Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica. 1940, 1980, 2020

8 marzo 2024

Roberto Caso, Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica. 1940, 1980, 2020, 8 marzo 2024, Il Diritto dell’Innovazione Tecnologica, Università Roma Tor Vergata, Fodazione Luigi Einaudi, Roma, 8 e 9 marzo 2024, versione 1.0, Zenodo

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Grazie al prof. Vincenzo Ricciuto per avermi invitato a dialogare con autorevoli colleghe e colleghi nell’ambito di questa jam session sul diritto dell’innovazione tecnologica.

Proverò ad occuparmi di diritto, politica ed economia nel rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica.

In questa mia brevissima (e non so quanto felliniana) “prova d’orchestra” offrirò uno sguardo da realista e comparatista al tema in discussione.

Farò riferimento a tre date simboliche di cui si capirà meglio il significato alla fine del mio intervento: 1940, 1980, 2020. Il nesso con il 1940 sarà svelato solo alla fine.

Credo che uno dei meriti della comparazione giuridica italiana sia stato di aver contribuito ad alimentare un approccio critico al diritto. La comparazione va realisticamente oltre l’approccio formalista al diritto positivo per indagare storicamente l’evoluzione dei sistemi giuridici. E va oltre il diritto positivo di un Paese mettendo a confronto sincronico i sistemi giuridici contemporanei ma anche dialogando con altri saperi: la linguistica, l’antropologia, l’economia, l’informatica, le scienze biomediche, l’arte, la letteratura ecc.

Vincenzo Ricciuto ha gentilmente offerto una lista di domande per dare inizio alla musica.

Ne ho scelte due:

  1. Quali dovrebbero essere i tratti caratteristici e specifici della metodologia della ricerca giuridica nel campo dell’innovazione tecnologica?
  2. Quali sono i pregi e le mancanze del modo di legiferare dell’UE in tema di nuove tecnologie?

Per comprendere pregi e mancanze del modo di legiferare dell’UE serve una buona metodologia d’indagine. Il mio suggerimento è che questa metodologia potrebbe ispirarsi non solo alla tradizione comparatistica ma anche ad un nuovo movimento di idee che passa sotto il nome “Law and Political Economy” e vede tra i suoi promotori Amy Kapczynski di Yale. La premessa dalla quale parte il movimento è che politica ed economia non possono essere separate e che entrambe sono strettamente intrecciate con il diritto. In un’epoca segnata dal cambiamento climatico, dalle guerre, nonché dalle diseguaglianze enormi e crescenti che mettono a rischio i sistemi democratici, occorre indagare i fenomeni come l’innovazione tecnologica tenendo congiuntamente presenti le tre dimensioni della politica, dell’economia e del diritto.

In questa prospettiva, l’approccio legislativo europeo al rapporto tra università, innovazione tecnologica e proprietà intellettuale è stato pesantemente influenzato da quello statunitense per via diretta o per via indiretta, attraverso trattati internazionali sui quali la voce degli USA ha contato molto.

Due sono gli aspetti notevoli della politica e della legislazione europea sui quali vorrei provare ad attirare l’attenzione.

  1. L’assunto che l’estensione della proprietà intellettuale (nuovi diritti di proprietà intellettuale e rafforzamento delle esclusive) condurrebbe a maggiore innovazione. Si tratta di una sorta di equazione: più proprietà intellettuale equivale a più innovazione tecnologica.
  2. Una visione strumentale dell’università finalizzata a garantire un flusso di diritti di proprietà intellettuale dalla ricerca di base (appannaggio delle istituzioni accademiche) alla ricerca applicata (appannaggio delle imprese, e in particolare delle start-up). Si tratta dell’idea alla base del Bayh-Dole Act statunitense del 1980. 1980, ecco la seconda data simbolica!

Gli europei si sono, talora, dimostrati più realisti del re. Cioè più estremisti degli americani. Per esempio, quando nel 1996 hanno introdotto il diritto sui generis sulle banche dati, ritenendo che ciò avrebbe dato un vantaggio competitivo alle imprese europee. Assunto poi dimostratosi disastrosamente infondato. Nell’ultima legislazione sui dati (Open Data Directive, Data Governance Act, Data Act) l’UE ha tentato di arginare il diritto sui generis. Resta il fatto, però, che si è scelto di tenere in vita un diritto di esclusiva il cui effetto incentivante è – a detta della stessa Commissione UE – indimostrato.

Una tesi, supportata da un’ampia letteratura scientifica, sostiene che l’estensione della proprietà intellettuale e la visione strumentale dell’università hanno nutrito il capitalismo dei monopoli intellettuali deprimendo l’innovazione, accrescendo la disuguaglianza e mettendo a rischio la democrazia. Il quadro è ulteriormente peggiorato quando alla proprietà intellettuale si è aggiunta la pseudo-proprietà intellettuale cioè quel complesso di forme anomale di esclusiva che vanno oltre i limiti tradizionali della proprietà intellettuale e si fondano soprattutto sul controllo contrattuale e di fatto (cioè assistito dalla forza bruta della tecnologia) di dati e informazioni.

In un modello stilizzato e ideale di innovazione tecnologica di un sistema capitalistico ci sono, a monte, il settore pubblico e le università che creano ricerca di base attenendosi ai principi della scienza aperta e, a valle, un mercato concorrenziale che produce ricerca applicata e si serve di una proprietà intellettuale limitata per commercializzare le nuove tecnologie. La concorrenzialità del mercato spinge verso il basso il prezzo della tecnologia, in modo da garantire attraverso contratti o mediante meccanismi redistributivi (ad es. sovvenzioni pubbliche) l’accesso all’innovazione.

Questa idealizzazione è distante anni luce dalla realtà attuale per diversi ordini di ragione.

  1. Le università non sono più entità nettamente distinte dalle aziende, perché sono organizzate secondo logiche aziendali, anche sul piano della valutazione. Si tratta di una questione giuridica (architettura istituzionale e norme sulla valutazione), ma anche di etica e mentalità.
  2. Le prassi accademiche e l’etica della scienza aperta sono state progressivamente erose dal crescente ricorso da parte dei ricercatori alla proprietà intellettuale. Tale uso estensivo dei diritti esclusiva è il frutto di incentivi non solo economici ma anche valutativi (si pensi, al fatto che sul piano della valutazione della ricerca accademica i brevetti sono, almeno in Italia, considerati equivalenti alle pubblicazioni scientifiche). L’uso della proprietà intellettuale innesca conflitti insanabili tra l’interesse a perseguire il progresso della conoscenza e l’interesse al profitto. Per rendersene conto è sufficiente leggere le ragioni che hanno spinto l’Istituto Mario Negri a rinunciare ai brevetti.
  3. I grandi monopoli intellettuali non devono necessariamente aspettare che il settore pubblico e le università decidano di trasferire la conoscenza, perché sono in grado di appropriarsene direttamente. Si pensi al crescente dominio delle Big Tech nel campo delle infrastrutture accademiche, dominio che si esprime non solo nell’appropriazione di dati della ricerca scientifica (ora finalizzata anche all’addestramento dell’intelligenza artificiale), ma anche di dati personali degli scienziati (è noto che nell’ambito della ricerca scientifica opera diffusamente il capitalismo della sorveglianza). Si pensi altresì alla cattura culturale tramite il ricco finanziamento di progetti i cui risultati sono orientati agli interessi dei finanziatori privati (i monopoli intellettuali).
  4. La geopolitica interferisce nelle dinamiche di chiusura e apertura dell’innovazione. In tempi di guerre e crescente tensione tra diverse potenze, la chiusura della conoscenza scientifica viene usata come strumento bellico.

Quanto finora rilevato potrebbe apparire in stridente contraddizione con il fatto che le politiche dell’UE in materia di rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica hanno negli ultimi venti anni riguardato anche la promozione dell’Open Science. È innegabile, infatti, che l’UE abbia sviluppato un’ampia, articolata e – per molti versi – meritoria politica di promozione della scienza aperta.

Tuttavia, la strategia di difesa e rafforzamento della proprietà intellettuale è rimasta sostanzialmente invariata. Come è rimasta invariata la concezione del rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica. Basti pensare a quanto accaduto durante la pandemia di Covid-19 a proposito della proprietà intellettuale sui vaccini. E siamo giunti alla terza data simbolica: il 2020.

L’UE è stata tra i più strenui oppositori della proposta di India, Sudafrica e molti altri Paesi di sospendere i TRIPS al fine di facilitare la produzione di dispositivi medici, farmaci e vaccini. Nello stesso tempo non è stata in grado di sviluppare, produrre e distribuire vaccini interamente europei. Si è dovuta, in gran parte, affidare a imprese non europee come Pfizer e Moderna.

In un ecosistema dell’innovazione tecnologica dominato dal capitalismo dei monopoli intellettuali, la promozione della scienza aperta rischia di essere, nel migliore dei casi, inefficace o limitatamente efficace e, nel peggiore, uno strumento per rafforzare gli stessi monopoli.

Per promuovere la scienza aperta intesa come scienza pubblica e democratica occorrerebbe procedere seriamente verso la demolizione dei monopoli intellettuali, a cominciare da una seria e organica riforma della proprietà intellettuale. Ma questo sembra un compito immane, non alla portata dell’UE, oltre che estraneo all’agenda politica di questa e, con tutta probabilità, della prossima Commissione UE.

La scienza aperta è parte integrante della liberà accademica e del dialogo cosmopolita che aiuta la cooperazione e la pace. Insomma, è un insieme di valori e ideali fuori dal nostro tempo. A meno che le nuove generazioni dentro e fuori dall’Europa non siano capaci di costruire un futuro migliore del presente che abbiamo consegnato loro.

Torniamo ora alla prima data simbolica: il 1940. Luigi Einaudi, al cui nome e alla cui memoria è intitolata la Fondazione sede di questo convegno, poteva scrivere nell’anno in cui l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale: “Si è più scettici intorno alla probabilità che la garanzia concessa agli scrittori ed inventori dello sfruttamento esclusivo temporaneo del libro e dell’invenzione conduca al desiderato scopo. Si teme l’incoraggiamento inutile delle cattive lettere in materia di proprietà letteraria e il monopolio dei grossi potenti accaparratori e fabbricanti di invenzioni in materia di proprietà industriale. […] I pericoli proprii del sistema odierno sono così gravi, particolarmente per la proprietà industriale, che una revisione dei principii della legislazione oggi invalsa in quasi tutti i paesi appare urgente”.

Bibliografia essenziale

Commissione UE [2020], Piano d’azione sulla proprietà intellettuale “Sfruttare al meglio il potenziale innovativo dell’UE — Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE”

L. Einaudi [1940], Rileggendo Ferrara – a proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed industriale, in Rivista di storia economica, V, n. 4, dicembre 1940, pp. 217-256

M. Florio [2021], La privatizzazione della conoscenza, Bari-Roma, Laterza, 2021

E.R. Gold [2021], The fall of the innovation empire and its possible rise through open science, Research Policy 50 (2021) 104226

Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Perché non brevettiamo le nostre ricerche

A. Kapczynski et al. [2019] New Law and Political Economy Project Launched, 29.04.2019

U. Pagano [2021], Il capitalismo dei monopoli intellettuali, Menabò Eticaeconomia, 14 dicembre 2021

M.C. Pievatolo [2021], I custodi del sapere, in Bollettino Telematico di Filosofia Politica, 31 maggio 2021

D. Traficonte [2021], Property and Power on the Endless Frontier (August 9, 2021). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3901914 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3901914

T. Wu [2021] La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2021

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Editoria scientifica, diritto d’autore e Open Access

Università di Bari, 28 febbraio 2024

R. Caso, Editoria scientifica, diritto d’autore e Open Access, Percorsi di filologia. Edizioni critiche digitali: strumenti e prospettive, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Biblioteca dell’Ateneo: Biblioteca Centrale del Polo Umanistico e di Comunità Sala Conferenze, 28 febbraio 2024

Letture:

R. Caso, Il diritto d’autore accademico e la mercificazione della scienza, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati, Milano, Ledizioni, 2021, 309-318

R. Caso, La valutazione autoritaria e la privatizzazione della conoscenza contro la scienza aperta, Trento LawTech Research Paper nr. 52, 2022, in AA.VV. “Perché la valutazione ha fallito. Per una nuova Università pubblica“, Morlacchi editore, 2023, 17-39

Presentazione del volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?”

Roma 21 febbraio Camera dei Deputati, ore 16.30

Prenotazione obbligatoria a info@pastexperience.it entro martedì 20/02 ore 12.00

Roberto Caso, presentazione.

V. anche R. Caso, A margine del volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo, Pacini Editore, 2023, 01.02.2024, versione 2.0 Zenodo

R. Caso, Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del), in AISA, Dizionario della scienza aperta, 10.02.2024, Zenodo

R. Caso, Il David, l’Uomo Vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, in Foro it., 2023, I, 2283

Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del)

Voce del Dizionario AISA della scienza aperta. 10.02.2024

R. Caso, Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del), in AISA, Dizionario della scienza aperta, 10.02.2024, Zenodo

Del patrimonio culturale dell’umanità fanno parte opere dell’ingegno i cui diritti economici d’autore sono scaduti e, in grande quantità, opere che non sono mai state protette dal diritto d’autore come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Queste ultime rappresentano una porzione notevole del patrimonio culturale, in quanto le leggi del diritto d’autore occupano una minuscola frazione della storia dell’uomo. Basti ricordare che la prima legge moderna del diritto d’autore è rappresentata dallo Statute of Anne inglese del 1710.

L’appartenenza di un’ampia parte del patrimonio culturale al pubblico dominio potrebbe far desumere che la riproduzione – in particolare, la riproduzione digitale – dei beni culturali sia libera per ragioni commerciali e non commerciali. Così non è. L’effettiva esistenza di un regime di pubblico dominio è minacciata da istanze di controllo esclusivo avanzate da chi ha la proprietà o la custodia del bene culturale materiale oggetto della riproduzione. Tali istanze sono generalmente mosse da due obiettivi: un controllo censorio e un controllo economico. Il primo obiettivo attiene a valutazioni sulla compatibilità dell’uso con la destinazione del bene, il secondo concerne prospettive di guadagno connesse all’uso.

Le istanze di controllo esclusivo si basano, in gran parte, su strumenti giuridici che costituiscono forme anomale di proprietà intellettuale definibili come surrogati della proprietà intellettuale o pseudo-proprietà intellettuale. Qui di seguito si elencano i principali strumenti di controllo esclusivo.

a) Divieti di riproduzione basati sulla proprietà del bene materiale.

b) Divieti di riproduzione basati su dichiarazioni unilaterali o contratti.

c) Divieti di riproduzione basati su discipline pubblicistiche attinenti al patrimonio culturale.

d) Divieti di riproduzione basati su diritti della personalità.

Il movimento dell’accesso aperto al patrimonio culturale – ad esempio, la rete OpenGLAM – sta profondendo energie nella promozione della libera riproduzione del patrimonio culturale. Molte istituzioni culturali nel mondo garantiscono la libera riproduzione per qualsiasi fine, commerciale e non commerciale, delle proprie collezioni fisiche e digitali. Tuttavia, l’apertura su Internet del patrimonio culturale è ancora molto lontana dal rappresentare il modello dominante.

Emblematico è il panorama Euro-italiano.

A livello dell’Unione Europea la disciplina giuridica emanata per la tutela del pubblico dominio è frammentaria, incompleta e solo parzialmente efficace. In particolare, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 sulla riproduzione delle opere delle arti visive di dominio pubblico è una disposizione che ha uno scopo limitato e presta il fianco a interpretazioni che ne restringono ulteriormente il campo di applicazione.

A livello italiano si sta facendo avanti l’idea che gli articoli dal 106 al 108 del Codice dei beni culturali (D.lgs. 2004/42) attribuiscano allo Stato il potere di controllo esclusivo delle riproduzioni. Si badi che tale controllo esclusivo non riguarderebbe solo le riproduzioni effettuate sul luogo dove è collocato fisicamente il bene materiale, ma si estenderebbe anche alle riproduzioni delle copie già effettuate sul luogo e comunicate al pubblico. In particolare, l’estensione riguarderebbe anche le copie digitali reperibili su Internet. In alcune interpretazioni giurisprudenziali il potere di controllo esclusivo derivante dal Codice dei beni culturali si assocerebbe a un preteso diritto all’immagine del bene culturale fondato sulla disciplina dei diritti della personalità rinvenibile nella Costituzione e nel Codice civile.

L’esempio del patrimonio culturale dimostra che il pubblico dominio è minacciato non solo dall’estensione della proprietà intellettuale ma anche dall’irrompere sulla scena giuridica della pseudo-proprietà intellettuale.

Le istanze di controllo esclusivo della riproduzione dei beni culturali incidono pesantemente sulla scienza aperta e sui beni comuni della conoscenza erodendo diritti e libertà fondamentali che attengono allo sviluppo nonché alla promozione della cultura e della ricerca.

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CopyrightX Trento 2024

The course CopyrightX – University of Trento (Italy) is based on materials developed by William Fisher for CopyrightX at Harvard Law School. “CopyrightX is a twelve-week networked course that has been offered annually since 2013 under the auspices of Harvard Law School and the Berkman Klein Center for Internet and Society

Il corso CopyrightX – University of Trento (Italy) è basato sui materiali sviluppati da William Fisher per CopyrightX alla Harvard Law School.

Harvard CopyrightX Course

Docenti: Roberto Caso, Giulia Dore, Laura Di Nicola

CopyrightX Trento reading

1. The Foundations of Copyright Law

2. Fairness and Personality Theories

3. The Subject Matter of Copyright

4. Welfare Theory

5. Authorship

6. The Mechanics of Copyright

7. The Rights to Reproduce and Modify

  • 17 U.S.C. 106
  • Art. 4, 13, 18, L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio
  • Art. 2, Directive 2001/29/EC of the European Parliament and of the Council of 22 May 2001 on the harmonisation of certain aspects of copyright and related rights in the information society
  • Steinberg v. Columbia Pictures Industries, Inc., 663 F.Supp. 706 (S.D.N.Y. 1987) [pdf] [MS Word] [h2o] [Illustrations]
  • Rentmeester v. Nike, Inc. (9th Cir. 2018) [pdf]
  • Mannion v. Coors Brewing Co., 377 F.Supp. 2d 444 (S.D.N.Y. 2005): paragraphs 81-94 [pdf] [MS Word] [h2o[Illustrations]
  • Cass. ord., 12 dicembre 2017, n. 29811

8. The Rights to Distribute, Perform, and Display

  • Kirtsaeng v. John Wiley & Sons (U.S. Supreme Court, March 19, 2013) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • American Broadcasting Companies v. Aereo, Inc., 134 S.Ct. 2498 (2014) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • EUCJ, UsedSoft GmbH v. Oracle International Corp.(2012) (C-128/11)
  • EUCJ, GS Media BV v. Sanoma Media Netherlands BV et al. (2016) (C‑160/15)
  • EUCJ,VCAST Limited v. RTI SpA (2017) (C‑265/16)
  • EUCJ, Nederlands Uitgeversverbond et al. v. Tom Kabinet Internet BV et al. (C‑263/18)

9. Fair use and Misuse

10. Cultural Theory

11. Supplements to Copyright: Secondary Liability and Para-copyright

12. Remedies

Verso una città smart e dispotica? No del Garante privacy ai progetti MARVEL e PROTECTOR del Comune di Trento

31.01.2024

R. Caso, Verso una città smart e dispotica? No del Garante privacy ai progetti MARVEL e PROTECTOR del Comune di Trento, vesione 1.0, 31.01.2024, Zenodo pubblicato su L’Adige del 03.02.2024 con il titolo “L’equilibrio tra privacy e sicurezza” (v. anche R. Caso, Sorveglianza artificiale, sicurezza urbana e privacy, 10 novembre 2023, pubblicato su L’Adige del 14 novembre 2023 con il titolo “Intelligenza artificiale. Dubbi e domande su Marvel e Protector“).

https://www.marvel-project.eu/trento/

Con un provvedimento di quaranta pagine dell’11 gennaio scorso il Garante per la protezione dei dati personali ha dichiarato, in base al Regolamento dell’Unione Europea 2016/679 (GDPR) e al Codice italiano in materia di dati personali (d.lgs. 2003/196), l’illiceità del trattamento dei dati personali effettuato dal Comune di Trento nell’ambito dei progetti di ricerca MARVEL e PROTECTOR. Si tratta di studi finanziati dall’Unione Europea e connessi al progetto “Trento smart city”. Tali ricerche prevedevano la raccolta di informazioni personali in luoghi pubblici attraverso telecamere di videosorveglianza e microfoni nonché da social network al fine di rilevare, tramite software di intelligenza artificiale, potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza anche con riferimento a luoghi di culto religioso. La finalità del trattamento dei dati personali era perciò l’addestramento dei software di intelligenza artificiale.

Il Garante privacy ha ordinato al Comune di Trento il pagamento di una sanzione di 50.000 Euro, riducibili alla metà se il pagamento avviene entro 30 giorni, ha vietato di trattare i dati personali già raccolti e ha imposto la cancellazione degli stessi. Infine, l’autorità garante ha disposto la pubblicazione del provvedimento sul proprio sito web.  La sanzione non è elevata perché il Garante ha riconosciuto al Comune di aver agito in buona fede. Ma i motivi di illeceità rilevati dal Garante sono gravi e molteplici: assenza di una base giuridica per la liceità del trattamento; insufficiente trasparenza del trattamento; mancanza delle misure necessarie a proteggere i dati e a ridurre i rischi.

A parere del Garante, la mancanza di una base giuridica è tanto più grave per il fatto di riguardare dati estremamente sensibili, relativi a crimini e a convinzioni religiose, oggetto, nell’ambito della normativa sulla privacy, di una disciplina speciale volta rafforzare la tutela delle persone. Sul profilo della trasparenza l’autorità ha evidenziato che le informative di primo (segnaletica e cartelloni stradali di avvertimento) e di secondo (il sito web del Comune) livello erano carenti, cioè non mettevano le persone che passavano nelle zone sorvegliate di conoscere i dettagli relativi al trattamento dei dati personali. Sul piano delle misure di prevenzione il Garante ha rilevato che le tecniche di anonimizzazione erano deficitarie e non era stata effettuata la valutazione d’impatto dei trattamenti previsti sulla protezione dei dati personali. Un altro profilo di gravità attiene al fatto che i dati erano destinati ad essere comunicati ai partner dei progetti internazionali (nell’ambito del progetto PROTECTOR i dati erano condivisi con la Polizia di Anversa e con il Ministero dell’Interno della Bulgaria).

Sul proprio sito web il Comune il 24 gennaio affermava che avrebbe valutato nei giorni successivi se presentare opposizione al provvedimento del Garante davanti al giudice ordinario. Il 30 gennaio il Sindaco del Comune di Trento ha rilasciato un’intervista al quotidiano La Repubblica. Secondo quanto riportato dal giornale “per il sindaco la questione non è solo trovare un equilibrio tra il rispetto della privacy e la garanzia di sicurezza, ma anche ‘realizzare degli strumenti per conto nostro o rimanere indietro e dover utilizzare quelli degli altri, che magari li progetteranno con minore cura’”.

Quest’ultima asserzione, se presa alla lettera, induce a porsi domande molto serie e impellenti.

  1. In un Paese democratico come l’Italia, la prevenzione e il contrasto al crimine commesso negli spazi pubblici sarà sempre più affidata a tecnologie digitali di controllo pervasivo come videocamere, microfoni, sensori, software di monitoraggio dei social network?
  2. Per smart city si deve intendere una città che affida la sua sicurezza alla sorveglianza di massa?
  3. Quale fondamento scientifico hanno i software di intelligenza artificiale che promettono di rilevare potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza?
  4. Se questo fondamento scientifico esiste, i cittadini hanno diritto a conoscere la logica alla base degli algoritmi di intelligenza artificiale?
  5. Si vuole dotare la polizia locale di maggiori poteri di intervento nel campo della sicurezza pubblica?
  6. L’Europa è destinata ad avvicinarsi sempre di più ai Paesi occidentali e non (si pensi ad alcuni Paesi asiatici) dove la sorveglianza tecnologica di massa è ormai è un dato acquisito e giudicato compatibile con il diritto e la giustizia?
  7. Davvero l’alternativa è tra produrre in proprio una tecnologia predittiva o acquistarla da altri?

Tali quesiti non possono essere risolti solo affidandosi a un’interpretazione più o meno sofisticata di regolamenti europei e leggi nazionali, ma attengono a scelte politiche che devono muoversi nel perimetro delle norme costituzionali poste a fondamento delle società europee democratiche. Il vagheggiato bilanciamento tra privacy (libertà) e sicurezza implica la responsabilità di dover scegliere qual è il piatto della bilancia che pesa di più.

A margine di un libro sulle immagini dei beni culturali

01.02.2024

R. Caso, A margine del volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo, Pacini Editore, 2023, 01.02.2024, versione 2.0 Zenodo

I. In meno di duecento pagine, immagini incluse, il volume curato da Daniele Manacorda (archeologo) e Mirco Modolo (archeologo e archivista) offre una sintesi efficace dell’acceso dibattito sul regime giuridico delle immagini dei beni culturali. Il libro raccoglie gli atti di un convegno promosso dalla Fondazione Aglaia e svoltosi a Firenze il 12 giugno 2022.

In buona sostanza, si tratta di un manifesto multidisciplinare per la liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale. Lo si evince già dalla copyright notice che recita testualmente: “le immagini pubblicate in copertina e alle pp. […] sono soggette ai vincoli d’utilizzo propri delle riproduzioni di beni culturali pubblici di cui agli art. 107-108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, argomentatamente contestati in queste pagine […]”.

Insomma, i curatori non si ammantano di finta neutralità – un vizio in cui spesso cadono i giuristi – ed esplicitano subito le proprie convinzioni. Tuttavia, il volume offre anche prospettive differenti e dà conto sia nel testo sia nell’apparato bibliografico di chi argomenta contro la liberalizzazione delle immagini, a cominciare dagli esponenti della Società italiana per l’ingegneria culturale.

II. La trattazione, preceduta dalla premessa di Carolina Megale e dai saluti di Paolo Baldi, è divisa in tre parti: un’introduzione con i due capitoli dei curatori dell’opera, una seconda parte nella quale si offrono punti divista di studiosi con diverse competenze nei campi del diritto (Giorgio Resta), dell’economia (Massimo Fantini), della tutela-valorizzazione (Laura Moro) e della fruizione dei beni culturali (Grazia Semeraro, Andrea Brugnoli) e una terza e ultima parte che racchiude alcune esperienze maturate nel settore pubblico e privato (Daniele Malfitana, Antonina Mazzaglia, Martina Bagnoli, Beppe Moiso, Tommaso Montonati, Claudia Baroncini, Stefano Monti, Riccardo Falcinelli, Iolanda Pensa, Fabio Viola).

Nell’addendum al primo capitolo introduttivo Daniele Manacorda riferisce delle novità sopraggiunte successivamente allo svolgimento del convegno e in particolare dell’emanazione del d.m. dell’11 aprile 2023, n. 161, linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali del Ministero della Cultura. A tal proposito Manacorda rileva “con questo decreto si torna drammaticamente indietro nel tempo: viene anche ristabilito addirittura il pagamento per la riproduzione di immagini su riviste scientifiche, colpendo duramente i giovani in un settore assai delicato della loro crescita professionale”.

Il volume va letto in connessione con altri contributi che sono stati pubblicati di recente sul tema. Mi riferisco in particolare al numero 3 del 2023 della rivista Aedon in cui i curatori del libro dialogano con altri esperti e in particolare con alcuni cultori del diritto amministrativo nonché a un’intervista di Eleonora Landini al direttore del Museo Egizio Christian Greco apparsa con il titolo “La cittadinanza cresce al museo” sulla versione online della rivista Il Mulino in cui si parla anche dell’Open Access alle immagini dei beni culturali (un tema approfondito dal capitolo di Beppe Moiso e Tommaso Montonati proprio con riferimento all’esperienza della prestigiosa istituzione culturale torinese).

III. Leggendo le pagine di “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” si comprende che il regime giuridico relativo alle immagini dei beni culturali è complesso e contradditorio. Complesso perché si pone all’incrocio di almeno quattro discipline: la proprietà intellettuale, i diritti della personalità, la tutela dei beni culturali, la disciplina dei dati aperti della pubblica amministrazione di derivazione europea. Complesso altresì perché attiene al bilanciamento diritti costituzionali che, senza una chiara visione di fondo, rischia di diventare un’inconcludente acrobazia ermeneutica. Complesso, infine, perché – come spiega il documentato e approfondito contributo di Mirco Modolo – l’attuale legislazione è frutto di una lunga e altalenante storia in cui le spinte alla liberalizzazione si sono dovute continuamente confrontare con controspinte tese ad alimentare le istanze proprietaristiche dello Stato. L’esito attuale con cui si confronta l’interprete è perciò un patchwork pasticciato, la cui prima vittima è la (mitica) coerenza dell’ordinamento giuridico.

Il regime giuridico è contradditorio perché non si comprendono appieno le ragioni che muovono contro la liberalizzazione delle immagini, legittimando un potere di controllo esclusivo dello Stato sulla riproduzione dei beni culturali. Si tratta di nutrire prospettive di guadagno da parte dello Stato che spera di poter metter in atto, anche non si sa come, una tutela globale del suo diritto? La commercializzazione delle immagini dei beni culturali dello Stato offrirebbe opportunità di rimpinguare le magre casse delle istituzioni culturali a dispetto di quanto anche di recente segnalato dalla Corte dei conti e rilevato in alcuni dei capitoli – in particolare quello a firma di Massimo Fantini – che toccano il tema? Oppure perché lo Stato si vuole riservare il potere di decidere chi e come può riprodurre i propri beni culturali vagliando la compatibilità dell’uso con la finalità (decoro) del bene? Non è solo lo spettro di un potere censorio, denunciato in particolare da Daniele Manacorda, a destare preoccupazione, ma anche lo sprezzo del ridicolo. Perché questo potere di valutazione apparterrebbe allo stesso Stato che ha varato di recente e per mano del Ministero del Turismo la campagna di promozione del Belpaese denominata “Open to Meraviglia” nell’ambito della quale la povera e (almeno in questo caso) davvero innocente Venere di Botticelli veniva trasfigurata in influencer, prima che questa figura professionale perdesse – almeno degli occhi dei diversamente giovani – un po’ del suo appeal per le note vicende attinenti a panettoni, bambole e (finta) beneficienza.

La contraddizione emerge con più evidenza proprio con riguardo ai casi portati davanti ai tribunali italiani dallo Stato riguardanti opere celeberrime come il David e l’Uomo Vitruviano ricostruiti in chiave sistemica e comparata dal lucido e incisivo contributo di Giorgio Resta. In questi casi, lo Stato ha agito contro la riproduzione non autorizzata per fini commerciali dei beni culturali da parte di imprese note e con forza commerciale (in parole brutali, ottimi pagatori). Ha agito per rivendicare l’incompatibilità con la finalità del bene culturale o per ottenere, a violazione avvenuta, un cospicuo risarcimento del danno da ottimi pagatori? Se le imprese con capienza economica interessate a utilizzare immagini di beni culturali dovessero mangiare la foglia e guardare ad altre e gratuite fonti come gli archivi delle decine di musei che all’estero praticano l’accesso aperto o, con riferimento alle immagini di beni culturali fuori dal controllo dello Stato italiano, a Wikipedia e Wikicommons al nostro Leviatano-azienda rimarrebbe con tutta probabilità solo la “clientela povera” che fa capo in gran parte all’editoria scientifica di nicchia (quella delle university press o delle case specializzate) e non ai grandi oligopoli come Elesevier, Springer-Nature e compagnia bella. Le prospettive di guadagno crollerebbero drammaticamente e in molti casi gli introiti si ridurrebbero a ciò che si incassa oggi tramite una partita di giro dei soldi pubblici, cioè dei contribuenti (ad es., nel caso in cui la casa editrice dell’Università pubblica X paga il museo statale Y per la riproduzione dell’immagine del bene Z). Se un problema relativo allo sfruttamento commerciale c’è, si colloca sul piano del ruolo che le Big Tech giocano nella gestione delle immagini, ma evidentemente non è un problema che può essere affrontato mediante derive proprietaristiche degli Stati.

IV. Prima di chiudere, occorre spendere qualche parola sui due maggiori problemi innescati dall’idea di un controllo esclusivo delle immagini dei beni culturali da parte dello Stato che si innesta sulla complessità e sulle contraddizioni sommariamente riassunte.

  1. La fine del pubblico dominio. Secondo la ricostruzione più corretta il pubblico dominio costituisce, in riferimento alle libertà fondamentali di informazione e di espressione del pensiero, la regola mentre i diritti di esclusiva costituiscono l’eccezione. Quando il legislatore disciplina i diritti di esclusiva pone necessariamente limiti di durata e di ampiezza all’esclusiva. Ad esempio, il diritto d’autore scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore e non copre le idee, copre solo la forma espressiva delle idee.  Tutta la proprietà intellettuale, intesa come macrocategoria che comprende diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali, corrisponde a questo principio. Si tratta di un pilastro delle società democratiche che trova una declinazione, illustrata nel contributo di Resta, in un altro principio: il numero chiuso dei diritti di proprietà intellettuale. Solo il legislatore può, con le tecniche di bilanciamento tipiche del diritto privato, porre nuovi diritti di esclusiva. Non possono farlo i giudici, non possono farlo gli stessi legislatori ricorrendo, mediante il diritto pubblico, a forme camuffate e anomale di proprietà intellettuale (o pseudo-proprietà intellettuale).
  2. Il diritto liquido e la confusione totale. Chi scrive, da buon realista, non nutre nessuna nostalgia per una vagheggiata (e mai esistita) epoca d’oro in cui il diritto corrispondeva a un robusto, stabile e giusto “sistema”. Se stabilità esiste, molto spesso è quella imposta dai più forti ed è quindi fonte di ingiustizia. Nel caso del regime giuridico italiano delle immagini dei beni culturali non c’è stabilità, ma non c’è nemmeno evoluzione verso i modelli più avanzati come quelli olandese e americano, c’è solo molta confusione. Mentre buona parte del più recente dibattito si è concentrata sul d.m. 2023/161 contenente le linee guida per gli importi di canoni e concessioni, che è probabilmente una sorta di walking dead, il volto più inquietante del controllo esclusivo dello Stato è costituito dalla giurisprudenza creativa (e, appunto, confusa) dei Tribunali italiani in materia di immagine del bene culturale. A parere di alcuni giudici, il controllo esclusivo dello Stato troverebbe fondamento nel Codice dei beni culturali e nelle norme del Codice civile che proteggono l’immagine delle persone. Insomma, un esempio paradigmatico di distruzione del pubblico dominio e violazione del principio del numero chiuso dei diritti della proprietà intellettuale, mediante l’introduzione giurisprudenziale nell’ordinamento di una pseudo-proprietà intellettuale mascherata da diritto della personalità.

Inutile dire che i temi qui solo approssimativamente accennati sono trattati con maestria e passione in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura e che ha un’unica pecca: quella di non essere pubblicato, per coerenza con il manifesto culturale che rappresenta, in Open Access (anche se i singoli testi che compongono il volume sono rilasciati con licenza CC-BY).

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Le immagini del patrimonio culturale. Un ‘eredità condivisa?

29.01.2024

Seminario presso l’Università Roma Tre, giovedì 1 febbraio 2024

Roma Tre Law Review – ‘Readings’. Intorno al volume: Daniele Manacorda – Mirco Midolo (a cura di), Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, Pacini, 2023, Roma

V. anche R. Caso, Lo strano caso del diritto all’immagine del bene culturale, 29.08.2023

Videosorveglianza e intelligenza artificiale. Il Garante privacy sanziona il Comune di Trento

26.01.2024

Qui di seguito il comunicato stampa che sintetizza i contenuti del provvedimento del Garante Privacy. V. anche R. Caso, Sorveglianza artificiale, sicurezza urbana e privacy, 10 novembre 2023, pubblicato su L’Adige del 14 novembre 2023 con il titolo “Intelligenza artificiale. Dubbi e domande su Marvel e Protector

Videosorveglianza, no all’intelligenza artificiale che viola la privacy
Il Garante sanziona il Comune di Trento per aver condotto due progetti di ricerca scientifica, utilizzando telecamere, microfoni e reti sociali, in violazione della normativa sulla protezione dati

No del Garante al trattamento dei dati personali nel Comune di Trento nell’ambito dei progetti di ricerca scientifica Marvel e Protector: diritti a rischio in assenza dei necessari presupposti di liceità. Il Comune dovrà pagare una sanzione di 50.000 euro e cancellare i dati trattati in violazione di legge.

I progetti, finanziati con fondi europei, hanno come obiettivo lo sviluppo di soluzioni tecnologiche volte a migliorare la sicurezza in ambito urbano, secondo il paradigma delle “città intelligenti” (smart cities).

In particolare, il progetto Marvel (“Multimodal Extreme Scale Data Analytics for Smart Cities Environments”) prevedeva l’acquisizione di filmati dalle telecamere di videosorveglianza già installate nel territorio comunale per finalità di sicurezza urbana, nonché dell’audio ottenuto da microfoni appositamente collocati sulla pubblica via. I dati, che ad avviso del Comune sarebbero stati immediatamente anonimizzati dopo la raccolta, venivano analizzati per rilevare in maniera automatizzata, mediante tecniche di intelligenza artificiale, eventi di rischio per la pubblica sicurezza. Il progetto Protector (“PROTECTing places of wORship”) prevedeva invece, oltre all’acquisizione dei filmati di videosorveglianza (senza segnale audio), la raccolta e l’analisi di messaggi e commenti d’odio pubblicati sui social, rilevando eventuali emozioni negative ed elaborando informazioni d’interesse per le Forze dell’ordine, allo scopo di identificare rischi e minacce per la sicurezza dei luoghi di culto.

Dopo un’approfondita istruttoria, il Garante ha rilevato molteplici violazioni della normativa privacy.

Il Comune di Trento, che non annovera la ricerca scientifica tra le proprie finalità istituzionali, non ha comprovato la sussistenza di alcun quadro giuridico idoneo a giustificare i trattamenti dei dati personali – relativi anche a reati e a categorie particolari – e la conseguente ingerenza nei diritti e nelle libertà fondamentali delle persone. Tenuto conto che i dati venivano condivisi anche con soggetti terzi, tra cui i partner di progetto, i trattamenti effettuati sono stati quindi ritenuti illeciti.

Si sono rivelate inoltre insufficienti le tecniche di anonimizzazione impiegate per ridurre i possibili rischi di reidentificazione per gli interessati.

Criticità sono emerse anche sotto il profilo della trasparenza. Il Comune non aveva infatti compiutamente descritto i trattamenti nelle informative di primo e di secondo livello, come la possibilità che anche le conversazioni potessero essere registrate dai microfoni installati sulla pubblica via.

Inoltre, nonostante i due progetti comportassero l’impiego di nuove tecnologie e la sorveglianza sistematica di zone accessibili al pubblico, il Comune non ha comprovato di aver effettuato una valutazione d’impatto prima di iniziare il trattamento.

Pur riconoscendo alcuni fattori attenuanti, il Garante ha stigmatizzato le massive e invasive modalità di trattamento poste in essere, che hanno comportato significativi rischi per i diritti e le libertà degli interessati, anche di rango costituzionale.

Poiché simili forme di sorveglianza negli spazi pubblici possono modificare il comportamento delle persone e condizionare anche l’esercizio delle libertà democratiche, l’Autorità si è comunque dichiarata come sempre aperta al dialogo, sia con il Comune di Trento sia con ogni altra amministrazione, per dare supporto ad ogni eventuale futura iniziativa di uso dell’AI da realizzare in conformità con le norme sulla privacy.

Roma, 25 gennaio 2024

Il mio nome è ANVUR: agente (dipendente) con licenza di valutare (numericamente)

Versione 2.0 – 07.02.2024. Versione 1.0 – 21.01.2024 (Zenodo: https://doi.org/10.5281/zenodo.10546644)

I. L’ Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) può essere considerata un’autorità indipendente dal potere esecutivo? I suoi membri esprimono libere idee scientifiche sulla valutazione od opinioni di funzionari amministrativi gerarchicamente sottoposti al potere esecutivo?

Alla prima domanda si deve rispondere in senso negativo: ANVUR non è un’autorità indipendente dal potere esecutivo, è piuttosto un’agenzia dipendente dal potere del Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR).

Al secondo quesito occorre rispondere che i funzionari dell’agenzia, quando esprimono idee sulla valutazione e sulla stessa agenzia, sono condizionati sia dalla natura dell’organizzazione sia dalle sue regole interne.

II. Per rispondere alla prima domanda occorre prendere le mosse dal dato normativo.

La legge istitutiva dell’ANVUR parla di “autonomia organizzativa, amministrativa e contabile” (art. 2, c. 138-141 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 convertito con modificazioni nella l. 4 novembre 2006, n. 286, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria).

Ma se si leggono attentamente e per intero le norme rilevanti, la legge parla anche di nomina dei componenti dei componenti dell’organo direttivo (comma 140 del citato art. 2).

“Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono disciplinati:
a) la struttura e il funzionamento dell’ANVUR, secondo principi di imparzialità, professionalità, trasparenza e pubblicità degli atti, e di autonomia organizzativa, amministrativa e contabile, anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato;
b) la nomina e la durata in carica dei componenti dell’organo direttivo, scelti anche tra qualificati esperti stranieri, e le relative indennità”.

Nel regolamento attuativo si è interpretata nel modo peggiore la delega di potere normativo. Vedi l’art. 8 c. 3 del d.p.r. 76 del 2010:

“3. I componenti del Consiglio direttivo sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro, sentite le competenti Commissioni parlamentari. Nel Consiglio direttivo devono comunque essere presenti almeno due uomini e almeno due donne. Ai fini della proposta, il Ministro sceglie i componenti in un elenco composto da non meno di dieci e non più di quindici persone definito da un comitato di selezione appositamente costituito con decreto del Ministro. […]”.

Dunque, i componenti del Consiglio direttivo sono riconducibili al Ministro dell’Università. Peraltro, come evidenziato da Maria Chiara Pievatolo nel recente volume “Perché la valutazione ha fallito. Per una nuova Università pubblica“, i membri del comitato di selezione “sono designati rispettivamente dal ministro, dal segretario generale dell’OCSE e dai presidenti dell’Accademia dei Lincei, dell’European Research Council e dal Consiglio nazionale degli studenti. Fra i designatori, l’unico ente elettivo è il Consiglio nazionale degli studenti […]”.

Senza entrare nel dibattito sulla natura di autorità ed agenzie indipendenti, si può sottolineare che questa struttura di governo, tra le tante possibili, è quella che assicura la dipendenza dell’agenzia dal Ministro.

Paradossalmente a sottolinearlo era, in tempi non sospetti, una fautrice della valutazione amministrativa di Stato. Così scriveva Fiorella Kostoris in un articolo intitolato “L’esperienza del CIVR e le prospettive dell’ANVUR nella valutazione della ricerca in Italia” pubblicato nella rivista Statistica & Società del 2008:

l’indipendenza dell’ANVUR è minata dalla mancanza di terzietà rispetto all’Esecutivo e dagli eccessi di controlli da parte dei vari stakeholders: tutti i 7 membri del suo Consiglio Direttivo sono, infatti, scelti direttamente o indirettamente dal Titolare del MUR e a lui o al suo Dicastero riportano, segnalano, propongono”.

Fiorella Kostoris è stata successivamente nominata componente del Consiglio direttivo dell’ANVUR, carica che ha ricoperto dal 2011 al 2015.

III. Ritorniamo ora al secondo quesito di partenza: i membri dell’ANVUR esprimono libere idee scientifiche sulla valutazione od opinioni di funzionari amministrativi gerarchicamente sottoposti al potere esecutivo? Anche per questa domanda si può fare riferimento al dato normativo.

La lettura dell’art. 5 del codice etico dell’ANVUR affronta il punto:

Nelle materie di competenza dell’Agenzia, i membri dell’Agenzia partecipano a convegni, seminari e simili, nonché pubblicano articoli su quotidiani o periodici solo quando la partecipazione o la pubblicazione avvengano nell’interesse dell’Agenzia. Tali attività sono comunicate al Presidente. Nelle materie estranee alla competenza dell’Agenzia, la partecipazione a convegni, seminari e simili, nonché la pubblicazione di articoli su quotidiani o periodici da parte dei membri dell’Agenzia sono libere. E’ altresì non vincolata qualunque pubblicazione a carattere scientifico, nel rispetto della libertà di manifestazione del pensiero da parte di ogni persona“.

La norma è ambigua. Ma non c’è dubbio sul fatto che essa radichi in capo all’agenzia un potere di controllo e di indirizzo sulle attività di pubblica manifestazione del pensiero dei propri membri nelle materie di competenza (cioè nella valutazione). Allora, quando il codice etico fa riferimento alla pubblicazione di carattere scientifico, cosa intende? Se un membro dell’ANVUR volesse pubblicare un articolo scientifico critico nei confronti dell’operato dell’agenzia si sentirebbe libero di farlo? Egli farebbe kantiamentente uso pubblico della ragione?

È lecito dubitare che la risposta alle ultime domande possa essere positiva. L’agenzia non gode né di indipendenza né di reale autonomia dal potere esecutivo. Tant’è che tutte le sue più importanti funzioni sono dirette normativamente dal Ministero. L’agenzia può muoversi solo nel perimetro normativo disegnato dal Ministero.

Beninteso, qui non si sta sostenendo che i membri dell’agenzia non possano esprimersi liberamente sulla valutazione. Anzi, si vuole sostenere esattamente il contrario. Tuttavia, la natura dell’agenzia e le sue regole condizionano la libertà di espressione del pensiero dei sui membri.

Fin qui tutto banale. Ma, venuto meno il timore nei confronti di un potere gerarchicamente sovraordinato, cosa spinge un ex membro a rimanere fedele al credo valutativo?

La ragione di questa inossidabile fedeltà è facile da spiegare. Il tentativo – destinato inesorabilmente a fallire – è quello di giustificare scientificamente un potere valutativo che è invece ontologicamente gerarchico, cioè si fonda, nella metafora usata da Maria Chiara Pievatolo, sulla spada e non sulla bilancia.

Perché si ha bisogno di questa giustificazione? Perché si vorrebbe far passare l’idea che, nell’ambito dell’università e della ricerca, decidere sulla base di indicatori garantisce oggettività e merito. Mentre si tratta soltanto di sostituire il governo democratico del diritto con la governance opaca e autoritaria dei numeri.

IV. Per concludere, le norme giuridiche ci dicono esplicitamente che l’ANVUR è un’agenzia dipendente dal Ministero con licenza di valutare numericamente al fine di decidere sulla distribuzione delle risorse e sullo sviluppo delle carriere di professori e ricercatori italiani.

Il problema dunque si sposta sull’autonomia delle università e sulla libertà scientifico-accademica garantite dell’art. 33 della Costituzione.

In che misura le università possono ancora dirsi autonome in un sistema di valutazione amministrativa di Stato come quello attualmente vigente? E i professori universitari possono dirsi ancora liberi?

La compressione dell’autonomia e della libertà non dipende solo dalle norme emanate dal MUR e dall’ANVUR, ma attiene agli anticorpi presenti nelle università.

Pochi esempi bastano a rendere l’idea. Se la disciplina della valutazione a livello di singolo ateneo si appiattisce su quella ministeriale e dell’agenzia, l’autonomia perde un altro pezzo. Se a livello di singola università si emanano regolamenti che sanzionano atti di protesta contro la valutazione amministrativa di Stato o pretendono di disciplinare il modo in cui i componenti della comunità accademica possono o non possono esprimersi sui mezzi di comunicazione di massa, la libertà di professori ne esce menomata, per non dire: azzerata.

Oggi si discute a livello europeo di riforma della valutazione della ricerca, ma questa discussione non può prescindere dalla disciplina giuridica del modo in cui si valuta, dalla distribuzione del potere valutativo e dalla natura di quest’ultimo. Insomma, non basta immaginare operazioni cosmetiche volte ad ammorbidire il peso degli indicatori. Una seria discussione deve prendere dalle mosse da due fondamentali domande.

1) Chi ha il potere di valutare?

2) Tale potere deriva da una gerarchia amministrativa o dalla ragione della scienza?

La Francia investe sulla revisione paritaria aperta (Open Peer Review)

21.01.2024

Il portale statale della ricerca francese HAL (science ouverte) è ora integrato con la piattaforma no profit Peer Community in (PCI).

Chi deposita un preprint in HAL potrà chiederne la revisione paritaria aperta in PCI.

Maggiori informazioni qui: A. Magron, Submitting a preprint to Peer Community In via HAL: a new feature of the deposit form, Center for Direct Scientific Communication, 09.01.2024.

La notizia segue di qualche giorno un’altra notizia importante che riguarda la politica della scienza aperta in Francia:

  1. L’Università Sorbonne ha cancellato l’abbonamento alla banca dati Web of Science di Clarivate
  2. Il CNRS ha dismesso l’abbonamento alla banca dati Scopus di Elsevier.

Tale notizie segnano un ulteriore distacco tra le politiche francesi e quelle italiane in materia di scienza aperta. In proposito si vedano le considerazioni dell’AISA sulle ultime determinazioni dell’ANVUR in materia: qui e qui.

The Scale and the Sword: Science, State and Research Evaluation

05.01.2024

Maria Chiara Pievatolo, The Scale and the Sword: Science, State and Research Evaluation, Bollettino Telematico di Filosofia Politica, 03.01.2024

“[…] discussing how research is evaluated is a waste of time if we do not address the question of who is entitled to do it”.

Introductory note from the author.

“If this were only a domestic issue, the fact that some of the international literature on research assessment in Italy appears misleading to many Italian-speaking researchers would not be so important. Now, however, the ANVUR, the Italian agency for research assessment appointed by the government, is participating in the research assessment reform process initiated by the COARA coalition, in a way that is not only inconsistent, but may put the entire COARA project at serious risk of failure. Therefore, we decided to present a translation of a 2017 article dealing with Andrea Bonaccorsi’s closed-access book La valutazione possibile. Teoria e pratica nel mondo della ricerca. Bologna. Il Mulino, 2015. Andrea Bonaccorsi is a former member of ANVUR’s board of directors, who has attempted to provide one of the broadest theoretical justifications for the Italian research assessment system, which is pervasive, centralized, mostly bibliometric, and under government control. A highly abbreviated English version of Bonaccorsi’s argument, which is also behind a paywall, can be found here.

Anonymous peer review has been, and continues to be, an important part of the process leading to the publication of an article in scholarly journals that are still built on the “affordances” of print technology. Two or more scholars from suitable disciplinary fields, chosen at the discretion of the journal’s editorial board and protected by anonymity, are asked to give an ex ante opinion on the acceptability of a text for publication. What the reviewers reject never sees the light of day, nor do their opinions and any discussions with the authors.

The Italian version of this essay, on the other hand, was born – together with a twin written by the jurist Roberto Caso – as an experiment in open peer review, which at the time was – and still is – rather unusual in Italy, where the state assessment of research requires anonymous peer review in order for a work of scholarship to be considered scientific. Open and post-publication peer review, however, would make it possible to moderate centralized and hierarchical evaluation systems by making the entire discussion public, recognizing the merits of the reviewers, and exposing any conflicts of interest.

To deal with Andrea Bonaccorsi’s justification of state evaluation of research, we will pretend – for the sake of discussion – that the system he theorizes produces a faithful snapshot of the way the scientific community evaluates itself. But even so, it can be shown that his justification leads to a research evaluation system that is practically despotic and theoretically retrograde. The system is despotic because it transforms an informal and historical ethos into a fixed rule of administrative law, which ceases to be an object of choice for the scientific community. And it is retrograde because, by establishing this rule, it blocks evolution in a still image, like the Sleeping Beauty’s castle, which cannot be overcome without further bureaucratic intervention.

In addition to the main argument, there are two ancillary parts: the first deals with the question, proposed by Bonaccorsi, of the empirical verifiability of some of the criticisms made against him; the second is an examination of a sample of quotations used by him to support some important passages. Finally, the conclusion briefly outlines the ideal and critical perspective of open science that inspires this paper.
In this spirit, whenever possible, we have cited legally accessible versions and reviews of the paywalled sources that Bonaccorsi prefers, so that the reader can check our argument without having to overcome further economic barriers.

The Italian version of this essay was written in 2017, but we resisted the temptation to add a lot of updated references, even if they would have helped to support our points. We trust that our critique of the centralized and bureaucratic system of research evaluation can survive not only by relying on the literature of six years ago, but also on that of a hundred years ago.

A final warning: the term “state evaluation” is modeled on the term “state capitalism“. Just as state capitalism is an economic system in which the state is involved in business and profit-making economic activity, state science and state evaluation of research suggest that the state, directly or indirectly through its agencies, is involved in defining what is good science and what is not. In Italian we use “di stato” after a noun both in a neutral sense (“esame di stato”: state examination) and in a polemical sense, as in “delitto di stato” (a crime committed by the state itself). Translating “valutazione di stato” as “centralized evaluation” would lose the nuances of the Italian expression, while the adjective “governmental” might suggest a Foucauldian undertone that would betray the spirit of this essay, whose main point is closer to Kant: discussing how research is evaluated is a waste of time if we do not address the question of who is entitled to do it.

We will be inviting some reviewers, but even if you are not invited, your comments are welcome: to take part, read the instructions in the grey box at the bottom of this page. The article to comment is available here (https://commentbfp.sp.unipi.it/maria-chiara-pievatolo-the-scale-and-the-sword-statal-science-and-research-evaluation/)”.

La Francia contro la bibliometria dei monopoli

3 gennaio 2024

Due notizie recenti molto rilevanti per la scienza aperta in Francia:

  1. L’Università Sorbonne ha cancellato l’abbonamento alla banca dati Web of Science di Clarivate
  2. Il CNRS ha dismesso l’abbonamento alla banca dati Scopus di Elsevier.

L’abbandono di banche dati proprietarie costituisce la premessa per l’uso di strumenti aperti e gratuiti in coerenza con i principi della scienza aperta.

V. anche P. Galimberti, La Sorbona adotta OpenAlex e interrompe l’abbonamento a Web Of Science, Roars, 28.12.2023 e AISA: WOS e Scopus, addio da Sorbonne e CNRS, 04.01.2024