I brevetti universitari in campo biomedico e farmacologico: un modello da ripensare?

Roberto Caso

6 dicembre 2022, pubblicato su Alto Adige, 9 dicembre 2022

Il 5 dicembre 2022 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo trentino si è discusso del libro-intervista “Brevettare la salute? Una medicina senza mercato” di Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, curato per Il Mulino dalla giornalista scientifica Caterina Visco. Il seminario è stato organizzato dal prof. Marco Pertile dell’Università di Trento e ha visto la partecipazione, oltre che di Silvio Garattini, di diversi accademici provenienti da differenti aree scientifiche.

La tesi di fondo di Silvio Garattini è netta: “l’introduzione del brevetto sui farmaci, in Italia [dal 1978] e nel mondo, non si è rivelata sinonimo di innovazione e progresso, e anzi ha portato a conseguenze negative” (p. 11).

Nonostante la brevettabilità dei farmaci in tre anni di pandemia di Covid-19 l’Italia non è stata capace di produrre un proprio vaccino, e nel mondo solo la parte più ricca della popolazione ha avuto accesso ai vaccini.

Scrive in proposito Garattini “[…] le aziende proprietarie dei vaccini brevettati si sono limitate a produrre le dosi commercializzabili, acquistabili e acquistate spesso con anticipo, sorde – e con loro molti Paesi ad alto reddito – alle richieste, provenienti da più voci, di rinunciare temporaneamente alla proprietà intellettuale per permettere ad altre industrie di produrre i miliardi di dosi necessarie per vaccinare il resto del mondo” (p. 123-124).

Come sostiene persuasivamente il presidente dell’Istituto Mario Negri, l’attuale pandemia è solo un esempio, sebbene macroscopico, di un problema generale: la commistione tra le ragioni del profitto e quelle della scienza nonché della tutela della salute e della vita.

Garattini immagina un sistema di prevenzione delle malattie e della salute che prescinda del tutto dalla proprietà intellettuale e dal profitto. Ma pragmaticamente immagina anche un percorso graduale per giungere al nuovo sistema. Occorrerebbe procedere per intanto a una riforma dell’attuale meccanismo di proprietà intellettuale sui farmaci (p. 124-125).

a) Si ritiene utile non brevettare i marchi dei farmaci per permettere la commercializzazione con il solo nome generico.

b) Si dovrebbe evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

c) Il brevetto dovrebbe essere garantito solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto ai prodotti già esistenti.

d) Questo dovrebbe essere dimostrato attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

e) Se il nuovo farmaco fosse migliore dovrebbe essere abolito il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

f) Infine, dovrebbe essere impossibile brevettare prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

La riforma della proprietà intellettuale sarebbe di per sé non sufficiente, occorrerebbe trovare “altri motori [non profit] per l’innovazione in campo medico e farmaceutico” (p. 125).

Non si tratta di dichiarazioni di principio, ma di quanto l’Istituto Mario Negri mette in pratica.

Infatti, sul sito web dell’istituto scopriamo che esiste una pagina intitolata “Perché non brevettiamo le nostre ricerche” <https://www.marionegri.it/non-brevettiamo>.

Garattini commenta la politica antibrevettuale dell’istituto che presiede a pag. 74 del libro. Si è scelto di non brevettare per esse liberi. Liberi di orientare la ricerca per motivazioni estranee al profitto, liberi di costruire e disseminare la ricerca (cioè di praticare la scienza aperta), liberi di dedicare tempo e risorse alla formazione (tempo e risorse che altrimenti andrebbero indirizzate a progettare e attuare strategie di brevettazione), liberi di costruire collaborazioni con altri scienziati visti come partner e non come antagonisti di una corsa brevettuale.

Il tema posto dalla pagina web dell’Istituto Mario Negri è quello del conflitto di interessi innescato dai brevetti universitari (o di enti e istituti pubblici finanziati con le tasse dei cittadini) in campo biomedico e farmacologico.

La politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri è una mosca bianca in Italia, dove il modello dei brevetti universitari, anche nel campo della cura della salute, tiene banco da almeno venti anni a questa parte sulla scia dell’imitazione del modello giuridico americano che ha nel Bayh-Dole Act del 1980 la sua legge-simbolo. Tale legge, tra l’altro, consente alle università americane di brevettare le ricerche frutto del finanziamento federale.

Gli italiani si sono affrettati a imitare (male) il modello statunitense e non hanno letto e discusso le critiche che gli stessi studiosi americani andavano maturando, soprattutto in ambito biomedico.

Il tema è oggi tornato di moda, in occasione della riforma del codice italiano della proprietà industriale, ma ancora una volta si discute dei dettagli (a chi spetta la titolarità del brevetto: al ricercato o all’università), perdendo di vista il quadro d’insieme.

Una drammatica dimostrazione degli effetti collaterali dei brevetti universitari in ambito biomedico è stata offerta dall’attuale pandemia. Durante questi tre anni sono state pubblicate sulla stampa quotidiana notizie relative a (presunti) brevetti di università italiane su tecnologie che si candidavano a diventare nuovi vaccini anti-SARS Cov-2. Al di là delle vanterie di prammatica – diffuse allo scopo di intercettare finanziatori –, sorge spontanea la domanda: ma davvero si può arrivare a un vaccino nazionale scatenando la corsa al brevetto tra le università italiane in grado di fare ricerca nel campo farmacologico? E di seguito un altro dubbio: una volta che un’università italiana ha brevettato il nuovo vaccino, essa è libera di cedere il diritto di esclusiva a un’impresa americana o indiana? Non sarebbe stato meglio coordinare gli sforzi di ricerca e collaborare? E non sarebbe meglio pensare a un vaccino libero e aperto per il mondo invece che un vaccino nazionale e protetto da proprietà intellettuale?

Forse sarebbe il caso di riprendere una seria e approfondita discussione sui brevetti universitari in ambito biomedico e farmacologico, magari tenendo presenti le parole con le quali si chiude la politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

Una medicina senza mercato e senza brevetti

Il libro-intervista di Silvio Garattini e Caterina Visco su diritto alla salute, farmaci e proprietà intellettuale

Roberto Caso, 2 febbraio 2022

Nelle 125 pagine appena uscite da Il Mulino Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche – IRCCS Mario Negri dialoga con la giornalista e divulgatrice scientifica Caterina Visco su proprietà intellettuale e farmaci.

Si tratta di pagine chiare e preziose. Una guida agile e lucida per accedere al grande dibattito internazionale sui problemi dell’attuale sistema di produzione dei farmaci.

Il sistema si basa sul mercato e sulla proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, segreti industriali, marchi, diritti d’autore). La tesi del grande farmacologo italiano è netta: mercato e proprietà intellettuale funzionano molto male. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano innovazione, si basano su opacità e conflitti di interesse. Le argomentazioni sono solide, corredate da numeri e fatti, nonché da alcuni essenziali riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo.

“Se le attuali regole di mercato, di proprietà intellettuale e di profitto, non garantiscono l’accesso alla salute a tutti i cittadini, forse vanno riformate, fatte evolvere in modo da mettere al centro l’interesse dei pazienti e della società” [p. 26]

La pandemia da COVID-19 ha riportato tragicamente sotto riflettori tutti i difetti dell’attuale politica di produzione dei farmaci. La globalizzazione ha edificato alla metà degli anni ’90 uno stringente apparato di protezione di diritti di proprietà intellettuale che copre dispositivi medici, farmaci e vaccini sull’assunto che più diritti di esclusiva avrebbero portato a più innovazione. Ma questo assunto nel tempo si è dimostrato infondato.

La proprietà intellettuale ha favorito l’emersione di monopoli e il mercato ha smesso di innovare: è possibile – denuncia Garattini – brevettare e mettere in commercio farmaci che non presentano un reale avanzamento in termini di cura (“valore terapeutico aggiunto”) [pp. 37, 48, 89-90]. Gli Stati hanno consegnato tutto il potere alle grandi industrie farmaceutiche, le quali producono solo quel che promette di generare profitto e non necessariamente ciò di cui la gente ha bisogno.

Buona parte dell’innovazione si deve alla ricerca di base di università, enti e istituti di ricerca finanziati con i fondi pubblici (i soldi dei cittadini), ma questa innovazione finisce per essere privatizzata dalle industrie farmaceutiche. Rastrellamento di brevetti universitari, cannibalizzazione di società nate in ambito universitario (spin-off e start-up) [p. 33], appropriazione dei risultati della ricerca (pubblicazioni e dati) messi in accesso aperto su Internet sono alcuni esempi di privatizzazione.

I cittadini comprano a prezzi monopolistici direttamente o indirettamente – in Italia tramite il Sistema Sanitario Nazionale per i prodotti a carico dello Stato inseriti in un’apposita lista – i farmaci che sono stati sviluppati anche grazie alle tasse da loro stessi versate. Insomma, pagano due volte la stessa cosa: la prima volta versando le tasse che vanno alla ricerca pubblica, la seconda volta acquistando il farmaco. Di più, il prezzo del farmaco non include solo la rendita monopolistica ma anche una quota che serve a coprire costi delle industrie totalmente slegati da ricerca e innovazione: lobbying presso decisori pubblici (legislatori, agenzie di controllo ecc.) nonché presso i medici, pubblicità del marchio, altre spese di commercializzazione [p. 76].

Le malattie rare e i c.d. farmaci orfani che non presentano prospettive di guadagno sono fuori dal radar delle industrie farmaceutiche [pp. 78-79]. I Paesi poveri che non possono permettersi i prezzi monopolistici sono espulsi dal mercato della salute. A quest’ultimo proposito, la storia ci ripropone la catastrofe morale che ha visto negare le cure per l’HIV/AIDS e l’epatite C ad ampie fasce della popolazione. La distribuzione dei vaccini contro il SARS Cov-2 è palesemente sbilanciata: mentre il ricco Occidente fornisce la terza e la quarta dose del siero, i Paesi a basso reddito non riescono a somministrare nemmeno la prima. L’ineguale distribuzione dei vaccini causa ingiustizia e moltiplica il rischio che si diffondano nuove pericolose varianti del virus. Una rapida ed eguale distribuzione dei vaccini su scala globale avrebbe evitato molti morti e consentito di uscire in breve tempo dalla pandemia.

Anche le agenzie di controllo dei farmaci non funzionano in modo ottimale, sebbene il quadro sia molto migliorato rispetto dagli anni ’50. Gli studi clinici (trials) su qualità, efficacia e sicurezza sono demandati alle stesse industrie farmaceutiche che producono i farmaci, con evidente conflitto di interessi [pp. 90-93]. I dati relativi alle sperimentazioni cliniche sono oggetto di un’esclusiva ad hoc (c.d. data exclusivity) che può aggiungersi al brevetto per invenzione. A questo proposito ha fatto scalpore il recente editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare adesso i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal.

La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).

1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.

2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.

4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).

Quale dovrebbe essere il risultato della riforma del sistema brevettuale e della sperimentazione di forme di ricerca e imprenditorialità non-profit? Si potrebbe indurre una sana competizione tra industrie ed enti non-profit favorendo lo sviluppo di farmaci migliori e a più basso costo.

Garattini mostra di saper contemperare visione e pragmatismo.

“Forse in un mondo come quello di oggi non è possibile trovare una soluzione unica, ma è necessario mettere a punto diverse misure; quello che non va trascurato nei discorsi pratici è l’obiettivo finale: garantire l’accesso alla salute a tutti i cittadini, come dichiarato dalla nostra Costituzione e nei principi dell’Organizzazione mondiale della sanità” [p. 113]. “[…] Nel complesso, sul breve e lungo periodo, quello di una riforma di questo sistema è comunque un processo che prevede piccole tappe; un percorso che può avvenire su strade che possono correre in parallelo o magari in direzioni opposte ed essere contradditorie, perché il progresso è fatto di errori: trials and errors, esperimenti ed errori” [p. 114].

Nel libro Garattini non solo suggerisce le linee guida per un cambiamento radicale delle politiche di produzione dei farmaci – politiche che evidentemente sono nelle mani dei decisori pubblici -, ma ricorda anche di aver messo in pratica i fondamentali principi etici che le ispirano (pp. 73-75). Infatti, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS ha una prospettiva della ricerca schiettamente anti-brevettuale. Sul sito web dell’istituto la ragione dell’ostilità verso i brevetti è spiegata in un’apposita pagina: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche?”. La risposta è: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

La scelta di rinunciare ai brevetti non riflette solo i celebri precedenti di Salk e Sabin, ma sembra trovare conferme anche in questi giorni con la promessa di un nuovo vaccino anti-COVID-19 libero dalla proprietà intellettuale: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi per la ricerca che fa capo al Texas Children’s Hospital e al Baylor College of Medicine. Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma per la produzione dei vaccini a mRNA. Il vaccino privo di brevetti costituisce un modello importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

Il libro si chiude con un sogno. Si può immagine un futuro in cui la salute possa prescindere da mercato e proprietà intellettuale. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di:

“[…] giungere a una società più matura e con più ideali, in cui la ricerca in ambito medico e di salute pubblica non dovrebbe essere stimolata dal profitto, ma piuttosto da riconoscimenti di gratitudine pubblica. Potrebbe essere l’epoca in cui la medicina non è più un ‘mercato’ , ma un’organizzazione al servizio di chi soffre. […] Diversi lettori potrebbero giudicare tutto questo un’ingenuità e un sogno. Tuttavia, sognare […] è pur sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà” [p. 125].

Le pagine del volume meritano un’attenta lettura, soprattutto da parte dei giovani, perché rappresentano la straordinaria testimonianza di chi, in 70 anni di esperienza nel campo della scienza dei farmaci, ha saputo coniugare amore per la conoscenza, capacità organizzativa e dedizione per la cura delle persone. Un messaggio in grado di ispirare chi non ha perso la speranza di poter cambiare in meglio il mondo: a cominciare dalla realizzazione dei fondamentali diritti alla salute e alla scienza.

Vaccini e beni comuni della conoscenza

Roberto Caso. 27 gennaio 2022, pubblicato su Alto Adige del 29 gennaio 2022 con il titolo “Rinunciare ai brevetti sui vaccini (per salvarci)” e su L’Adige del 30 gennaio 2022 con il titolo “Vaccini, trogliere brevetti e segreti“.

Nelle ultime settimane hanno avuto risonanza due notizie.

1) La messa a punto da parte del Texas Children’s Hospital e del Baylor College of Medicine di un vaccino anti COVID-19 privo di brevetti: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi.

2) Un editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare immediatamente i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.).

Cosa lega le due notizie? Una concezione della lotta contro la pandemia basata su beni comuni della conoscenza e scienza aperta.

Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma. Il vaccino privo di brevetti costituisce una promessa importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

I vaccini delle Big Pharma occidentali poggiano oltre che su una fittissima rete di brevetti e sul segreto commerciale anche su dati di sperimentazione clinica tenuti riservati in base a una legge speciale (c.d. esclusiva sui dati). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal. Ferma restando la fiducia nei vaccini come uno degli strumenti fondamentali per la prevenzione della malattia, occorre che tutti possano accedere ai dati dei trials e condividerli per effettuare le opportune verifiche e praticare una delle norme fondanti della scienza: lo scetticismo organizzato. La scienza, infatti, non può esistere senza la pubblicità e la riproducibilità dei dati.

Tra i maggiori ostacoli a vaccinare il mondo spiccano: la proprietà intellettuale e la diffidenza verso i vaccini. La proprietà intellettuale è una delle ragioni per le quali nel sud del mondo pochi hanno accesso ai vaccini. La ritrosia a vaccinarsi riguarda soprattutto i sieri incentrati sulle nuove tecnologie vaccinali come quelle a mRNA.

Viene da chiedersi, riavvolgendo il nastro della storia a due anni fa, se l’evoluzione della pandemia sarebbe stata diversa in un mondo disposto fin da subito a puntare tutto sulla cooperazione e sulla condivisione della conoscenza. Forse avremmo meno paure irrazionali, meno disuguaglianze e persino meno morti e malati.

Per non ripetere gli errori fin qui commessi occorre ripensare profondamente il nostro sistema di ricerca e il nostro sistema sanitario. Cambiare paradigmi consolidati è, come ha rilevato Maria Elena Bottazzi, moralmente necessario.

Da dove cominciare? Dal rapporto tra ricerca finanziata con fondi pubblici e proprietà intellettuale.

Un esempio viene dalla politica anti-brevettuale del prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS. Perché rinunciare ai brevetti? La risposta è sul sito web dell’istituto: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare. “Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.