubblico si fa alquanto sfumato.
I dati della ricerca una volta in circolazione vengono messi sotto il controllo del potere computazionale delle grandi piattaforme le quali li mischiano con altri dati, soprattutto con dati personali, per finalità che in gran parte attengono al “capitalismo della sorveglianza” [Zuboff 2019]. Li elaborano attraverso algoritmi di apprendimento automatico (c.d. intelligenza artificiale) che sono difesi da segreti commerciali.
In altri termini, i dati aperti della ricerca finiscono sotto il controllo esclusivo delle piattaforme che può rispondere a forme propriamente dette di proprietà intellettuale o a forme anomale di controllo esclusivo (“pseudo-proprietà intellettuale”). La pseudo-proprietà intellettuale, peraltro, tende a sfuggire al controllo giuridico – giudici, autorità amministrative – e ai meccanismi di bilanciamento tipici del diritto della proprietà intellettuale.
A tal proposito l’economista Massimo Florio [Florio 2021, 62] rileva quanto segue.
“Gli algoritmi con cui funzionano i motori di ricerca o le piattaforme social, per quanto segreti, non implicano conoscenze tecnologiche e scientifiche superiori a quanto sia alla portata dei dipartimenti universitari dove si fa ricerca avanzata sulla tecnologia dell’informazione, inclusa l’intelligenza artificiale e in generale le tecniche di trattamento dei Big Data. Al contrario, le sette sorelle dell’economia digitale attirano conoscenze e capitale umano mettendolo al servizio di un’agenda di accumulazione di capitale. Se questo avviene senza ostacoli è anche perché la legislazione che si è voluta applicare alla protezione del consumatore e alla regolazione del mercato in settori come ad esempio la telefonia mobile non si è voluta applicare a queste piattaforme. Non vi è nulla di intrinsecamente tecnologico in questo, è una scelta politica derivante da circostanze reversibili. Quindi se non esistono, o non sono dominanti, piattaforme digitali che si impegnino a lasciarci la proprietà dei nostri dati e a gestirli solo nell’interesse pubblico in base a un protocollo a tutti noto, senza finalità commerciali o di comunicazione politica, questo non è un caso. È una scelta politica […]” .
Che la situazione attuale sia frutto di decisioni politiche è un ormai un fatto assodato. Il giurista Cesare Salvi in proposito svolge le seguenti considerazioni.
“La creazione di ‘nuove proprietà’ da parte del diritto è stata studiata di recente da Katharina Pistor, e non riguarda solo gli strumenti finanziari […].
Per Pistor, il ‘Code of Capital’ è un processo di ‘codifica’ cioè di scrittura di un linguaggio (operata dagli studi legali, ma garantita dalla legislazione globale), attraverso il quale la qualifica di bene giuridico, cioè di oggetto di proprietà privata, viene attribuita a un numero crescente di entità, alcune delle quali ‘esistono soltanto nella legge’. In questo modo, tali entità diventano ‘capitale’.
Oggi la cosiddetta proprietà intellettuale […] è assimilata alla proprietà in senso proprio (lo dice esplicitamente l’art. 17 della Carta dei diritti dell’Unione Europea), attribuendo così allo sfruttamento economico della conoscenza le medesime garanzie accordate alla proprietà dei beni materiali. La figura è in costante espansione, comprende entità eterogenee configurate come oggetto di diritti proprietari.
I diritti d’autore e i brevetti nacquero, parallelamente all’invenzione della proprietà moderna, tra il Seicento e l’Ottocento, per tutelare – per un breve periodo – autori e inventori di beni socialmente utili. Negli ultimi decenni il neoproprietarismo ha stravolto la logica e le finalità del sistema. La brevettabilità è stata estesa dal prodotto alle fasi precedenti (la ricerca), un numero crescente di beni e di attività sono state rese meritevoli di protezione, la durata si è allungata, è fiorente un mercato dei brevetti […].
È anche protetto il potere di controllare, utilizzando tecniche sempre più raffinate, i flussi di informazione. Attraverso algoritmi tenuti segreti (‘il vero signore di questa epoca digitale’) in quanto considerati ‘proprietà intellettuale’, le grandi imprese della rete decidono quali ‘informazioni’ diffondere e come queste devono essere conosciute. […]
Siamo in presenza non di un effetto ‘naturale’ del progresso tecnologico, ma di decisioni politiche, tradotte in norme giuridiche.
L’idea di privatizzare internet […] aprendolo agli usi commerciali, è stata una decisione dell’amministrazione Clinton. […]
Chi immaginava la rete come un bene comune, ecosistema di una miriade di innovatori e interlocutori, si trova oggi di fronte a un luogo occupato da pochi proprietari monopolistici”. [Salvi 2021, 57-59].
Si assiste a un paradosso: la scienza aperta produce dati che dovrebbero servire a tutti e che invece vengono privatizzati.
“Da un lato l’esistenza di un vasto patrimonio di open science frutto della ricerca di migliaia di università ed enti pubblici di ricerca rappresenterebbe un grande potenziale per accrescere la giustizia sociale. Ma dall’altro quel patrimonio può produrre l’effetto contrario: le imprese private che si collocano a valle, grazie agli investimenti in conoscenza già realizzati a monte, con la loro attività di R&S, si appropriano privatamente della conoscenza” [Florio 2021, 63].
Non è un caso che alcuni critici dell’Open Science abbiano argomentato contro l’apertura sostenendo che si tratta di un meccanismo di produzione di dati finalizzato ad alimentare il capitalismo digitale [Hagner 2018].
Tra le voci critiche si può segnalare – per la sua rinomanza – lo storico e divulgatore Yuval Noah Harari [Harari 2017, 559, 582-583, 599] che parla della nuova religione dei dati: il datismo.
“Il datismo sostiene che l’universo consiste di flussi di dati e che il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati […] Il datismo è nato dalla confluenza esplosiva di due maree scientifiche. Nei centocinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione dell’Origine della specie di Charles Darwin, le scienze biologiche sono giunte a concepire gli organismi come algoritmi biochimici. Contemporaneamente, negli ottant’anni trascorsi da quando Alan Turing formulò l’idea della macchina che porta il suo nome, gli informatici hanno imparato a progettare algoritmi digitali interpretabili da elaboratori elettronici sempre più sofisticati. Il datismo mette insieme queste due concezioni, evidenziando che esattamente le stesse leggi matematiche si applicano sia agli algoritmi biochimici sia a quelli computerizzati digitali. Inoltre, questa nuova visione delle cose abbatte il muro tra animali e macchine, e prevede che gli algoritmi computerizzati alla fine decifreranno e supereranno le prestazioni degli algoritmi biochimici.
[…] Il datismo sostiene la libertà delle informazioni come il bene più importante. […]
La gente di rado si inventa valori nuovi. […]. Il datismo è il primo movimento, dal 1789, che ha creato un valore autenticamente innovativo: la libertà delle informazioni.
Non dobbiamo confondere la libertà delle informazioni con il vecchio ideale liberale della libertà di espressione. La libertà di espressione era data agli umani e proteggeva il loro diritto a pensare e dire quello che volevano – tra cui il diritto di tenere la bocca chiusa e i propri pensieri per sé stessi. La libertà delle informazioni, invece, non è data agli umani. È data alle informazioni. Inoltre, questo valore nuovo può ledere la tradizionale libertà di espressione degli umani, privilegiando il diritto delle informazioni a circolare liberamente sul diritto degli umani a possedere dati e restringerne il movimento […].
Un esame critico del dogma datista è forse non soltanto la più grande sfida scientifica del XXI secolo, ma anche il progetto politico ed economico più urgente. Gli studiosi di scienze biologiche dovrebbero chiedersi se perdiamo qualcosa quando concepiamo la vita come un processo di elaborazione dati e decisionale”.
Più di recente Kate Crawford [Crawford 2021, 127] ha denunciato ciò che si nasconde dietro la retorica dei dati e dell’apprendimento automatico.
“Espressioni come data mining e frasi come ‘i dati sono il nuovo petrolio’ rappresentano una modalità retorica che serve a spostare la nozione di dato da qualcosa di personale, intimo o soggetto alla proprietà e al controllo individuale a qualcosa di più inerte e non umano. I dati hanno iniziato a essere descritti come una risorsa da consumare, un flusso da controllare o un investimento da sfruttare. L’espressione ‘i dati come petrolio’ è diventata un luogo comune e per quanto faccia pensare ai dati come a un materiale grezzo da estrarre, raramente è servita ad evidenziare i costi delle industrie petrolifere e minerarie: lavoro a contratto, conflitti geopolitici, depauperamento delle risorse naturali e conseguenze che vanno ben oltre la durata della vita umana.
In definitiva, la parola ‘dati’ ha perso sostanza; nasconde sia le sue origini materiali che i suoi fini. E una volta concepiti nella loro astrattezza e immaterialità, i dati sfuggono più facilmente ai concetti e alle responsabilità dell’attenzione, del consenso o del rischio.”
Le preoccupazioni non finiscono qui. Non solo i dati aperti della ricerca finiscono nel controllo privato della conoscenza, ma vengono incrociati con i dati personali di terze persone e anche con i dati personali degli stessi scienziati.
Numerose analisi mettono in luce che il capitalismo della sorveglianza è pienamente in funzione anche nella scienza [Aspesi et al. 2019, 32; Deutsche Forschungsgemeinschaft 2021; R. Siems 2021; Pievatolo 2021b; Pooley 2021]. Singoli scienziati e comunità di ricercatori vengono costantemente sorvegliati per prevedere e, in ultima analisi, influenzarne il comportamento, più in generale per influenzare l’evoluzione della scienza. Per quanto concerne le università ciò avviene per quanto attiene alla ricerca, alla didattica e alla gestione amministrativa. Non sorprende perciò che sia nata una campagna di mobilitazione “Stop Tracking Science” che reclama la cessazione della sorveglianza dei ricercatori.
Nel documento di SPARC del 2019 [Aspesi et al. 2019] poi aggiornato negli anni successivi [Aspesi et al. 2020, Aspesi et al. 2021] si rileva come il mercato dell’editoria scientifica stia passando dai contenuti ai dati. In particolare, le imprese come Elsevier concentrano il loro business sull’analisi dei dati. Il modello commerciale estende il suo oggetto dalle riviste scientifiche e dai libri fino ad arrivare alla valutazione, agli strumenti gestionali e ai sistemi per l’apprendimento online con quel che ne deriva in termini di rischi per i dati personali [Ducato et al. 2020; C. Angiolini et al. 2020]. Il controllo dei dati relativi a studenti, docenti e ricercatori, risultati della ricerca e funzionamento delle istituzioni ha un valore economico enorme. Perciò l’Open Access alle pubblicazioni scientifiche praticato dalle imprese di analisi dei dati non è la via che conduce all’Open Science [Aspesi, Brand 2020].
Molte delle analisi sui problemi legati alla privatizzazione dei dati della ricerca convergono nel delineare soluzioni che puntano a riprendere il controllo delle infrastrutture fondamentali della scienza o, per lo meno, ad affiancare infrastrutture indipendenti a quelle nelle mani degli oligopoli commerciali.
SPARC nel 2019 ha pubblicato una road map per le soluzioni organizzative necessarie per le università a riprendere il controllo di dati e infrastrutture [Aspesi, et al. 2019b]. La road map di SPARC è sintetizzata nella figura che segue.
Fig. 2: “Open Data Infrastructure: A Road Map” [Aspesi, et al. 2019b]
Il menu delle soluzioni si basa su due principi organizzativi. Il primo distingue metriche ed algoritmi. Il secondo distingue tre tipi di azioni (mitigazione dei rischi, scelte strategiche e azioni della comunità dei portatori di interesse).
Secondo SPARC le metriche – ciò che è oggetto di misura – dovrebbero essere nel controllo accademico, mentre gli algoritmi – come si misura – potrebbero anche non essere nel diretto controllo delle istituzioni accademiche, ma dovrebbero comunque essere trasparenti al fine di essere attentamente compresi e monitorati.
Esempi di azioni di mitigazione del rischio includono la predisposizione di meccanismo di coordinamento tra le varie strutture all’interno del campus, la revisione delle politiche sui dati, l’adozione di procedure trasparenti per l’acquisizione di servizi esterni.
Le questioni relative alle scelte strategiche comprendono quali metriche usare, in che misura fare ricorso all’intelligenza artificiale, l’alternativa tra proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza.
Tra le azioni della comunità spicca la costruzione o l’acquisizione di una propria infrastruttura per la gestione dei dati.
Karen Maex rettrice dell’Università di Amsterdam – e anche Presidente della League of European Research Universities (LERU) – ha denunciato questo stato di cose nel discorso per l’inaugurazione del 389. Dies Natalis – 8 gennaio 2021 – dell’istituzione che governa [Maex 2021].
Maex denuncia il fatto che grandi compagnie private esercitano un ruolo sempre più importante nella vita delle università diminuendo il loro grado di autonomia e libertà.
L’erosione dell’indipendenza delle università è cominciata dalle biblioteche. Con il passaggio dalle biblioteche alle banche dati commerciali online le università hanno perso il controllo delle fonti di conoscenza. Dall’avere la proprietà dei supporti e il controllo della logica con cui ordinare le fonti (libri, riviste), le biblioteche universitarie si sono ridotte a intermediari per l’accesso e l’uso delle banche dati online pre-ordinate dagli editori commerciali. Quel che preoccupa di più è la perdita delle biblioteche come arene gratuite e aperte della ricerca. Il movimento dell’Open Access ha provato a ricostruire online queste arene, ma gli editori commerciali stanno prendendo il controllo anche dell’Open Access attraverso nuove formule contrattuali – i c.d. contratti trasformativi che dovrebbero condurre dagli abbonamenti per le banche dati ad accesso chiuso ad abbonamenti per pubblicare in accesso aperto [cfr. AISA 2020; Galimberti 2021] – i loro servizi valutativi.
L’erosione dell’indipendenza si è poi estesa ai dati della ricerca e agli altri dati prodotti dalle università (dati relativi alle abitudini di ricerca e lettura, dati relativi ai sistemi di didattica e apprendimento online, dati relativi alla selezione di studenti e docenti, dati relativi alla gestione amministrativa). I grandi editori commerciali come Elsevier, trasformatisi in imprese di analisi dei dati, sono penetratati a fondo nella vita delle università.
Nel riprendere il discorso di Karen Maex la filosofa politica Maria Chiara Pievatolo [Pievatolo 2021b] aggiunge la seguente nota a margine:
“La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente”.
La questione nel riguardare il futuro dell’università, giocoforza riguarda il futuro della democrazia di cui le università, come luoghi di formazione della conoscenza e dello spirito critico, costituiscono un pilastro. Occorre perciò proteggere il carattere pubblico e autonomo della conoscenza prodotta nelle università.
Per difendere l’autonomia e la libertà delle università la rettrice Maex ritiene insufficiente la politica normativa europea attualmente in discussione, in particolare il Digital Services Act con le sue implicazioni in termini di maggiore trasparenza degli algoritmi alla base delle piattaforme Internet. Reclama invece l’introduzione di un Digital University Act che abbia quattro obiettivi.
1. Dati della ricerca. La conservazione e l’accesso ai dati della ricerca deve essere gestita da università e infrastrutture pubbliche.
2. Pubblicazioni scientifiche. Le pubblicazioni scientifiche devono essere in Open Access e non devono ingenerare alti costi per la pubblicazione o, peggio, dipendenza economica da un’impresa privata di analisi dei dati.
3. Strumenti per la didattica e per la ricerca. Le università devono avere il controllo degli strumenti digitali per la didattica e la ricerca. Tali strumenti dovrebbero far capo a piattaforme pubbliche o private, ma le università dovrebbero mantenere un controllo sui dati di uso e il potere di influenzare lo sviluppo degli stessi strumenti.
4. Dati delle piattaforme. Ricercatori e docenti devono avere accesso ai dati delle piattaforme per motivi di studio e insegnamento.
L’analisi delle debolezze della strategia europea dei dati e le proposte avanzate da Maex sono sostanzialmente riprese in un documento della LERU del dicembre 2021 [LERU 2021]. In tale documento, partendo dal rischio che la politica europea dei dati tratti le università alla stregua di imprese, le proposte vengono declinate e dettagliate su 16 principi rivolti a vari portatori di interesse: legislatori, digital providers, individui appartenenti alle università, università, industria.
L’iniziativa denominata Plan I – dove la “I” sta per Infrastructure – è stata avanzata da un gruppo di ricercatori tedeschi, tra questi si segnala il nome di Biorn Brembs, uno dei più autorevoli promotori a livello internazionale dell’Open Science [Brembs et al. 2021; Pievatolo 2021a]. Brembs e i suoi colleghi partono da un’analisi disincantata dell’attuale stato delle cose. Per trent’anni scienziati e ricercatori universitari hanno abbandonato il campo dell’innovazione delle infrastrutture di ricerca. Quel campo è stato occupato dai grandi editori commerciali come Elsevier, ora imprese di analisi dei dati, e dalle Big Tech come Microsoft.
Tutte le fasi del ciclo del lavoro dello scienziato che porta dalla ricerca e analisi dei dati, alla scrittura dei testi, fino alla pubblicazione, alla promozione (outreach) e alla valutazione dei risultati è occupato da poche grandi imprese commerciali (oligopoli).
Fig. 3: “Providers of digital tools for the scientific workflow (CC BY: Bianca Kramer, Jeroen Bosman, https://101innovations.wordpress.com/workflows). The preconditions for a functioning market exist, but a common standard is missing that provides for the substitutability of service providers or tools”. Tratta da Brembs et al. 2021
All’interno di queste infrastrutture commerciali attraverso tecnologie di sorveglianza e tracciamento le imprese estrapolano dati relativi al comportamento dei ricercatori che vengono sia venduti ad altre imprese sia sfruttati all’interno delle infrastrutture commerciali per rimodellare i propri modelli di business e offrire servizi alle istituzioni di ricerca.
La proposta Plan I si sostanzia in due punti.
1) Aprire gli standard di testi, dati e codici al fine di innescare la concorrenza dei servizi editoriali. In altri termini, l’apertura degli standard servirebbe a diminuire il potere di mercato dei grandi oligopoli. In particolare, servirebbe a distruggere il “vendor lock-in” (la dipendenza economica dal fornitore oligopolista).
2) Incentivare l’uso di standard aperti e riformare la valutazione della ricerca scientifica abolendo, secondo i principi della DORA declaration, criteri di valutazione che premiano la sede di pubblicazione invece del contenuto della pubblicazione.
L’obiettivo finale è quello di demolire il sistema oligopolistico di pubblicazione basato sulle riviste scientifiche (e sui servizi di analisi di dati) per costruire un mercato concorrenziale di servizi editoriali in cui testi, dati e codici sono liberamente accessibili e riproducibili. Secondo le stime di Brembs e dei suoi colleghi in un mercato concorrenziale di servizi editoriali le istituzioni di ricerca risparmierebbero il 90 % degli attuali costi di abbonamento alle banche dati oligopolistiche.
Una diversa proposta viene dall’economista Massimo Florio, sopra citato. L’alternativa all’oligopolio è rappresentata da una grande impresa pubblica europea di infrastruttura di ricerca [Florio 2021, 74 e 92].
“Si tratta di riscoprire l’idea dell’impresa pubblica e ibridarla con quella di infrastruttura di ricerca: un nuovo tipo di impresa come polo della creazione di conoscenza. Questo tipo di organizzazione potrebbe gestire come proprietà sociale il capitale intangibile derivante dalla ricerca pubblica in alcuni campi, creando un portafoglio di progetti i cui ritorni alimentino un fondo destinato sia a reinvestire nella stessa ricerca sia a programmi di promozione dell’uguaglianza nell’accesso alle nuove conoscenze. […]
Le proposte che seguono [Biomed Europa, Green Europa, Digital Europa] intendono quindi proporre soggetti unitari hub, eventualmente multicentrici, puntando su progetti su larga scala che integrino ricerca e servizio pubblico, intorno ai quali si possa aggregare una costellazione di altri soggetti pubblici e privati”.
Per quanto riguarda Digital Europa, l’infrastruttura che dovrebbe consentire di ripretendere il controllo dei dati, Florio dà conto delle iniziative in corso in Europa (Gaia-X e EOSC ecc.) e in Italia ICDI-Italian Computing and Data Infrastructure, ma le ritiene insufficienti.
“Nonostante questi segnali incoraggianti, difficilmente senza una vera infrastruttura sul modello delineato […] l’Europa recupererà il divario che si è creato con USA e Cina nella tecnologia dell’informazione e settori connessi. […]
Occorrerebbe immaginare un soggetto sovranazionale europeo che non abbia solo funzioni di coordinamento, ma abbia a tutti gli effetti autonomia manageriale, di bilancio, di capitale tangibile e intangibile, di personale dedicato con la missione di creare una piattaforma pubblica alternativa ai Tech Giants”.
Si è scelto qui di dar conto di alcune delle proposte di modifica delle politiche in materia di infrastrutture di ricerca. Si tratta di proposte che hanno elementi di differenziazione e convergenza. Segnalano che, rispetto solo a qualche hanno fa, c’è una maggiore e diffusa consapevolezza della malattia che affligge l’attuale ecosistema dei dati.
Tuttavia, tutte queste proposte lasciano immutato il quadro legislativo dei diritti di proprietà intellettuale e questo è un limite.
Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati.
D’altra parte, le ricette in campo per contrastare gli oligopoli sono note e ampiamente discusse. Concernono politiche della concorrenza e della regolazione dei mercati, politiche fiscali, responsabilità, diritto dei contratti, protezione dei dati personali e, appunto, la proprietà intellettuale.
L’Italia sconta un ritardo cronico in materia di Open Science. Il nostro Paese è da sempre all’inseguimento dei modelli più avanzati di scienza aperta.
Università, enti e istituti di ricerca pubblici mancano di strutture istituzionali di coordinamento all’interno (coordinamento tra dipartimenti) e all’esterno (coordinamento tra università, enti e istituti di ricerca). Poche istituzioni si sono dotate di politiche per la gestione dei dati della ricerca. Non ci sono numeri e statistiche circa lo stato di avanzamento della scienza aperta sul territorio nazionale. La formazione sulla materia è frammentata ed episodica. Il dibattito sulle infrastrutture per la ricerca e per la didattica è, come abbiamo visto, all’inizio, anche se non mancano infrastrutture già mature ed efficienti come quelle messe a disposizione dal consorzio GARR che necessiterebbero solo di essere ulteriormente sviluppate e promosse dai decisori pubblici [Nardelli 2020; Pievatolo 2020a; Barchiesi et al. 2021]. Il quadro giuridico è lacunoso, disarmonico e del tutto inefficace. La proposta Gallo (d.d.l. 1146) sull’accesso aperto all’informazione scientifica, che prevede tra l’altro l’istituzione di un diritto di ripubblicazione in Open Access in capo all’autore scientifico [AISA 2016; Caso 2020a; Caso, Dore 2021; Bellia, Moscon 2021], giace ferma al Senato da più di due anni. Persino il Piano Nazionale sulla Scienza Aperta preannunciato più di un anno fa nel Programma Nazionale della Ricerca 2021-2021 non riesce a vedere la luce (peraltro, l’adozione di politiche di accesso aperto è ora un obbligo per lo Stato italiano in attuazione dell’art. 10 dir. dir. 2019/1024/UE Open Data).
Soprattutto l’Italia è il Paese dove la proprietà intellettuale sui risultati della ricerca pubblica non è vista come frontalmente contraria alla logica dell’Open Science, ma come una leva fondamentale dell’innovazione e dove la valutazione bibliometrica di Stato, grazie anche all’onnipresente ANVUR, dilaga. La pandemia ha, inoltre, accelerato ed esteso la dipendenza delle università e delle istituzioni di ricerca dalle piattaforme commerciali [Fiormonte 2021; Monella 2021]. Al di là di poche eccezioni, la morsa del potere del potere delle piattaforme sulla didattica e sulla ricerca è sempre più stringente.
Quel che si riesce a fare per difendere l’autonomia e la libertà della ricerca scientifica lo si deve a poche istituzioni illuminate e a un manipolo di persone che ancora credono che l’art. 33 della Cost. non sia un simulacro, ma un principio fondante (ancora vigente).
Se c’è del buono nell’art. 10 della dir. 2019/1024/UE, cioè nel ponte gettato dal legislatore europeo tra politiche in materia di Open Data del settore pubblico e politiche in materia di Open Science, è che può essere un pretesto per riaprire un dibattito a livello di decisori pubblici – Governo, Parlamento – quanto mai urgente.
Anche dal controllo dei dati della ricerca dipende il futuro della democrazia. Un futuro che in questo periodo storico appare più cupo che mai.
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C. Angiolini et al. [2020], Remote Teaching During the Emergency and Beyond: Four Open Privacy and Data Protection Issues of “Platformised” Education, in Opinio Juris in Comparatione, 2020, 45
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27 dicembre 2021
L’articolo di Roberto Caso e Federico Binda, Il diritto umano alla scienza aperta, anticipato in forma di preprint nella serie (nr. 41) dei Trento LawTech Research Papers, del Gruppo LawTech dell’Università degli studi di Trento, è stato pubblicato nel volume a cura di Giulia Perrone e Marco Perduca per l’Associazione Luca Coscioni, Così san tuttз – Diritto alla Scienza, istruzioni per l’uso, Roma, Fandango Libri, 2021, 44-52
Pubblicato il nr. 47 dei LawTech Research Paper a firma di Roberto Caso e Giulia Dore. In European Intellectual Property Review
Qui di seguito l’abstract:
“The Green route to Open Access (OA), meaning the re-publication in OA venues of previously published works, can essentially be executed by contract and by copyright law. In theory, rights retention and contracts may allow authors to re-publish and communicate their works to the public, by means of license to publish agreements or specific addenda to copyright transfer agreements. But as a matter of fact, because authors lack bargaining power, they usually transfer all economic copyrights to publishers. Legislation, which overcomes the constraints of a contractual scheme where authors usually have less bargaining power, may deliver a (digital) second publication or communication right, which this paper discusses in the context of research publications. Outlining the historical and philosophical roots of the secondary publication right, the paper provocatively suggests that it has a “moral” nature that even makes it a shield for academic freedom as well as a major step forward in the overall development of OA”.
Una riflessione a margine di una recente pronuncia della Corte di giustizia UE in materia di diritto d’autore pubblicata su Il Foro italiano di settembre 2021 e disponibile in Open Access qui: https://zenodo.org/record/5094312#.YO1FChMza3I
15 luglio Luglio 2021 (pubblicato sull’Alto Adige 18 luglio 2021, ripubblicato su L’Adige 20 luglio 2021). Più di 120 accademici, esperti nella materia della proprietà intellettuale, dichiarano pubblicamente di essere a favore della proposta di India e Sudafrica di sospensione dell’accordo TRIPS al fine di contrastare la pandemia da COVID-19
Nell’ottobre del 2020 India e Sudafrica hanno chiesto davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio o World Trade Organization (WTO) la sospensione temporanea (waiver) dell’accordo Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS), cioè dell’accordo internazionale sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, marchi, copyright, segreti commerciali) su farmaci (compresi i vaccini) e dispositivi medici anti-COVID-19. La richiesta è sostenuta da più di 100 paesi, ma ha finora incontrato l’opposizione delle grandi nazioni industrializzate dove hanno sede le multinazionali della produzione farmaceutica (c.d. Big Pharma).
L’obiettivo della sospensione è la rapida condivisione su scala globale di conoscenze e tecnologie necessarie alla lotta contro la pandemia.
A maggio del 2021 sembrava che il fronte contrario alla sospensione potesse sfaldarsi. L’amministrazione Biden aveva ventilato la possibilità di appoggiare l’istanza di India e Sudafrica (si noti, per inciso, che l’oggetto della dichiarazione americana riguarda solo i vaccini, mentre la richiesta di India e Sudafrica concerne tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici).
Germania e Unione Europea (tramite la Commissione) hanno prima manifestato freddezza verso la posizione statunitense e poi ribadito apertamente la ferma contrarietà alla sospensione, mantenendo la propria linea di progressivo rafforzamento della proprietà intellettuale.
Mentre le varianti del virus dilagano e la campagna vaccinale globale dimostra tutte le sue falle dentro e fuori le nazioni più ricche, lo stucchevole balletto geopolitico dei grandi paesi appare sempre più come un inaccettabile, macabro spettacolo di un potere avido e miope.
Un imponente movimento di mobilitazione della società civile ha moltiplicato le iniziative volte a sostenere la compressione della proprietà intellettuale nonché il rafforzamento della scienza aperta e dei beni comuni della conoscenza. Si pensi, per fare solo pochi esempi, a “Declare Covid-19 Vaccine A Global Common Good Now“, “People’s Vaccine“, nonché all’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) “Diritto alle cure – No profit on pandemic“. Si tratta di un movimento basato su pulsioni emotive e poco razionali? La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale potrebbe mettere a rischio l’innovazione tecnologica del futuro? La risposta è: no. Ne è ultima dimostrazione una lettera aperta firmata da più di 120 accademici esperti della materia della proprietà intellettuale.
La lettera è stata scritta da Hyo Yoon Kang, Aisling McMahon, Graham Dutfield, Luke McDonagh e Siva Thambisetty e poi offerta alla firma di colleghi sparsi in tutto il mondo.
Il documento muove dalla consapevolezza che il problema dell’iniqua distribuzione della capacità di produrre e fornire le tecnologie di tutela della salute è innescato da molteplici fattori: le restrizioni derivanti dai diritti di proprietà intellettuale sono solo uno di essi. Ad esempio, incidono negativamente anche le restrizioni al commercio internazionale e i blocchi all’esportazione. Tuttavia, le barriere alla condivisione della conoscenza erette dai diritti di proprietà intellettuale giocano un ruolo fondamentale nell’attuale scenario.
Soluzioni basate sulla beneficienza dei paesi più ricchi o sulla disponibilità a condividere volontariamente le proprie conoscenze sono insufficienti.
Preso atto dell’indisponibilità da parte delle case farmaceutiche a condividere diritti di proprietà intellettuale, dati e know-how, la sospensione dell’accordo TRIPS diviene una misura urgente ed essenziale. Lo è ancor più alla luce della limitata efficacia di altri meccanismi come le licenze obbligatorie dei diritti di proprietà intellettuale.
Com’è stato rilevato da Joseph Stiglitz in un’intervista ad Avvenire di qualche giorno fa, la sospensione dell’accordo TRIPS doveva scattare già a ottobre 2020. Si sarebbe guadagnato tempo prezioso. Il tempo perso lo si è pagato con la vita di molte persone.
Abstract
Nella decisione VG Bild-Kunst la Corte di Giustizia dell’Unione Europea stabilisce che l’art. 3, par. 1, della dir. 2001/29/Ce sul diritto d’autore nella società dell’informazione che regola il diritto di comunicazione al pubblico deve essere interpretato nel senso che costituisce una comunicazione al pubblico ai sensi di tale disposizione il fatto di incorporare, mediante la tecnica del framing, in una pagina Internet di un terzo, opere protette dal diritto d’autore e messe a disposizione del pubblico in libero accesso con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore su un altro sito Internet, qualora tale incorporazione eluda misure di protezione contro il framing adottate o imposte da tale titolare. La decisione costituisce una pericolosa estensione del diritto di comunicazione al pubblico e della nozione di misure tecnologiche di protezione prevista dall’art. 6 della dir. 2001/29/Ue che rischia di avere un impatto negativo sul Web nonché sulla libertà di pensiero e informazione.
Pubblicato il saggio di Roberto Caso e Giulia Dore “Opere di disegno industriale tra creatività, neutralità e valore artistico: esercizi (e acrobazie) sulla quadratura del cerchio” nel volume curato da Barbara Pasa “Design e innovazione digitale. Dialogo interdisciplinare per un ripensamento delle tutele: esercizi (e acrobazie) sulla quadratura del cerchio”.
Il saggio è disponibile in open access nella serie di Trento LawTech Research Paper.
Il libro è stato presentato in un seminario organizzato dall’AIAP (Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva) il 16 giugno 2021: video disponibile qui.