Open Science, proprietà intellettuale e capitalismo delle piattaforme

Università di Bologna, 17 febbraio 2022

Roberto Caso, Open Science, proprietà intellettuale e capitalismo delle piattaforme, nell’ambito del seminario “A chi appartengono scienza e patrimonio culturale? La proprietà intellettuale al bivio tra mercato e accesso della collettività

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Una medicina senza mercato e senza brevetti

Il libro-intervista di Silvio Garattini e Caterina Visco su diritto alla salute, farmaci e proprietà intellettuale

Roberto Caso, 2 febbraio 2022

Nelle 125 pagine appena uscite da Il Mulino Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche – IRCCS Mario Negri dialoga con la giornalista e divulgatrice scientifica Caterina Visco su proprietà intellettuale e farmaci.

Si tratta di pagine chiare e preziose. Una guida agile e lucida per accedere al grande dibattito internazionale sui problemi dell’attuale sistema di produzione dei farmaci.

Il sistema si basa sul mercato e sulla proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, segreti industriali, marchi, diritti d’autore). La tesi del grande farmacologo italiano è netta: mercato e proprietà intellettuale funzionano molto male. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano innovazione, si basano su opacità e conflitti di interesse. Le argomentazioni sono solide, corredate da numeri e fatti, nonché da alcuni essenziali riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo.

“Se le attuali regole di mercato, di proprietà intellettuale e di profitto, non garantiscono l’accesso alla salute a tutti i cittadini, forse vanno riformate, fatte evolvere in modo da mettere al centro l’interesse dei pazienti e della società” [p. 26]

La pandemia da COVID-19 ha riportato tragicamente sotto riflettori tutti i difetti dell’attuale politica di produzione dei farmaci. La globalizzazione ha edificato alla metà degli anni ’90 uno stringente apparato di protezione di diritti di proprietà intellettuale che copre dispositivi medici, farmaci e vaccini sull’assunto che più diritti di esclusiva avrebbero portato a più innovazione. Ma questo assunto nel tempo si è dimostrato infondato.

La proprietà intellettuale ha favorito l’emersione di monopoli e il mercato ha smesso di innovare: è possibile – denuncia Garattini – brevettare e mettere in commercio farmaci che non presentano un reale avanzamento in termini di cura (“valore terapeutico aggiunto”) [pp. 37, 48, 89-90]. Gli Stati hanno consegnato tutto il potere alle grandi industrie farmaceutiche, le quali producono solo quel che promette di generare profitto e non necessariamente ciò di cui la gente ha bisogno.

Buona parte dell’innovazione si deve alla ricerca di base di università, enti e istituti di ricerca finanziati con i fondi pubblici (i soldi dei cittadini), ma questa innovazione finisce per essere privatizzata dalle industrie farmaceutiche. Rastrellamento di brevetti universitari, cannibalizzazione di società nate in ambito universitario (spin-off e start-up) [p. 33], appropriazione dei risultati della ricerca (pubblicazioni e dati) messi in accesso aperto su Internet sono alcuni esempi di privatizzazione.

I cittadini comprano a prezzi monopolistici direttamente o indirettamente – in Italia tramite il Sistema Sanitario Nazionale per i prodotti a carico dello Stato inseriti in un’apposita lista – i farmaci che sono stati sviluppati anche grazie alle tasse da loro stessi versate. Insomma, pagano due volte la stessa cosa: la prima volta versando le tasse che vanno alla ricerca pubblica, la seconda volta acquistando il farmaco. Di più, il prezzo del farmaco non include solo la rendita monopolistica ma anche una quota che serve a coprire costi delle industrie totalmente slegati da ricerca e innovazione: lobbying presso decisori pubblici (legislatori, agenzie di controllo ecc.) nonché presso i medici, pubblicità del marchio, altre spese di commercializzazione [p. 76].

Le malattie rare e i c.d. farmaci orfani che non presentano prospettive di guadagno sono fuori dal radar delle industrie farmaceutiche [pp. 78-79]. I Paesi poveri che non possono permettersi i prezzi monopolistici sono espulsi dal mercato della salute. A quest’ultimo proposito, la storia ci ripropone la catastrofe morale che ha visto negare le cure per l’HIV/AIDS e l’epatite C ad ampie fasce della popolazione. La distribuzione dei vaccini contro il SARS Cov-2 è palesemente sbilanciata: mentre il ricco Occidente fornisce la terza e la quarta dose del siero, i Paesi a basso reddito non riescono a somministrare nemmeno la prima. L’ineguale distribuzione dei vaccini causa ingiustizia e moltiplica il rischio che si diffondano nuove pericolose varianti del virus. Una rapida ed eguale distribuzione dei vaccini su scala globale avrebbe evitato molti morti e consentito di uscire in breve tempo dalla pandemia.

Anche le agenzie di controllo dei farmaci non funzionano in modo ottimale, sebbene il quadro sia molto migliorato rispetto dagli anni ’50. Gli studi clinici (trials) su qualità, efficacia e sicurezza sono demandati alle stesse industrie farmaceutiche che producono i farmaci, con evidente conflitto di interessi [pp. 90-93]. I dati relativi alle sperimentazioni cliniche sono oggetto di un’esclusiva ad hoc (c.d. data exclusivity) che può aggiungersi al brevetto per invenzione. A questo proposito ha fatto scalpore il recente editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare adesso i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal.

La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).

1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.

2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.

4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).

Quale dovrebbe essere il risultato della riforma del sistema brevettuale e della sperimentazione di forme di ricerca e imprenditorialità non-profit? Si potrebbe indurre una sana competizione tra industrie ed enti non-profit favorendo lo sviluppo di farmaci migliori e a più basso costo.

Garattini mostra di saper contemperare visione e pragmatismo.

“Forse in un mondo come quello di oggi non è possibile trovare una soluzione unica, ma è necessario mettere a punto diverse misure; quello che non va trascurato nei discorsi pratici è l’obiettivo finale: garantire l’accesso alla salute a tutti i cittadini, come dichiarato dalla nostra Costituzione e nei principi dell’Organizzazione mondiale della sanità” [p. 113]. “[…] Nel complesso, sul breve e lungo periodo, quello di una riforma di questo sistema è comunque un processo che prevede piccole tappe; un percorso che può avvenire su strade che possono correre in parallelo o magari in direzioni opposte ed essere contradditorie, perché il progresso è fatto di errori: trials and errors, esperimenti ed errori” [p. 114].

Nel libro Garattini non solo suggerisce le linee guida per un cambiamento radicale delle politiche di produzione dei farmaci – politiche che evidentemente sono nelle mani dei decisori pubblici -, ma ricorda anche di aver messo in pratica i fondamentali principi etici che le ispirano (pp. 73-75). Infatti, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS ha una prospettiva della ricerca schiettamente anti-brevettuale. Sul sito web dell’istituto la ragione dell’ostilità verso i brevetti è spiegata in un’apposita pagina: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche?”. La risposta è: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

La scelta di rinunciare ai brevetti non riflette solo i celebri precedenti di Salk e Sabin, ma sembra trovare conferme anche in questi giorni con la promessa di un nuovo vaccino anti-COVID-19 libero dalla proprietà intellettuale: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi per la ricerca che fa capo al Texas Children’s Hospital e al Baylor College of Medicine. Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma per la produzione dei vaccini a mRNA. Il vaccino privo di brevetti costituisce un modello importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

Il libro si chiude con un sogno. Si può immagine un futuro in cui la salute possa prescindere da mercato e proprietà intellettuale. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di:

“[…] giungere a una società più matura e con più ideali, in cui la ricerca in ambito medico e di salute pubblica non dovrebbe essere stimolata dal profitto, ma piuttosto da riconoscimenti di gratitudine pubblica. Potrebbe essere l’epoca in cui la medicina non è più un ‘mercato’ , ma un’organizzazione al servizio di chi soffre. […] Diversi lettori potrebbero giudicare tutto questo un’ingenuità e un sogno. Tuttavia, sognare […] è pur sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà” [p. 125].

Le pagine del volume meritano un’attenta lettura, soprattutto da parte dei giovani, perché rappresentano la straordinaria testimonianza di chi, in 70 anni di esperienza nel campo della scienza dei farmaci, ha saputo coniugare amore per la conoscenza, capacità organizzativa e dedizione per la cura delle persone. Un messaggio in grado di ispirare chi non ha perso la speranza di poter cambiare in meglio il mondo: a cominciare dalla realizzazione dei fondamentali diritti alla salute e alla scienza.

Vaccini e beni comuni della conoscenza

Roberto Caso. 27 gennaio 2022, pubblicato su Alto Adige del 29 gennaio 2022 con il titolo “Rinunciare ai brevetti sui vaccini (per salvarci)” e su L’Adige del 30 gennaio 2022 con il titolo “Vaccini, trogliere brevetti e segreti“.

Nelle ultime settimane hanno avuto risonanza due notizie.

1) La messa a punto da parte del Texas Children’s Hospital e del Baylor College of Medicine di un vaccino anti COVID-19 privo di brevetti: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi.

2) Un editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare immediatamente i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.).

Cosa lega le due notizie? Una concezione della lotta contro la pandemia basata su beni comuni della conoscenza e scienza aperta.

Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma. Il vaccino privo di brevetti costituisce una promessa importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

I vaccini delle Big Pharma occidentali poggiano oltre che su una fittissima rete di brevetti e sul segreto commerciale anche su dati di sperimentazione clinica tenuti riservati in base a una legge speciale (c.d. esclusiva sui dati). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal. Ferma restando la fiducia nei vaccini come uno degli strumenti fondamentali per la prevenzione della malattia, occorre che tutti possano accedere ai dati dei trials e condividerli per effettuare le opportune verifiche e praticare una delle norme fondanti della scienza: lo scetticismo organizzato. La scienza, infatti, non può esistere senza la pubblicità e la riproducibilità dei dati.

Tra i maggiori ostacoli a vaccinare il mondo spiccano: la proprietà intellettuale e la diffidenza verso i vaccini. La proprietà intellettuale è una delle ragioni per le quali nel sud del mondo pochi hanno accesso ai vaccini. La ritrosia a vaccinarsi riguarda soprattutto i sieri incentrati sulle nuove tecnologie vaccinali come quelle a mRNA.

Viene da chiedersi, riavvolgendo il nastro della storia a due anni fa, se l’evoluzione della pandemia sarebbe stata diversa in un mondo disposto fin da subito a puntare tutto sulla cooperazione e sulla condivisione della conoscenza. Forse avremmo meno paure irrazionali, meno disuguaglianze e persino meno morti e malati.

Per non ripetere gli errori fin qui commessi occorre ripensare profondamente il nostro sistema di ricerca e il nostro sistema sanitario. Cambiare paradigmi consolidati è, come ha rilevato Maria Elena Bottazzi, moralmente necessario.

Da dove cominciare? Dal rapporto tra ricerca finanziata con fondi pubblici e proprietà intellettuale.

Un esempio viene dalla politica anti-brevettuale del prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS. Perché rinunciare ai brevetti? La risposta è sul sito web dell’istituto: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare. “Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

Open Data, ricerca scientifica e privatizzazione della conoscenza

Jamie Zawinski (program); Church of emacs (screenshot), CC Atribution, https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9b/The.Matrix.glmatrix.2.png/640px-The.Matrix.glmatrix.2.png

Working paper versione 5.0, 8 aprile 2022; versione 3.0 25 gennaio 2022 (Trento LawTech Research Paper nr. 48; https://zenodo.org/record/5902766); 24 gennaio 2022 (versione 2.0) https://zenodo.org/record/5898995; 23 gennaio 2022 (versione 1.0): https://zenodo.org/record/5894534; in corso di pubblicazione in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 4/5 2022, 815-836

Roberto Caso

Abstract

Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti l’interazione, nel diritto dell’Unione Europea, tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.

La riflessione è innescata da una novità nella politica normativa dell’Unione Europea di apertura dei dati nel settore pubblico. La direttiva 2019/1024/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (“Open Data directive” o “direttiva dati aperti”) determina un cambio di rotta sui dati della ricerca (art. 10, considerando 27 e 28), prima esclusi dalla materia e oggi invece oggetto di disciplina.

La tesi di questo scritto è la seguente. Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti per testi, dati e codici occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati. Da questa politica normativa dipende il futuro dell’autonomia e della libertà delle istituzioni di ricerca (prime fra tutte: le università) e in, ultima analisi, della democrazia.

Sommario

  1. Introduzione
  2. Scienza aperta o proprietà intellettuale?
  3. Controllo dei dati e degli algoritmi
  4. Controllo delle infrastrutture
  5. Conclusioni

1. Introduzione

Questo scritto mira a delineare alcuni problemi riguardanti, nel diritto dell’Unione Europea, l’interazione tra politiche di apertura dei dati nel settore pubblico (Stato, pubblica amministrazione) e politiche sulla scienza aperta. Per un verso, essi riguardano la proprietà intellettuale: diritti di esclusiva riconducibili a brevetti per invenzione, diritti d’autore, segni distintivi, segreti commerciali. Per l’altro, concernono il controllo esclusivo dei dati non ascrivibile alla proprietà intellettuale come disegnata dalle normative internazionali e nazionali (proprietà intellettuale in senso stretto), bensì a un controllo esclusivo derivante da forme anomale di proprietà intellettuale (“pseudo-proprietà intellettuale”) e da un potere di fatto connesso alla tecnologia. Un controllo esclusivo che può sommarsi alla (o essere indipendente dalla) protezione legislativa della proprietà intellettuale.

La riflessione è innescata da una novità nella politica normativa dell’Unione Europea di apertura dei dati nel settore pubblico. La direttiva 2019/1024/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (“Open Data directive” o “direttiva dati aperti”) determina un cambio di rotta sui dati della ricerca (art. 10, considerando 27 e 28), prima esclusi dalla materia e oggi invece oggetto di disciplina [Richter 2018; Guarda 2021, 186 ss].

L’art. 10 (dati della ricerca) della dir. 2019/1024/UE così recita:

“1.   Gli Stati membri promuovono la disponibilità dei dati della ricerca adottando politiche nazionali e azioni pertinenti per rendere (‘politiche di accesso aperto’) secondo il principio dell’apertura per impostazione predefinita e compatibili con i principi FAIR. In tale contesto, occorre prendere in considerazione le preoccupazioni in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali, in conformità del principio «il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario». Tali politiche di accesso aperto sono indirizzate alle organizzazioni che svolgono attività di ricerca e alle organizzazioni che finanziano la ricerca.

2.   Fatto salvo l’articolo 1, paragrafo 2, lettera c), i dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente ai capi III e IV, nella misura in cui tali ricerche sono finanziate con fondi pubblici e ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca li hanno già resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica. In tale contesto viene tenuto conto degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti”.

Dall’articolo emergono cinque principi sui dati della ricerca in riferimento all’obbligo rivolto agli Stati membri di adottare politiche nazionali e azioni pertinenti (“politiche di accesso aperto”):

1) apertura per impostazione predefinita;

2) compatibilità con le caratteristiche Findability, Accessibility, Interoperability, Reusability (FAIR), in italiano: reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità;

3) riutilizzabilità a fini commerciali e non commerciali nella misura in cui le ricerche sono finanziate con fondi pubblici e i dati sono stati resi pubblici attraverso una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica;

4) i primi tre principi devono prendere in considerazione le “preoccupazioni” (“concerns” nella versione inglese) in materia di diritti di proprietà intellettuale, protezione dei dati personali e riservatezza, sicurezza e legittimi interessi commerciali e devono “tener conto” degli interessi commerciali legittimi, delle attività di trasferimento di conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale preesistenti.

5) il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario (“as open as possible, as closed as necessary”).

Il principio n. 4) è, ai fini di questo scritto, quello più problematico. La sintesi tra le opposte esigenze di apertura e chiusura dovrebbe trovare espressione nel principio n. 5). Insomma, l’art. 10 getta un ponte tra politiche dei dati aperti nel settore pubblico e politiche in materia di Open Science: principi FAIR e principio “il più aperto possibile, chiuso il tanto necessario” sono, infatti, importati dalla politica europea in materia di scienza aperta.

La dir. 2019/1024/UE ha reso necessario un riordino normativo (rifusione) delle norme adottate nel 2003 (dir. 2003/98/CE, relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico) e nel 2013 (dir. 2013/37/UE, che modifica la dir. 2003/98/CE), non più adeguate al nuovo scenario tecnologico caratterizzato, tra l’altro, da Big Data, intelligenza artificiale e Internet delle cose [Pascuzzi 2020, 274]. Tale normativa incrocia ora la strategia europea in materia di dati, composta a sua volta di molteplici iniziative normative, e la nuova politica normativa in campo digitale.

Lo slogan che sintetizza sul sito web di riferimento la strategia europea in materia dei dati è formulato nel modo seguente:

“La strategia europea in materia di dati mira a fare dell’UE un leader in una società basata sui dati. La creazione di un mercato unico dei dati consentirà a questi ultimi di circolare liberamente all’interno dell’UE e in tutti i settori a vantaggio delle imprese, dei ricercatori e delle amministrazioni pubbliche.

Le singole persone, le imprese e le organizzazioni dovrebbero essere messe in grado di adottare decisioni migliori sulla base delle informazioni derivate da dati non personali”.

Tralascio considerazioni sugli obiettivi politici e sulla retorica di questo testo. Mi limito a osservare che il termine strategia è largamente abusato nei documenti politici e amministrativi, ma in questo caso il suo uso metaforico ha un nesso con l’etimologia militare. L’Unione Europea è nella tenaglia delle due superpotenze digitali (USA e Cina), e prova – almeno a parole – a difendere la propria autonomia facendo geopolitica dei dati.

L’Italia ha dato attuazione alla dir. 2019/1024/UE con il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 200 che ha modificato, per quanto attiene ai dati della ricerca, il decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, aggiungendo l’art. 9-bis (dati della ricerca) che statuisce quanto segue:

“1. I dati della ricerca sono riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali conformemente a quanto previsto dal presente decreto legislativo, nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali, ove applicabile, degli interessi commerciali, nonché della normativa in materia di diritti di proprietà intellettuale ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, e dei diritti di proprietà industriale ai sensi del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.

2. La previsione del comma 1 si applica nelle ipotesi in cui i dati siano il risultato di attività di ricerca finanziata con fondi pubblici e quando gli stessi dati siano resi pubblici, anche attraverso l’archiviazione in una banca dati pubblica, da ricercatori, organizzazioni che svolgono attività di ricerca e organizzazioni che finanziano la ricerca, tramite una banca dati gestita a livello istituzionale o su base tematica.

3. I dati della ricerca di cui ai commi precedenti rispettano i requisiti di reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità”.

Il d.lgs 2006/36 fornisce all’art. 2 le definizioni di “dati della ricerca” e “dato pubblico”.

“Dati della ricerca: documenti informatici, diversi dalle pubblicazioni scientifiche, raccolti o prodotti nel corso della ricerca scientifica e utilizzati come elementi di prova nel processo di ricerca, o comunemente accettati nella comunità di ricerca come necessari per convalidare le conclusioni e i risultati della ricerca”.

“Dato pubblico: il dato conoscibile da chiunque”.

Il considerando 27 della dir. 2019/1024/UE offre alcuni esempi di dati della ricerca:

“[…] Sono dati della ricerca per esempio le statistiche, i risultati di esperimenti, le misurazioni, le osservazioni risultanti dall’indagine sul campo, i risultati di indagini, le immagini e le registrazioni di interviste, oltre a metadati, specifiche e altri oggetti digitali. I dati della ricerca sono diversi dagli articoli scientifici, in cui si riportano e si commentano le conclusioni della ricerca scientifica sottostante […]”.

L’art. 9-bis del d.lgs 2006/36 tace sulle “politiche nazionali di accesso aperto”, implicitamente rinviando ad altre sedi l’attuazione dell’obbligo della loro adozione (v. conclusioni di questo scritto a margine del Piano Nazionale per la Scienza Aperta preannunciato dal Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027), e mette in esponente il “principio di riutilizzabilità”.

A prima vista l’affermazione del “principio di riutilizzabilità” dei dati pubblici (non segreti, non riservati) della ricerca finanziata con fondi pubblici (derivanti dallo Stato) appare superflua. Secondo l’impostazione giuridica tradizionale i dati non possono essere oggetto né di proprietà (intesa in senso proprio, cioè come proprietà su beni tangibili, cose), né di proprietà intellettuale. Tuttavia, l’impostazione tradizionale appare contraddetta dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi decenni che vede un’inarrestabile espansione della proprietà intellettuale sempre più vicina a comprendere i mattoni di base della conoscenza (dati e informazioni), la comparsa di forme anomale di esclusiva giuridica (“pseudo-proprietà intellettuale”) e l’emersione del controllo esclusivo di fatto basato sul potere tecnologico. Tra le forme anomale di esclusiva vanno annoverati, ad esempio, la titolarità dei dati da parte della PA, l’interazione tra contratto e misure tecnologiche di protezione dei dati e, in campo biomedico, l’esclusiva sui dati dei trials clinici. Il linguaggio della prassi spesso si riferisce a queste forme di controllo con l’espressione “proprietà dei dati” o “titolarità dei dati”.

Chi è promotore della scienza aperta dovrebbe accogliere con favore l’affermazione sul piano legislativo del principio di riutilizzabilità dei dati della ricerca. Tuttavia, per come formulato e disciplinato, a cominciare dalla clausola di salvezza “nel rispetto …” della proprietà intellettuale, il principio rischia di essere inutile. Ciò per diversi ordini di ragione.

a) La scienza aperta è inconciliabile con la continua espansione della proprietà intellettuale [David 2003]. L’Unione Europea e l’Italia non mostrano alcuna intenzione di voler invertire la tendenza espansiva della proprietà intellettuale. Anzi, i documenti programmatici – come il Piano di Azione della Commissione UE sulla proprietà intellettuale e la strategia sulla proprietà industriale del Ministero dello Sviluppo Economico – e le ultime normative – ad es. la direttiva 2019/790/UE -,  provano esattamente il contrario: l’obiettivo è quello di rafforzare la proprietà intellettuale. Nemmeno la pandemia ha indotto un ripensamento [Caso 2020c]. Basterà qui ricordare che l’Unione Europea figura tra i più strenui oppositori della richiesta di sospensione dei TRIPS (gli accordi sulla proprietà intellettuale nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), una misura temporanea che non mette in discussione il quadro di fondo [Caso 2021].

b) Il principio di riutilizzabilità non prevale sulla proprietà intellettuale, ma – come si è detto – la fa salva (considerando 54-56, art. 1.2 c) e d), art. 1.5) dir. 2019/1024/UE; art. 9-bis d.lgs. 2006/36).

c) Decenni di politiche di finanziamento e valutazione della ricerca hanno esaltato l’idea di premiare la c.d. “eccellenza”, instaurando un regime valutativo meritocratico, concentrando i fondi su pochi e scatenando una competizione tra ricercatori e tra istituzioni della ricerca per l’accaparramento delle poche risorse a disposizione. Le tradizionali norme informali della scienza aperta volte al comunismo della conoscenza sono state investite da pressioni che spingono a tenere i dati riservati. Di più, i ricercatori finanziati con fondi pubblici sono incentivati tramite regole valutative e prospettive di guadagno a reclamare diritti di proprietà intellettuale funzionali al trasferimento della tecnologia alle imprese, vero e proprio mantra delle politiche dell’innovazione.

d) L’apertura dei dati della ricerca deve tener conto di chi ha la disponibilità delle infrastrutture e del potere computazionale per poterli elaborare. Al momento molte di queste infrastrutture fisiche e logiche sono in mano a oligopoli commerciali che si trovano per la maggior parte fuori dell’Unione Europea. Il tema è ben presente alle istituzioni unionali, ma le misure finora messe in campo non sembrano sufficienti a risolvere il problema. L’apertura dei dati, senza infrastrutture al servizio di tutti, rischia di alimentare il potere degli oligopoli, il quale produce, tra l’altro, disuguaglianza.

Si determina perciò un circolo vizioso. Le regole valutative incidono sulle norme sociali della scienza diminuendo la propensione a condividere i dati della ricerca. D’altra parte, in modo contradditorio, le politiche in materia Open Science spingono a condividere e ad aprire su Internet i dati mediante licenze che ne determinano – anche giuridicamente – la totale perdita di controllo [Pievatolo 2020b]. I dati aperti finiscono sotto il controllo delle piattaforme Internet che li difendono con la proprietà intellettuale e la pseudo-proprietà intellettuale nonché li elaborano con algoritmi a loro volta difesi da proprietà intellettuale (segreto commerciale). Parte di questo potere di controllo e computazione dei dati è usata per alimentare la valutazione bibliometrica, la quale genera il potere oligopolistico delle piattaforme che operano in campo scientifico. Questo ecosistema della proprietà intellettuale e della privatizzazione dei dati della ricerca mette a rischio le norme sociali della scienza volte al comunismo della conoscenza e in ultima analisi la democrazia [Pagano 2021].

Fig. 1: Il circolo vizioso di privatizzazione dei dati della ricerca

Il resto di questo scritto è organizzato nel modo seguente. Nel paragrafo 2 si mette in evidenza la contraddizione delle politiche europee: da un lato, promozione della scienza aperta, dall’altro, rafforzamento della proprietà intellettuale. Nel paragrafo 3 si descrivono le dinamiche di privatizzazione dei dati aperti basate sul controllo esclusivo di dati e algoritmi. Nel paragrafo 4 si passano in rassegna alcune proposte di cambiamento nella politica delle infrastrutture di ricerca col fine di restituire a settore pubblico, università, enti e istituti di ricerca il controllo dei dati. Nel paragrafo 5 si traggono alcune conclusioni anche in relazione al panorama italiano.

2. Scienza aperta o proprietà intellettuale?

Negli ultimi dieci anni l’Unione Europea ha sviluppato un’ampia politica di promozione dell’Open Science che riguarda:

– i propri programmi quadro di ricerca (FP7, H2020, Horizon Europe);

– le infrastrutture della ricerca (OpenAIRE, Zenodo, European Open Science Cloud o EOSC, Open Research Europe);

– la valutazione della ricerca (nuove metriche e un sistema di premi, incentivi e riconoscimenti ai ricercatori che praticano la scienza aperta);

– l’etica della ricerca (integrità e riproducibilità dei risultati);

– la formazione e le competenze in materia di scienza aperta;

– il coinvolgimento dei cittadini nella scienza (citizen science).

Tuttavia, sul piano dell’armonizzazione del diritto degli Stati membri l’intervento è stato limitato. I due interventi più direttamente pertinenti alla materia sono:

1) la raccomandazione 2018/790/UE del 25 aprile 2018 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione (revisione della precedente versione del 2012: racc. 2012/417/UE);

2) l’art. 10 della dir. 2019/1024/UE di cui qui si discute e che eleva a principio legislativo l’obbligo di adottare politiche nazionali di accesso aperto.

D’altra parte, sul fronte della proprietà intellettuale si marcia, come si è accennato nel primo paragrafo introduttivo, verso il continuo rafforzamento delle esclusive. Non è solo una questione di ampliamento delle esclusive esistenti, ma anche di proliferazione di nuovi diritti di esclusiva esclusiva [Resta 2011]: ad es., nuovi diritti connessi al diritto d’autore [Sganga 2021]. Questa legislazione alluvionale non presenta nemmeno definizioni condivise dei concetti fondamentali: dato e informazione. E deve coordinarsi con normative come quelle sugli Open Data e protezioni dei dati personali che definiscono in modo settoriale alcune nozioni (innanzitutto, la nozione di dato) [Guarda 2021, 11 ss.]. Insomma, il quadro legislativo si fa via via più intricato e confuso. Emerge plasticamente una contraddizione finora insoluta: da una parte, si promuove l’Open Science, dall’altra, si rafforza la proprietà intellettuale [Caso 2020a, 39].

Ad esempio, il diritto d’autore in linea di principio non conferisce un’esclusiva sui dati ma sulle opere dell’ingegno originali. Dell’opera dell’ingegno non sono vietati tutti gli usi. Si possono riprodurre le idee, i fatti, le informazioni e, appunto, i dati che compongono l’opera dell’ingegno. Non si può invece riprodurre la forma espressiva dell’opera. Il principio è conosciuto con la formula della distinzione tra idea (non protetta) ed espressione (protetta) o dicotomia idea/espressione. Ebbene, per quanto di difficile e controversa interpretazione (le definizioni giurisprudenziali di opera, idea, fatto e dato sono “liquide”), il principio ha costituito per molto tempo un baluardo della libertà di informazione ed espressione nonché della libertà di ricerca. Tuttavia, una serie di modifiche normative ne hanno ridotto la portata.

In particolare, la direttiva 1996/9/CE (direttiva banche dati) ha istituito un diritto sui generis (un diritto distinto dal diritto d’autore) in capo al costitutore di una banca dati.

La direttiva definisce la nozione di “banca dati”.

Per “Banca di dati” si intende una raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili grazie a mezzi elettronici o in altro modo.

L’art. 7.1 e 7.4 della dir. 1996/9/CE così statuiscono:

“1. Gli Stati membri attribuiscono al costitutore di una banca di dati il diritto di vietare operazioni di estrazione e/o reimpiego della totalità o di una parte sostanziale del contenuto della stessa, valutata in termini qualitativi o quantitativi, qualora il conseguimento, la verifica e la presentazione di tale contenuto attestino un investimento rilevante sotto il profilo qualitativo o quantitativo. […]

4. Il diritto di cui al paragrafo 1 si applica a prescindere dalla tutelabilità della banca di dati a norma del diritto d’autore o di altri diritti. Esso si applica inoltre a prescindere dalla tutelabilità del contenuto della banca di dati in questione a norma del diritto d’autore o di altri diritti. La tutela delle banche di dati in base al diritto di cui al paragrafo 1 lascia impregiudicati i diritti esistenti sul loro contenuto”.

La direttiva si proponeva di incentivare la creazione di un florido mercato delle banche dati attraverso l’istituzione di un nuovo diritto di esclusiva (un diritto connesso al diritto d’autore). L’equazione alla base dell’intervento normativo era: più proprietà intellettuale = più innovazione. Insomma, la nuova esclusiva avrebbe dovuto aiutare le imprese europee nella competizione globale e in particolare nella competizione con gli USA.

L’equazione si è rivelata errata. Gli Stati Uniti pur non essendo – o forse, proprio per non essere – dotati di un diritto equivalente al diritto sui generis europeo hanno stravinto la competizione. La Commissione UE nel valutare l’impatto della direttiva ha, per ben due volte – nel 2005 e nel 2018 -, dovuto ammettere che non ci sono prove sull’impatto del diritto sui generis nella produzione di database. Nonostante ciò, la Commissione ha deciso di lasciare inalterata la direttiva.

Ma ora il vento sembra cambiare (almeno con riferimento alla direttiva banche dati). Nella strategia europea dei dati la parola d’ordine è diventata: condivisione [van Eechoud 2021].

Non a caso, l’art. 1.6 della dir. 2019/1024/UE (direttiva dati aperti) statuisce che:

“6. Il diritto del costitutore di una banca di dati di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 96/9/CE non è esercitato dagli enti pubblici al fine di impedire il riutilizzo di documenti o di limitare il riutilizzo oltre i limiti stabiliti dalla presente direttiva”.

La spinta verso la condivisione dei dati si vede anche meglio nella proposta del Data Governance Act (condivisione da parte del settore pubblico di dati non aperti e condivisione di dati tra imprese) e nelle premesse di quella che diventerà la proposta del Data Act (condivisione dei dati detenuti dalle imprese con il settore pubblico).

Tuttavia, nonostante tale spinta verso la condivisione dei dati, spalmata su un ventaglio di iniziative normative difficili da ricondurre a un sistema organico, il progressivo e inarrestabile rafforzamento della proprietà intellettuale continua a contrapporsi allo sviluppo della scienza aperta.

Un esempio è costituito dalla controversa direttiva 2019/790/UE (direttiva copyright), attuata in Italia con decreto legislativo 2021/177.

L’art. 3 della dir. 2019/790/UE è la disposizione normativa che riguarda più da vicino il tema dei dati della ricerca. La norma dispone un’eccezione ad alcuni diritti di esclusiva derivanti dal diritto d’autore e dal diritto sui generis sulle banche dati per consentire a organismi di ricerca e istituti di tutela del patrimonio culturale – come definiti dalla stessa direttiva – di effettuare l’estrazione, per scopi di ricerca scientifica, di testo e di dati da “opere” (protette da diritto d’autore) o altri “materiali” (protetti da diritti connessi) cui essi hanno legalmente accesso [Margoni, Kretschmer 2021]. Senza entrare nei dettagli, la norma, come quella che la attua in Italia, è contorta nonché presidiata da una serie di cautele, poste a presidio degli interessi dei titolari dei diritti di esclusiva, tanto ampia da ridurne fortemente la portata applicativa [Caso 2020b].

L’esempio merita di essere citato perché offre un’idea della politica legislativa dell’UE in materia di proprietà intellettuale. Tale politica si sostanzia nel rafforzamento del diritto di esclusiva che dovrebbe essere controbilanciato da specifiche eccezioni e limitazioni. Senonché il “sistema” delle eccezioni e limitazioni si è trasformato in un groviglio di norme disorganiche e in gran parte inutili. Ragion per cui non resta che sperare nei giudici, gli unici in grado di riequilibrare il rapporto tra esclusiva e libertà di uso mediante tecniche argomentative che eludono le restrizioni poste dalle eccezioni e limitazioni. Anche se occorre sottolineare che il ruolo della giurisprudenza nel campo del rafforzamento della proprietà rimane ambiguo: da una parte, contenimento delle esclusive, dall’altra, estensione delle esclusive legislative o addirittura creazione di nuove esclusive per via pretoria [Resta 2011].  

3. Controllo dei dati e degli algoritmi

La filosofa della scienza Sabina Leonelli [Leonelli 2018, 29, 30-31] mette in evidenza due fenomeni:

a) il datocentrismo;

b) la combinazione di Big e Open Data.

“Nell’approccio datocentrico, i dati sono visti come entità pubbliche che hanno valore scientifico indipendentemente dal loro ruolo di prova per una determinata ipotesi e che possono essere interpretati in modi diversi a seconda delle abilità e degli interessi dei ricercatori che li analizzano. […]

L’ascesa del datocentrismo e la combinazione di Big e Open Data ha enormi implicazioni per come la ricerca scientifica – e in particolare l’organizzazione e l’utilizzo dei dati – viene condotta, organizzata, governata e valutata. La capacità dei dati di servire come fonte di conoscenza scaturisce dalla loro mobilità: ossia, dalla loro capacità di viaggiare attraverso diverse situazioni di analisi e riuso e di essere relazionati con quanti più tipi di dati diversi possibile”.

Insomma, una volta messi in Rete, i dati si muovono, viaggiano e dispiegano la loro natura non rivale: un dato non è come una cosa tangibile che è rivale all’uso, è invece usabile contemporaneamente da più soggetti. Sabina Leonelli ha dedicato molti anni delle sue ricerche per seguire i viaggi dei dati, concludendo che questi viaggi espongono la scienza datocentrica a diversi rischi, tra i quali risaltano: la produzione di conoscenza errata e la creazione o l’aggravamento di discriminazioni e diseguaglianze [Leonelli 2018, 43 ss.].

Per questo c’è bisogno di un’epistemologia dei dati che mitighi tali rischi.

Alcuni dei rischi messi in luce da Leonelli riguardano la commercializzazione dei dati della ricerca. I dati della ricerca possono, infatti, avere un grande valore economico.

Il fatto che le imprese possano giovarsi dei dati della ricerca finanziata pubblicamente è un aspetto fisiologico in un sistema capitalistico che potenzialmente è in grado di generare innovazione [Gold 2016]. Ciò che non è fisiologico è l’uso scorretto dei dati da parte delle imprese. Ciò che è ancor più patologico è che Internet non è più un luogo dove trionfano la libertà e la concorrenza, ma è sempre più un ecosistema malato dove dominano alcuni grandi centri potere privato (Big Tech) e pubblico (Big Governement) e dove il confine tra privato e pubblico si fa alquanto sfumato.

I dati della ricerca una volta in circolazione vengono messi sotto il controllo del potere computazionale delle grandi piattaforme le quali li mischiano con altri dati, soprattutto con dati personali, per finalità che in gran parte attengono al “capitalismo della sorveglianza” [Zuboff 2019]. Li elaborano attraverso algoritmi di apprendimento automatico (c.d. intelligenza artificiale) che sono difesi da segreti commerciali.

In altri termini, i dati aperti della ricerca finiscono sotto il controllo esclusivo delle piattaforme che può rispondere a forme propriamente dette di proprietà intellettuale o a forme anomale di controllo esclusivo (“pseudo-proprietà intellettuale”). La pseudo-proprietà intellettuale, peraltro, tende a sfuggire al controllo giuridico – giudici, autorità amministrative – e ai meccanismi di bilanciamento tipici del diritto della proprietà intellettuale.

A tal proposito l’economista Massimo Florio [Florio 2021, 62] rileva quanto segue.

“Gli algoritmi con cui funzionano i motori di ricerca o le piattaforme social, per quanto segreti, non implicano conoscenze tecnologiche e scientifiche superiori a quanto sia alla portata dei dipartimenti universitari dove si fa ricerca avanzata sulla tecnologia dell’informazione, inclusa l’intelligenza artificiale e in generale le tecniche di trattamento dei Big Data. Al contrario, le sette sorelle dell’economia digitale attirano conoscenze e capitale umano mettendolo al servizio di un’agenda di accumulazione di capitale. Se questo avviene senza ostacoli è anche perché la legislazione che si è voluta applicare alla protezione del consumatore e alla regolazione del mercato in settori come ad esempio la telefonia mobile non si è voluta applicare a queste piattaforme. Non vi è nulla di intrinsecamente tecnologico in questo, è una scelta politica derivante da circostanze reversibili. Quindi se non esistono, o non sono dominanti, piattaforme digitali che si impegnino a lasciarci la proprietà dei nostri dati e a gestirli solo nell’interesse pubblico in base a un protocollo a tutti noto, senza finalità commerciali o di comunicazione politica, questo non è un caso. È una scelta politica […]” .

Che la situazione attuale sia frutto di decisioni politiche è un ormai un fatto assodato. Il giurista Cesare Salvi in proposito svolge le seguenti considerazioni.

“La creazione di ‘nuove proprietà’ da parte del diritto è stata studiata di recente da Katharina Pistor, e non riguarda solo gli strumenti finanziari […].

Per Pistor, il ‘Code of Capital’ è un processo di ‘codifica’ cioè di scrittura di un linguaggio (operata dagli studi legali, ma garantita dalla legislazione globale), attraverso il quale la qualifica di bene giuridico, cioè di oggetto di proprietà privata, viene attribuita a un numero crescente di entità, alcune delle quali ‘esistono soltanto nella legge’. In questo modo, tali entità diventano ‘capitale’.

Oggi la cosiddetta proprietà intellettuale […] è assimilata alla proprietà in senso proprio (lo dice esplicitamente l’art. 17 della Carta dei diritti dell’Unione Europea), attribuendo così allo sfruttamento economico della conoscenza le medesime garanzie accordate alla proprietà dei beni materiali. La figura è in costante espansione, comprende entità eterogenee configurate come oggetto di diritti proprietari.

I diritti d’autore e i brevetti nacquero, parallelamente all’invenzione della proprietà moderna, tra il Seicento e l’Ottocento, per tutelare – per un breve periodo – autori e inventori di beni socialmente utili. Negli ultimi decenni il neoproprietarismo ha stravolto la logica e le finalità del sistema. La brevettabilità è stata estesa dal prodotto alle fasi precedenti (la ricerca), un numero crescente di beni e di attività sono state rese meritevoli di protezione, la durata si è allungata, è fiorente un mercato dei brevetti […].

È anche protetto il potere di controllare, utilizzando tecniche sempre più raffinate, i flussi di informazione. Attraverso algoritmi tenuti segreti (‘il vero signore di questa epoca digitale’) in quanto considerati ‘proprietà intellettuale’, le grandi imprese della rete decidono quali ‘informazioni’ diffondere e come queste devono essere conosciute. […]

Siamo in presenza non di un effetto ‘naturale’ del progresso tecnologico, ma di decisioni politiche, tradotte in norme giuridiche.

L’idea di privatizzare internet […] aprendolo agli usi commerciali, è stata una decisione dell’amministrazione Clinton. […]

Chi immaginava la rete come un bene comune, ecosistema di una miriade di innovatori e interlocutori, si trova oggi di fronte a un luogo occupato da pochi proprietari monopolistici”. [Salvi 2021, 57-59].

Si assiste a un paradosso: la scienza aperta produce dati che dovrebbero servire a tutti e che invece vengono privatizzati.

“Da un lato l’esistenza di un vasto patrimonio di open science frutto della ricerca di migliaia di università ed enti pubblici di ricerca rappresenterebbe un grande potenziale per accrescere la giustizia sociale. Ma dall’altro quel patrimonio può produrre l’effetto contrario: le imprese private che si collocano a valle, grazie agli investimenti in conoscenza già realizzati a monte, con la loro attività di R&S, si appropriano privatamente della conoscenza” [Florio 2021, 63].

Non è un caso che alcuni critici dell’Open Science abbiano argomentato contro l’apertura sostenendo che si tratta di un meccanismo di produzione di dati finalizzato ad alimentare il capitalismo digitale [Hagner 2018].

Tra le voci critiche si può segnalare – per la sua rinomanza – lo storico e divulgatore Yuval Noah Harari [Harari 2017, 559, 582-583, 599] che parla della nuova religione dei dati: il datismo.

“Il datismo sostiene che l’universo consiste di flussi di dati e che il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati […] Il datismo è nato dalla confluenza esplosiva di due maree scientifiche. Nei centocinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione dell’Origine della specie di Charles Darwin, le scienze biologiche sono giunte a concepire gli organismi come algoritmi biochimici. Contemporaneamente, negli ottant’anni trascorsi da quando Alan Turing formulò l’idea della macchina che porta il suo nome, gli informatici hanno imparato a progettare algoritmi digitali interpretabili da elaboratori elettronici sempre più sofisticati. Il datismo mette insieme queste due concezioni, evidenziando che esattamente le stesse leggi matematiche si applicano sia agli algoritmi biochimici sia a quelli computerizzati digitali. Inoltre, questa nuova visione delle cose abbatte il muro tra animali e macchine, e prevede che gli algoritmi computerizzati alla fine decifreranno e supereranno le prestazioni degli algoritmi biochimici.

[…] Il datismo sostiene la libertà delle informazioni come il bene più importante. […]

La gente di rado si inventa valori nuovi. […]. Il datismo è il primo movimento, dal 1789, che ha creato un valore autenticamente innovativo: la libertà delle informazioni.

Non dobbiamo confondere la libertà delle informazioni con il vecchio ideale liberale della libertà di espressione. La libertà di espressione era data agli umani e proteggeva il loro diritto a pensare e dire quello che volevano – tra cui il diritto di tenere la bocca chiusa e i propri pensieri per sé stessi. La libertà delle informazioni, invece, non è data agli umani. È data alle informazioni. Inoltre, questo valore nuovo può ledere la tradizionale libertà di espressione degli umani, privilegiando il diritto delle informazioni a circolare liberamente sul diritto degli umani a possedere dati e restringerne il movimento […].

Un esame critico del dogma datista è forse non soltanto la più grande sfida scientifica del XXI secolo, ma anche il progetto politico ed economico più urgente. Gli studiosi di scienze biologiche dovrebbero chiedersi se perdiamo qualcosa quando concepiamo la vita come un processo di elaborazione dati e decisionale”.

Più di recente Kate Crawford [Crawford 2021, 127] ha denunciato ciò che si nasconde dietro la retorica dei dati e dell’apprendimento automatico.

“Espressioni come data mining e frasi come ‘i dati sono il nuovo petrolio’ rappresentano una modalità retorica che serve a spostare la nozione di dato da qualcosa di personale, intimo o soggetto alla proprietà e al controllo individuale a qualcosa di più inerte e non umano. I dati hanno iniziato a essere descritti come una risorsa da consumare, un flusso da controllare o un investimento da sfruttare. L’espressione ‘i dati come petrolio’ è diventata un luogo comune e per quanto faccia pensare ai dati come a un materiale grezzo da estrarre, raramente è servita ad evidenziare i costi delle industrie petrolifere e minerarie: lavoro a contratto, conflitti geopolitici, depauperamento delle risorse naturali e conseguenze che vanno ben oltre la durata della vita umana.

In definitiva, la parola ‘dati’ ha perso sostanza; nasconde sia le sue origini materiali che i suoi fini. E una volta concepiti nella loro astrattezza e immaterialità, i dati sfuggono più facilmente ai concetti e alle responsabilità dell’attenzione, del consenso o del rischio.”

Le preoccupazioni non finiscono qui. Non solo i dati aperti della ricerca finiscono nel controllo privato della conoscenza, ma vengono incrociati con i dati personali di terze persone e anche con i dati personali degli stessi scienziati.

Numerose analisi mettono in luce che il capitalismo della sorveglianza è pienamente in funzione anche nella scienza [Aspesi et al. 2019, 32; Deutsche Forschungsgemeinschaft 2021; R. Siems 2021; Pievatolo 2021b; Pooley 2021]. Singoli scienziati e comunità di ricercatori vengono costantemente sorvegliati per prevedere e, in ultima analisi, influenzarne il comportamento, più in generale per influenzare l’evoluzione della scienza. Per quanto concerne le università ciò avviene per quanto attiene alla ricerca, alla didattica e alla gestione amministrativa. Non sorprende perciò che sia nata una campagna di mobilitazione “Stop Tracking Science” che reclama la cessazione della sorveglianza dei ricercatori.

Nel documento di SPARC del 2019 [Aspesi et al. 2019] poi aggiornato negli anni successivi [Aspesi et al. 2020, Aspesi et al. 2021] si rileva come il mercato dell’editoria scientifica stia passando dai contenuti ai dati. In particolare, le imprese come Elsevier concentrano il loro business sull’analisi dei dati. Il modello commerciale estende il suo oggetto dalle riviste scientifiche e dai libri fino ad arrivare alla valutazione, agli strumenti gestionali e ai sistemi per l’apprendimento online con quel che ne deriva in termini di rischi per i dati personali [Ducato et al. 2020; C. Angiolini et al. 2020]. Il controllo dei dati relativi a studenti, docenti e ricercatori, risultati della ricerca e funzionamento delle istituzioni ha un valore economico enorme. Perciò l’Open Access alle pubblicazioni scientifiche praticato dalle imprese di analisi dei dati non è la via che conduce all’Open Science [Aspesi, Brand 2020].

4. Controllo delle infrastrutture

Molte delle analisi sui problemi legati alla privatizzazione dei dati della ricerca convergono nel delineare soluzioni che puntano a riprendere il controllo delle infrastrutture fondamentali della scienza o, per lo meno, ad affiancare infrastrutture indipendenti a quelle nelle mani degli oligopoli commerciali.

SPARC nel 2019 ha pubblicato una road map per le soluzioni organizzative necessarie per le università a riprendere il controllo di dati e infrastrutture [Aspesi, et al. 2019b]. La road map di SPARC è sintetizzata nella figura che segue.

Fig. 2: “Open Data Infrastructure: A Road Map” [Aspesi, et al. 2019b]

Il menu delle soluzioni si basa su due principi organizzativi. Il primo distingue metriche ed algoritmi. Il secondo distingue tre tipi di azioni (mitigazione dei rischi, scelte strategiche e azioni della comunità dei portatori di interesse).

Secondo SPARC le metriche – ciò che è oggetto di misura – dovrebbero essere nel controllo accademico, mentre gli algoritmi – come si misura – potrebbero anche non essere nel diretto controllo delle istituzioni accademiche, ma dovrebbero comunque essere trasparenti al fine di essere attentamente compresi e monitorati.

Esempi di azioni di mitigazione del rischio includono la predisposizione di meccanismo di coordinamento tra le varie strutture all’interno del campus, la revisione delle politiche sui dati, l’adozione di procedure trasparenti per l’acquisizione di servizi esterni.

Le questioni relative alle scelte strategiche comprendono quali metriche usare, in che misura fare ricorso all’intelligenza artificiale, l’alternativa tra proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza.

Tra le azioni della comunità spicca la costruzione o l’acquisizione di una propria infrastruttura per la gestione dei dati.

Karen Maex rettrice dell’Università di Amsterdam – e anche Presidente della League of European Research Universities (LERU) – ha denunciato questo stato di cose nel discorso per l’inaugurazione del 389. Dies Natalis – 8 gennaio 2021 – dell’istituzione che governa [Maex 2021].

Maex denuncia il fatto che grandi compagnie private esercitano un ruolo sempre più importante nella vita delle università diminuendo il loro grado di autonomia e libertà.

L’erosione dell’indipendenza delle università è cominciata dalle biblioteche. Con il passaggio dalle biblioteche alle banche dati commerciali online le università hanno perso il controllo delle fonti di conoscenza. Dall’avere la proprietà dei supporti e il controllo della logica con cui ordinare le fonti (libri, riviste), le biblioteche universitarie si sono ridotte a intermediari per l’accesso e l’uso delle banche dati online pre-ordinate dagli editori commerciali. Quel che preoccupa di più è la perdita delle biblioteche come arene gratuite e aperte della ricerca. Il movimento dell’Open Access ha provato a ricostruire online queste arene, ma gli editori commerciali stanno prendendo il controllo anche dell’Open Access attraverso nuove formule contrattuali – i c.d. contratti trasformativi che dovrebbero condurre dagli abbonamenti per le banche dati ad accesso chiuso ad abbonamenti per pubblicare in accesso aperto [cfr. AISA 2020; Galimberti 2021] – i loro servizi valutativi.

L’erosione dell’indipendenza si è poi estesa ai dati della ricerca e agli altri dati prodotti dalle università (dati relativi alle abitudini di ricerca e lettura, dati relativi ai sistemi di didattica e apprendimento online, dati relativi alla selezione di studenti e docenti, dati relativi alla gestione amministrativa). I grandi editori commerciali come Elsevier, trasformatisi in imprese di analisi dei dati, sono penetratati a fondo nella vita delle università.

Nel riprendere il discorso di Karen Maex la filosofa politica Maria Chiara Pievatolo [Pievatolo 2021b] aggiunge la seguente nota a margine:

“La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente”.

La questione nel riguardare il futuro dell’università, giocoforza riguarda il futuro della democrazia di cui le università, come luoghi di formazione della conoscenza e dello spirito critico, costituiscono un pilastro. Occorre perciò proteggere il carattere pubblico e autonomo della conoscenza prodotta nelle università.

Per difendere l’autonomia e la libertà delle università la rettrice Maex ritiene insufficiente la politica normativa europea attualmente in discussione, in particolare il Digital Services Act con le sue implicazioni in termini di maggiore trasparenza degli algoritmi alla base delle piattaforme Internet. Reclama invece l’introduzione di un Digital University Act che abbia quattro obiettivi.

1. Dati della ricerca. La conservazione e l’accesso ai dati della ricerca deve essere gestita da università e infrastrutture pubbliche.

2. Pubblicazioni scientifiche. Le pubblicazioni scientifiche devono essere in Open Access e non devono ingenerare alti costi per la pubblicazione o, peggio, dipendenza economica da un’impresa privata di analisi dei dati.

3. Strumenti per la didattica e per la ricerca. Le università devono avere il controllo degli strumenti digitali per la didattica e la ricerca. Tali strumenti dovrebbero far capo a piattaforme pubbliche o private, ma le università dovrebbero mantenere un controllo sui dati di uso e il potere di influenzare lo sviluppo degli stessi strumenti.

4. Dati delle piattaforme. Ricercatori e docenti devono avere accesso ai dati delle piattaforme per motivi di studio e insegnamento.

L’analisi delle debolezze della strategia europea dei dati e le proposte avanzate da Maex sono sostanzialmente riprese in un documento della LERU del dicembre 2021 [LERU 2021]. In tale documento, partendo dal rischio che la politica europea dei dati tratti le università alla stregua di imprese, le proposte vengono declinate e dettagliate su 16 principi rivolti a vari portatori di interesse: legislatori, digital providers, individui appartenenti alle università, università, industria.

L’iniziativa denominata Plan I – dove la “I” sta per Infrastructure – è stata avanzata da un gruppo di ricercatori tedeschi, tra questi si segnala il nome di Biorn Brembs, uno dei più autorevoli promotori a livello internazionale dell’Open Science [Brembs et al. 2021; Pievatolo 2021a]. Brembs e i suoi colleghi partono da un’analisi disincantata dell’attuale stato delle cose. Per trent’anni scienziati e ricercatori universitari hanno abbandonato il campo dell’innovazione delle infrastrutture di ricerca. Quel campo è stato occupato dai grandi editori commerciali come Elsevier, ora imprese di analisi dei dati, e dalle Big Tech come Microsoft.

Tutte le fasi del ciclo del lavoro dello scienziato che porta dalla ricerca e analisi dei dati, alla scrittura dei testi, fino alla pubblicazione, alla promozione (outreach) e alla valutazione dei risultati è occupato da poche grandi imprese commerciali (oligopoli).

Fig. 3: “Providers of digital tools for the scientific workflow (CC BY: Bianca Kramer, Jeroen Bosman, https://101innovations.wordpress.com/workflows). The preconditions for a functioning market exist, but a common standard is missing that provides for the substitutability of service providers or tools”. Tratta da Brembs et al. 2021

All’interno di queste infrastrutture commerciali attraverso tecnologie di sorveglianza e tracciamento le imprese estrapolano dati relativi al comportamento dei ricercatori che vengono sia venduti ad altre imprese sia sfruttati all’interno delle infrastrutture commerciali per rimodellare i propri modelli di business e offrire servizi alle istituzioni di ricerca.

La proposta Plan I si sostanzia in due punti.

1) Aprire gli standard di testi, dati e codici al fine di innescare la concorrenza dei servizi editoriali. In altri termini, l’apertura degli standard servirebbe a diminuire il potere di mercato dei grandi oligopoli. In particolare, servirebbe a distruggere il “vendor lock-in” (la dipendenza economica dal fornitore oligopolista).

2) Incentivare l’uso di standard aperti e riformare la valutazione della ricerca scientifica abolendo, secondo i principi della DORA declaration, criteri di valutazione che premiano la sede di pubblicazione invece del contenuto della pubblicazione.

L’obiettivo finale è quello di demolire il sistema oligopolistico di pubblicazione basato sulle riviste scientifiche (e sui servizi di analisi di dati) per costruire un mercato concorrenziale di servizi editoriali in cui testi, dati e codici sono liberamente accessibili e riproducibili. Secondo le stime di Brembs e dei suoi colleghi in un mercato concorrenziale di servizi editoriali le istituzioni di ricerca risparmierebbero il 90 % degli attuali costi di abbonamento alle banche dati oligopolistiche.

Una diversa proposta viene dall’economista Massimo Florio, sopra citato. L’alternativa all’oligopolio è rappresentata da una grande impresa pubblica europea di infrastruttura di ricerca [Florio 2021, 74 e 92].

“Si tratta di riscoprire l’idea dell’impresa pubblica e ibridarla con quella di infrastruttura di ricerca: un nuovo tipo di impresa come polo della creazione di conoscenza. Questo tipo di organizzazione potrebbe gestire come proprietà sociale il capitale intangibile derivante dalla ricerca pubblica in alcuni campi, creando un portafoglio di progetti i cui ritorni alimentino un fondo destinato sia a reinvestire nella stessa ricerca sia a programmi di promozione dell’uguaglianza nell’accesso alle nuove conoscenze. […]

Le proposte che seguono [Biomed Europa, Green Europa, Digital Europa] intendono quindi proporre soggetti unitari hub, eventualmente multicentrici, puntando su progetti su larga scala che integrino ricerca e servizio pubblico, intorno ai quali si possa aggregare una costellazione di altri soggetti pubblici e privati”.

Per quanto riguarda Digital Europa, l’infrastruttura che dovrebbe consentire di ripretendere il controllo dei dati, Florio dà conto delle iniziative in corso in Europa (Gaia-X e EOSC ecc.) e in Italia ICDI-Italian Computing and Data Infrastructure, ma le ritiene insufficienti.

“Nonostante questi segnali incoraggianti, difficilmente senza una vera infrastruttura sul modello delineato […] l’Europa recupererà il divario che si è creato con USA e Cina nella tecnologia dell’informazione e settori connessi. […]

Occorrerebbe immaginare un soggetto sovranazionale europeo che non abbia solo funzioni di coordinamento, ma abbia a tutti gli effetti autonomia manageriale, di bilancio, di capitale tangibile e intangibile, di personale dedicato con la missione di creare una piattaforma pubblica alternativa ai Tech Giants”.

Si è scelto qui di dar conto di alcune delle proposte di modifica delle politiche in materia di infrastrutture di ricerca. Si tratta di proposte che hanno elementi di differenziazione e convergenza. Segnalano che, rispetto solo a qualche hanno fa, c’è una maggiore e diffusa consapevolezza della malattia che affligge l’attuale ecosistema dei dati.

Tuttavia, tutte queste proposte lasciano immutato il quadro legislativo dei diritti di proprietà intellettuale e questo è un limite.

Oltre a creare infrastrutture pubbliche e a creare standard aperti occorre comprimere e riordinare i diritti di proprietà intellettuale che insistono sui dati. La compressione e il riordino della proprietà intellettuale è uno degli strumenti per provare a diminuire il potere di mercato degli oligopoli dei dati.

D’altra parte, le ricette in campo per contrastare gli oligopoli sono note e ampiamente discusse. Concernono politiche della concorrenza e della regolazione dei mercati, politiche fiscali, responsabilità, diritto dei contratti, protezione dei dati personali e, appunto, la proprietà intellettuale.

5. Conclusioni

L’Italia sconta un ritardo cronico in materia di Open Science. Il nostro Paese è da sempre all’inseguimento dei modelli più avanzati di scienza aperta.

Università, enti e istituti di ricerca pubblici mancano di strutture istituzionali di coordinamento all’interno (coordinamento tra dipartimenti) e all’esterno (coordinamento tra università, enti e istituti di ricerca). Poche istituzioni si sono dotate di politiche per la gestione dei dati della ricerca. Non ci sono numeri e statistiche circa lo stato di avanzamento della scienza aperta sul territorio nazionale. La formazione sulla materia è frammentata ed episodica. Il dibattito sulle infrastrutture per la ricerca e per la didattica è, come abbiamo visto, all’inizio, anche se non mancano infrastrutture già mature ed efficienti come quelle messe a disposizione dal consorzio GARR che necessiterebbero solo di essere ulteriormente sviluppate e promosse dai decisori pubblici [Nardelli 2020; Pievatolo 2020a; Barchiesi et al. 2021]. Il quadro giuridico è lacunoso, disarmonico e del tutto inefficace. La proposta Gallo (d.d.l. 1146) sull’accesso aperto all’informazione scientifica, che prevede tra l’altro l’istituzione di un diritto di ripubblicazione in Open Access in capo all’autore scientifico [AISA 2016; Caso 2020a; Caso, Dore 2021; Bellia, Moscon 2021], giace ferma al Senato da più di due anni. Persino il Piano Nazionale sulla Scienza Aperta preannunciato più di un anno fa nel Programma Nazionale della Ricerca 2021-2021 non riesce a vedere la luce (peraltro, l’adozione di politiche di accesso aperto è ora un obbligo per lo Stato italiano in attuazione dell’art. 10 dir. dir. 2019/1024/UE Open Data).

Soprattutto l’Italia è il Paese dove la proprietà intellettuale sui risultati della ricerca pubblica non è vista come frontalmente contraria alla logica dell’Open Science, ma come una leva fondamentale dell’innovazione e dove la valutazione bibliometrica di Stato, grazie anche all’onnipresente ANVUR, dilaga. La pandemia ha, inoltre, accelerato ed esteso la dipendenza delle università e delle istituzioni di ricerca dalle piattaforme commerciali [Fiormonte 2021; Monella 2021]. Al di là di poche eccezioni, la morsa del potere del potere delle piattaforme sulla didattica e sulla ricerca è sempre più stringente.

Quel che si riesce a fare per difendere l’autonomia e la libertà della ricerca scientifica lo si deve a poche istituzioni illuminate e a un manipolo di persone che ancora credono che l’art. 33 della Cost. non sia un simulacro, ma un principio fondante (ancora vigente).

Se c’è del buono nell’art. 10 della dir. 2019/1024/UE, cioè nel ponte gettato dal legislatore europeo tra politiche in materia di Open Data del settore pubblico e politiche in materia di Open Science, è che può essere un pretesto per riaprire un dibattito a livello di decisori pubblici – Governo, Parlamento – quanto mai urgente.

Anche dal controllo dei dati della ricerca dipende il futuro della democrazia. Un futuro che in questo periodo storico appare più cupo che mai.

Bibliografia

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LawTech Student Paper 72 e 73

Pubblicati i LawTech Student Paper nr. 72 e 73

Elenora Maroni, Eccezioni e limitazioni al diritto d’autore nell’Unione Europea: profili critici e spunti comparatistici applicati al settore GLAM alla luce dell’emergenza COVID-19, nr. 72

Federico Bruno, Risarcimento del danno da violazione dei diritti di proprietà intellettuale e retroversione degli utili. Un’analisi comparata, nr. 73

CopyrightX – University of Trento (Italy) 2021-2022

The course CopyrightX – University of Trento (Italy) is based on materials developed by William Fisher for CopyrightX at Harvard Law School.

Il corso CopyrightX – University of Trento (Italy) è basato sui materiali sviluppati da William Fisher per CopyrightX alla Harvard Law School.

Harvard CopyrightX Course

Information

Bando per la selezione dei partecipanti

Docenti: Roberto Caso, Giulia Dore

CopyrightX Trento reading

1. The Foundations of Copyright Law

2. Fairness and Personality Theories

3. The Subject Matter of Copyright

4. Welfare Theory

5. Authorship

6. The Mechanics of Copyright

7. The Rights to Reproduce and Modify

  • 17 U.S.C. 106
  • Art. 4, 13, 18, L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio
  • Art. 2, Directive 2001/29/EC of the European Parliament and of the Council of 22 May 2001 on the harmonisation of certain aspects of copyright and related rights in the information society
  • Steinberg v. Columbia Pictures Industries, Inc., 663 F.Supp. 706 (S.D.N.Y. 1987) [pdf] [MS Word] [h2o] [Illustrations]
  • Rentmeester v. Nike, Inc. (9th Cir. 2018) [pdf]
  • Mannion v. Coors Brewing Co., 377 F.Supp. 2d 444 (S.D.N.Y. 2005): paragraphs 81-94 [pdf] [MS Word] [h2o[Illustrations]
  • Cass. ord., 12 dicembre 2017, n. 29811

8. The Rights to Distribute, Perform, and Display

  • Kirtsaeng v. John Wiley & Sons (U.S. Supreme Court, March 19, 2013) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • American Broadcasting Companies v. Aereo, Inc., 134 S.Ct. 2498 (2014) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • EUCJ, UsedSoft GmbH v. Oracle International Corp.(2012) (C-128/11)
  • EUCJ, GS Media BV v. Sanoma Media Netherlands BV et al. (2016) (C‑160/15)
  • EUCJ,VCAST Limited v. RTI SpA (2017) (C‑265/16)
  • EUCJ, Nederlands Uitgeversverbond et al. v. Tom Kabinet Internet BV et al. (C‑263/18)

9. Fair use and Misuse

10. Cultural Theory

11. Supplements to Copyright: Secondary Liability and Para-copyright

  • Metro-Goldwyn-Mayer, Inc. v. Grokster, 545 U.S. 913 (2005) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • Viacom v. YouTube, 676 F.3d 19 (CA2 2012) [pdf] [MS Word] [h2o]
  • EUCJ, Sabam v. Netlog (C‑360/10) (2012) (link)
  • EUCJ, Nintendo Co. Ltd v. PCBox srl (Causa C‑355/12) (2014) (link)
  • Art. 6, Directive 2001/29/EC of the European Parliament and of the Council of 22 May 2001 on the harmonisation of certain aspects of copyright and related rights in the information society
  • Art. 17, Directive 2019/790 of the European Parliament and of the Council of 17 April 2019 on copyright and related rights in the Digital Single Market and amending Directives 96/9/EC and 2001/29/EC (link)

12. Remedies

Diritto d’autore e arte 2021-2022

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A sinistra Millet, «The End of Day» 1867-69, a destra Van Gogh «Evening: The End of the Day (after Millet)», 1889

Docenti: Roberto Caso, Giulia Dore

Informazioni qui

Calendario delle lezioni: qui (può subire variazioni)

Lezione 1 Introduzione

Slide: Lezione 1

Letture:

M.C. Pievatolo, La comunicazione del sapere. La questione del diritto d’autore, Bollettino telematico di filosofia politica, 2007-2008

A. Manzoni, Lettera di Alessandro Manzoni al signor professore Girolamo Boccardo intorno ad una questione di così detta proprietà letteraria, 1860

copyrighthistory.org

Visioni:

Copying Is Not Theft, 2010

Lezione 2 Il metodo casistico-problematico – Diritto e tecnologia, diritto e arte

Slide: Lezione 2

Letture:

G. Pascuzzi, Cosa intendiamo per «metodo casistico»?, Trento Law and Technology Research Papers; nr. 29, 2016

R. Caso, Il metodo casistico-problematico, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

R. Caso, Gli argomenti interpretativi, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

R. Caso, La tecnica argomentativa del bilanciamento dei diritti, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

R. Caso, Diritto e tecnologia, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

Università di Torino, Archivio di diritto e storia costituzionali, Tecniche interpretative della Corte costituzionale

–> Diritto civile A-E

–> LawTech Group

Visioni:

The Paper Chase (di James Bridges) – una scena

Lezione 3 Come si cerca l’informazione giuridica – Come si affronta un esame scritto

Slide: Lezione 3

Letture:

R. Caso, Come si cerca l’informazione giuridica, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

R. Caso, La dottrina giuridica italiana in Open Access – Una sitografia in costruzione

Università di Trento – Facoltà di Giurisprudenza – Open Access

R. Caso, Come si affronta un esame scritto, in R. Caso, La società della mercificazione e della sorveglianza: dalla persona ai dati. Casi e problemi di diritto civile, Milano, Ledizioni, 2021

–> Diritto civile A-E

Lezione 4 Diritto d’autore ed evoluzione tecnologica: cenni

Slide: Lezione 4

Letture:

U. Izzo, Alle origini del copyright e del diritto d’autore. Tecnologia, interessi e cambiamento giuridico, Carocci, 2010 (Cap. 1 disponibile qui)

R. Caso, Alle origini del copyright e del diritto d’autore: spunti in chiave di diritto e tecnologia, 2010

M.C. Pievatolo, L’età del privilegio, in Il Mulino, 2 aprile 2019

Lezione 5 Creatività e originalità

Slide: Lezione 5

Letture:

M.C. Pievatolo, Fichte: l’originalità come fondamento della proprietà intellettuale, in M.C. Pievatolo, La comunicazione del sapere. La questione del diritto d’autore, 2007-2008

F. Macmillan, Il diritto d’autore nell’era digitale: verso il declino dell’originalità dell’opera?, in G. Resta (a cura di), L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, Roma, 2020, 109-120

Codice civile, art. 2575-2576

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 1, 6

L. 20 giugno 1978, n. 399, Ratifica ed esecuzione della convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata il 9 settembre 1886, completata a Parigi il 4 maggio 1896, riveduta a Berlino il 13 novembre 1908, completata a Berna il 20 marzo 1914, riveduta a Roma il 2 giugno 1928, a Bruxelles il 26 giugno 1948, a Stoccolma il 14 luglio 1967 e a Parigi il 24 luglio 1971, con allegato. (GU n.214 del 02-08-1978 – Suppl. Ordinario), art. 10

Corte di Cassazione civ., Sez. I, 19 febbraio 2015, n. 3340, Soc. Universal Music Publishing Ricordi c. De Gregori, in Foro it., 2015, I, 2031

Trib. pen. Napoli, 27 maggio 1908 (D’Annunzio c. Scarpetta)

L. Moscati, Sulla parodia e la causa D’Annunzio Scarpetta, Historia et ius 20 (2021)

Galvano Della Volpe

G. Dore, “Plagio e diritto d’autore. Un’analisi comparata e interdisciplinare“, CEDAM – Wolters Kluwer, 2021

Ascolti:

Iva Zanicchi, Zingara, 1969

Francesco De Gregori, Prendi questa mano, zingara, 1976 (2011)

Visioni:

Qui rido io (2021, regia di Mario Martone) – Clip “Il primo poeta d’Italia

Lezione 6 Dicotomia idea/espressione – Principio dell’esaurimento

Slide: Lezione 6

Letture:

I. Kant, L’illegittimità della ristampa dei libri (trad. it. di Maria Chiara Pievatolo), 1785

Codice civile, art. 2575-2576

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 1, 6

Trib. Torino 24 aprile 2008, in Foro it., 2009, I,  1285

Trib. Milano 3 febbraio 2017, in Foro it., 2017, I, 3488

Corte di Giustizia 19 dicembre 2019,  C‑263/18 (Tom Kabinet)

Visioni:

The Social Network (2010) di David Fincher (una scena)

Lezione 7 I diritti morali: fondamenti

Slide: Lezione 7

Letture:

Codice civile, art. 2577

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 1, 6, 20

Cass. Torino, udienza 5 dicembre 1908; The Gramophone company limited  c. Ricordi ed altri, in Foro it., 1909, I, 603

Cass. 4 settembre 2013, n. 20227, in Foro it., 2013, I, 3189

L. Moscati, I diritti morali e la Conferenza di Roma del 1928 per la revisione della Convenzione di Berna, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2015, 465

Visioni:

The Gost Writer

Lezione 8 Le eccezioni e limitazioni

Slide: Lezione 8

Letture:

Art. 2, 21, 33 Cost.

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 70

Trib. pen. Napoli, 27 maggio 1908 (D’Annunzio c. Scarpetta)

Corte di Giustizia 3 settembre 2014, C‑201/13 (Deckmyn)

F. Mezzanotte, Le “eccezioni e limitazioni” al diritto d’autore UE, in AIDA, 2016

E. Maroni, Eccezioni e limitazioni al diritto d’autore nell’Unione Europea: profili critici e spunti comparatistici applicati al settore GLAM alla luce dell’emergenza COVID-19, Trento Law and Technology Research Group, Student Paper Series; 72. Trento: Università degli Studi di Trento

Lezione 9 I contratti: cessioni e licenze

Slide: Lezione 9

Letture:

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, 107 ss.

M. Bertani, La disciplina del contratto di edizione nell’ordinamento italiano (s.d., ma 2009)

L. Lessig, Cultura libera, 2005, 154 ss.

Le licenze Creative Commons

Piccole Donne (2019, regia di Greta Gerwig) una scena

Lezione 10 La tutela civile

Slide: Lezione 10

Letture:

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 156 ss.

Trib. Firenze 10 luglio 2006

Cass. 3 giugno 2015, n. 11464

Cass. 22 giugno 2016, n. 12954

F. Bruno, Risarcimento del danno da violazione dei diritti di proprietà intellettuale e retroversione degli utili. Un’analisi comparata, Trento Law and Technology Research Group, Student Paper Series; 73. Trento: Università degli Studi di Trento

Lezione 11 Il plagio-contraffazione: i fondamenti

Slide: Lezione 11

Letture:

R. Caso, Plagio, diritto d’autore e rivoluzioni tecnologiche, in R. Caso (a cura di), Plagio e creatività: un dialogo tra diritto e altri saperi. Atti dei Seminari tenuti il 21 e il 28 aprile 2010 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, Università degli Studi di Trento, Trento 2011 5

G. Dore, “Plagio e diritto d’autore. Un’analisi comparata e interdisciplinare“, CEDAM – Wolters Kluwer, 2021

Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039, caso Emilio Vedova, in Foro it., 2018, I, 855

Visioni:

Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Emilio Vedova: una biografia per immagini

Lezione 12 La riproduzione di opere delle arti visive di pubblico dominio

Slide: Lezione 12

Letture:

Art. 14 direttiva 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale

Art. 32-quater l. 1941/633

M. Arisi, Riproduzioni di opere visive in pubblico dominio: l’Articolo 14 della Direttiva (EU) 2019/790 e la trasposizione in Italia, in Aedon, numero 1, 2021, issn 1127-1345

La riproduzione di opere delle arti visive di dominio pubblico e l’attuazione della direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, seminario online, 10 febbraio 2021

Lezione 13 I diritti morali nelle arti visive

Slide: Lezione 13

Slide: Lezione 13b

Letture:

Cass. civ. [ord.], 11 giugno 2018, n. 15158

Trib. Milano 24 settembre 2009

Lezione 14 Copyright exceptions in public places

Lezione 14: Marta Iljadica, Copyright exceptions in public places (slide)

Dr. Marta Iljadica (University of Glasgow, School of Law, Intellectual Property, CREATe) Copyright exceptions in public places

Collegamenti:

ReCreating Europe – Rethinking digital copyright law for a culturally diverse, accessible, creative Europe

Letture:

Direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, art. 5.3 h

Dlgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, art. 107-108

UK Copyright, Designs and Patents Act 1988

M. Iljadica, ‘Copyright and the right to the city’ (2017) Northern Ireland Legal Quarterly 68(1): 59-78, https://doi.org/10.53386/nilq.v68i1.22

G. Resta, Il regime giuridico dell’immagine dei beni, Enciclopedia Treccani, 2013

C. Battistella, La libertà di panorama: profili critici e spunti comparatistici, Trento LawTech Group Student Paper, nr. 75, 2022

–> Lezione 8 e 12

Lezione 15 Arte appropriativa

Slide: Lezione 15

Letture:

Trib. Venezia 7 novembre 2015

A. Donati, Quando l’artista si appropria dell’opera altrui, in Riv. dir. ind., 2018

F. Minio, Riflessioni in tema di tutela giuridica dell’appropriation art in ambito figurativo, in Aedon, 3/2019

Lezione 16 Arte appropriativa e parodia

Slide: Lezione 16

Letture:

Trib. Milano 13 luglio 2011

Visioni:

Aberto Giacometti (Wikimedia Commons)

John Baldessari “Giacometti Variations

Rogers v. Koons

Immagine tratta da Wikepedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Rogers_v._Koons

Lezione 17 Copyright exceptions and the Marrakesh Treaty

Prof. Delia Ferri
Professor of Law – Co-Director Assisting Living and Learning (ALL) Institute
Delia.ferri@mu.ie
https://www.maynoothuniversity.ie/people/delia-ferri

University of Trento
22 March 2022
Copyright exceptions and the Marrakesh Treaty

Locandina, outline.

Lezione 18 Arte, tecnologia e Non Fungible Token (NFT)

Slide: Lezione 18

Seminario Dott.ssa Marta Arisi

Letture:

Bodó, Balázs and Giannopoulou, Alexandra and Quintais, João and Mezei, Péter, The Rise of NFTs: These Aren’t the Droids You’re Looking For (January 4, 2022). European Intellectual Property Review, Issue 5, 2022, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=4000423

Visioni,

Internazionale (Financial Times): Cosa sono gli nft e come cambiano il mondo dell’arte, 19 gennaio 2022

Lezione 19 Disegno industriale e valore artistico

Slide: Lezione 19. Introduzione


Presentazione del libro “Design e innovazione digitale
Prof.ssa Barbara Pasa – Università IUAV di Venezia

Letture:

L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, art. 2, n. 10)

Corte di Giustizia 12 settembre 2019, C-683/17, Cofemel

R. Caso, G. Dore, Opere di disegno industriale tra creatività, neutralità e valore artistico: esercizi (e acrobazie) sulla quadratura del cerchio, Trento LawTech Research Papers, nr. 40, Trento, Università degli studi di Trento, 2020

Lezione 20 Street art e diritto

Slide: Lezione 20

Letture:

Cass. pen. 20 aprile 2016, n. 16371

N.A. Vecchio, Problemi giuridici della street art, in Dir. informazione e informatica, 2016

L. Giordani, Graffiti, street art e diritto d’autore: un’analisi comparata, LawTech Student Paper n. 41, 2018

M.R. Marella, Le opere di Street Art come Urban Commons, in Rivista Critica del Diritto Privato, 2020, 471

Lezione 21. Conclusioni

Slide: Lezione 21

Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica. Arte e società di massa
, in accademiaravenna.net

Wikipedia, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

I. Kant, L’illegittimità della ristampa dei libri (trad. it. di M.C. Pievatolo), 1785

M.C. Pievatolo, Kant: l’illegittimità della ristampa dei libri

Il diritto umano alla scienza aperta

27 dicembre 2021

L’articolo di Roberto Caso e Federico Binda, Il diritto umano alla scienza aperta, anticipato in forma di preprint nella serie (nr. 41) dei Trento LawTech Research Papers, del Gruppo LawTech dell’Università degli studi di Trento, è stato pubblicato nel volume a cura di Giulia Perrone e Marco Perduca per l’Associazione Luca Coscioni, Così san tuttз – Diritto alla Scienza, istruzioni per l’uso, Roma, Fandango Libri, 2021, 44-52

L’attuazione della direttiva copyright: democrazia o tecnocrazia?

Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:2019-03-02_rally_against_EU_Copyright_Reform_in_Berlin,_Gero_Nagel,_16.jpg – Autore: Gero Nagel – CC-BY-4.0

Roberto Caso

12 dicembre 2021 (pubblicato su L’Adige, 12 dicembre 2021, con il titolo “Diritto d’autore, riforma a rischio” e su Alto Adige, 13 dicembre 2021, con il titolo “Copyright: democrazia o tecnocrazia?“)

Oggi entra in vigore un’importante modifica della legge sul diritto d’autore: il decreto legislativo n. 177 del 2021 di attuazione della direttiva dell’Unione Europea n. 790 del 2019, meglio conosciuta come “direttiva copyright”.

Il tema è (apparentemente) di nicchia. Eppure, si tratta di una novella legislativa importante. Essa produce la modifica più estesa e profonda della legge italiana sul diritto d’autore degli ultimi 20 anni. E la legge sul diritto d’autore, in quanto strettamente legata alla libertà di espressione e informazione, dovrebbe interessare tutti. In questa prospettiva, essa rappresenta un pilastro fondamentale su cui basano le società democratiche. Dalla stampa a caratteri mobili fino a Internet il diritto d’autore ha sempre costituito un elemento essenziale dell’ecosistema informativo.

A leggere superficialmente le reazioni che hanno avuto voce su giornali, radio e televisioni sembrerebbe che l’attuazione italiana della direttiva copyright incontri un vasto coro di consensi. La SIAE, l’Associazione Italiana Editori, la Federazione Italiana Editori Giornali e la Federazione Industria Musicale Italiana hanno usato toni trionfalistici all’indomani dell’approvazione in Consiglio dei Ministri. Quel che sorprende di più è la trasversalità politica delle manifestazioni di soddisfazione. Dal Partito Democratico a Fratelli d’Italia sembra che il restyling del diritto d’autore metta d’accordo tutti.

Tuttavia, chi conosce la storia dei travagliati processi legislativi che hanno portato nel 2019 all’approvazione della direttiva e ora alla sua attuazione in Italia sa che esiste un vasto movimento di opinione contrario all’impostazione di fondo e a molti contenuti di questa nuova normativa. Questo movimento composto da persone, partiti, associazioni e organizzazioni che promuovono l’apertura della conoscenza come Wikimedia, Creative Commons, Communia e AISA raramente trovano ospitalità in giornali, radio e televisioni. D’altra parte, l’approvazione in Parlamento Europeo fu a maggioranza (348 voti a favore, 274 contrari) ed alcuni Stati Membri, tra i quali l’Italia, nel Consiglio dell’UE votarano contro.

L’impostazione di fondo della direttiva tradisce i suoi limiti a partire dal titolo: diritto d’autore nel mercato unico digitale. Si tratta, nell’idea della Commissione UE Junker, di una parte della strategia per la costruzione del mercato europeo digitale. Un mercato viziato da barriere legislative: le differenze tra le leggi nazionali sul diritto d’autore sono troppo marcate. Viziato, inoltre, da una disparità di potere tra le grandi piattaforme Internet (statunitensi) e gli intermediari tradizionali come editori e produttori musicali. La direttiva, perciò, nei suoi principali obbiettivi intendeva riavvicinare le legislazioni nazionali e riequilibrare il potere degli intermediari.

In particolare, al fine di riequilibrare il potere degli intermediari vecchi e nuovi il legislatore unionale ha creato un nuovo diritto degli editori di giornali sulle pubblicazioni giornalistiche (art. 15) e ha determinato un aggravamento della responsabilità degli intermediari Internet che consentono il caricamento di contenuti da parte di utenti: ad es. YouTube (art. 17). Il nuovo diritto degli editori dovrebbe consentire agli stessi di recuperare il valore di cui si approprierebbero piattaforme come Google News e Facebook. La nuova responsabilità, tramite l’obbligo dell’uso di filtri automatici basati sull’intelligenza artificiale dovrebbe mettere i titolari di diritti d’autore (in particolare, l’industria musicale) nella condizione di avere un ritorno economico per lo sfruttamento commerciale dei contenuti protetti caricati dagli utenti.

Insomma, la direttiva si muove su un crinale geopolitico di regolamentazione del mercato e lo fa rafforzando i diritti di esclusiva degli intermediari tradizionali nella speranza di dare respiro all’industria digitale europea messa nell’angolo dallo strapotere americano.

Non c’è dubbio che la concentrazione di potere delle grandi piattaforme Internet (oggi americane e domani anche cinesi) sia uno dei problemi più rilevanti per le nostre democrazie. Lo testimoniano i molti interventi su diversi fronti: fiscale, antitrust, della protezione dei dati personali. Tuttavia, deformare il diritto d’autore piegandolo a un obiettivo puramente economico, qual è la restituzione ai vecchi intermediari del valore appropriato dai nuovi, dimentica il fatto che il diritto d’autore è innanzitutto una questione politica, perché regola l’accesso alla cultura e alla conoscenza.

Nuovi diritti di esclusiva e nuove responsabilità impattano la vita di tutti. Il nuovo diritto degli editori si aggiunge ai diritti di esclusiva già riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore, restringendo i margini per l’accesso e il riuso delle pubblicazioni giornalistiche online. L’aggravamento della responsabilità di intermediari come YouTube obbliga di fatto a usare tecnologie di filtraggio automatico che riducono la libertà di espressione e di informazione degli utenti.

Vero è che la direttiva prevede anche salvaguardie e spazi di libertà dalle esclusive vecchie e nuove. Prevede, inoltre, alcuni diritti per proteggere gli autori dal maggiore potere contrattuale degli intermediari. Ma tali meccanismi sono alquanto farraginosi e contraddittori.

L’attuazione italiana (il decreto legislativo n. 177 del 2021) complica un quadro legislativo già ampiamente compromesso a monte. Introduce strumenti giuridici non previsti dalla direttiva, guarda soprattutto agli interessi dei grandi editori, estende il potere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) – un’autorità che non è dotata degli stessi requisiti di indipendenza e imparzialità dei giudici ordinari – e comprime ulteriormente gli spazi di libero accesso ai contenuti protetti da diritti di esclusiva.

Quel che preoccupa non è solo la direttiva in sé ma anche e soprattutto la strategia complessiva sulla proprietà intellettuale. Nei vari documenti di riferimento, dal Piano di Azione della Commissione UE sulla proprietà intellettuale alla strategia sulla proprietà industriale del Ministero dello Sviluppo Economico, la ricetta, persino in tempi di Pandemia che reclamano maggiore condivisione della conoscenza, rimane il rafforzamento dei diritti di esclusiva. La vicenda dei brevetti sui vaccini anti-COVID-19 è, da questo punto di vista, emblematica.

Non rimane che sperare nell’interpretazione dei giudici. A cominciare dalla Corte di Giustizia dell’UE che dovrà decidere a breve sulla legittimità di una delle norme cardine della direttiva: l’art. 17 sulla responsabilità degli intermediari Internet che consentono il caricamento di contenuti da parte di utenti.

La storia ricorda che il vero diritto d’autore, quello che opera nella realtà della prassi lo scrivono corti e tribunali. Nel 1774 quando l’House of Lords decise che il copyright della legge della Regina Anna del 1710 doveva essere interpretato come un’esclusiva limitata temporalmente e non come una proprietà perpetua la gente scese in piazza a festeggiare. Le persone sapevano benissimo che dalla limitazione temporale del copyright sarebbero derivati prezzi di acquisto dei libri molto più bassi: tutti gli editori potevano ristampare le opere cadute in pubblico dominio.

In definitiva, i giudici rappresentano uno degli ultimi argini della democrazia. L’ultima linea di difesa al dilagare della tecnocrazia.

Academic Copyright, Open Access and the “Moral” Second Publication Right

Pubblicato il nr. 47 dei LawTech Research Paper a firma di Roberto Caso e Giulia Dore. In European Intellectual Property Review

Qui di seguito l’abstract:

“The Green route to Open Access (OA), meaning the re-publication in OA venues of previously published works, can essentially be executed by contract and by copyright law. In theory, rights retention and contracts may allow authors to re-publish and communicate their works to the public, by means of license to publish agreements or specific addenda to copyright transfer agreements. But as a matter of fact, because authors lack bargaining power, they usually transfer all economic copyrights to publishers. Legislation, which overcomes the constraints of a contractual scheme where authors usually have less bargaining power, may deliver a (digital) second publication or communication right, which this paper discusses in the context of research publications. Outlining the historical and philosophical roots of the secondary publication right, the paper provocatively suggests that it has a “moral” nature that even makes it a shield for academic freedom as well as a major step forward in the overall development of OA”.

Proprietà intellettuale e pandemia: una guerra (tra uomini)

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mural_del_Gernika.jpg

Roberto Caso

1° dicembre 2021 (“I brevetti e la sporca guerra“, Alto Adige, 3 dicembre 2021, “Pandemia e proprietà intellettuale“, Adige, 5 dicembre 2021)

Il dibattito sulla sospensione a livello internazionale degli accordi relativi proprietà intellettuale torna alla ribalta dei mass media. Su giornali, televisioni e web si riaccendono discussioni rimaste sopite nelle ultime settimane.

I motivi della rinnovata attenzione sono almeno tre: la diffusione della variante Omicron, il rinvio della riunione in presenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che avrebbe dovuto discutere in questi giorni la proposta avanzata già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica di sospensione degli accordi sulla proprietà intellettuale nel ambito del commercio internazionale (TRIPS), la convocazione per questa settimana da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di una sessione speciale dell’assemblea globale della sanità che dovrebbe iniziare a discutere di un nuovo trattato per la prevenzione delle pandemie.

Gli organi di informazione ci sbattano in faccia i dati di quella che è stata definita, a giusta ragione, una catastrofe morale. Mentre il ricco Occidente si affretta a somministrare la terza dose di vaccino e irrobustisce le misure per convincere od obbligare chi non ha assunto nemmeno la prima, nei Paesi meno sviluppati e in quelli poveri le percentuali di vaccinati sono irrisorie. I motivi della difficoltà a vaccinare le proprie popolazioni da parte di Stati economicamente svantaggiati sono molti. Tra questi figura, senza dubbio, l’impossibilità di poter usare conoscenze e tecnologie protette dalla proprietà intellettuale occidentale.

La retorica del “o ci si salva tutti assieme, o non ci si salva” suona come un sinistro ritornello che stride con la conta (parziale) dei milioni di morti. I ricchi Paesi occidentali, con in testa la nostra Unione Europea, non vogliono rinunciare al dominio tecnologico e a proteggere le grandi case farmaceutiche. Il macabro balletto di dichiarazioni confuse e contradditorie con mezze aperture subito smentite da intransigenti chiusure rende chiaro che non ci sarà nessun serio intervento volto a sospendere a livello internazionale e nazionale la proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su farmaci (non solo i vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.

Né gli argomenti solidaristici – riflessi nei sempre più numerosi appelli e petizioni della società civile – né quelli egoistici – “il virus e le sue mutazioni non conoscono frontiere” – sembrano far breccia nei decisori politici.

Il divario tra principi fondanti delle nostre democrazie – uguaglianza e solidarietà – e quel che viene messo in pratica dai governi si fa baratro. Lo ha denunciato recentemente il Presidente Mattarella con riferimento a quel che accade ai migranti che tentano di trovare rifugio in Europa. Si ripropone per la vicenda dei milioni di persone che meriterebbero di trovare protezione sanitaria dal virus e che invece sono abbandonati a sé stessi.

Il problema non sta solo nella politica e nel diritto dell’emergenza – la sospensione temporanea della proprietà intellettuale – ma nella proprietà intellettuale in sé. La proprietà intellettuale è pensata per competere al fine di ottenere il controllo monopolistico della conoscenza. Per elevare barriere e steccati intorno alle tecnologie. A livello geopolitico per dominare chi non è in grado “produrre” proprietà intellettuale. L’esatto contrario di quello che di cui ha bisogno l’umanità per questa, per le prossime pandemie e per altre minacce come il cambiamento climatico.

Il problema sta anche (e soprattutto) nella politica e nel diritto del futuro. Insomma, ci sarebbe bisogno di una riforma organica del sistema di produzione della conoscenza. In particolare, andrebbe ripensato il rapporto tra la conoscenza prodotta con fondi pubblici dalle istituzioni non orientate al profitto e quella prodotta dalle imprese. In decenni di deriva neoliberista è stato costruito un sistema che determina il paradosso – ben visibile in campo farmaceutico – che la conoscenza prodotta con fondi pubblici finisce per essere privatizzata. Ciò è inaccettabile: lo Stato paga una prima volta finanziando la ricerca e una seconda volta comprando il farmaco dalle imprese. Ma soprattutto perde il controllo della tecnologia. Se l’impresa farmaceutica (pur finanziata con fondi pubblici) è lasciata libera di controllare la tecnologia con segreti e brevetti, sarà l’unica a decidere a chi e a quanto vendere.

A leggere i vari piani e strategie dell’Unione Europea e dell’Italia – dai piani d’azione sulla proprietà intellettuale al PNRR – l’auspicato ripensamento del sistema di produzione della conoscenza non è neanche all’orizzonte. Le indicazioni che emergono dai documenti istituzionali sono chiare: rafforzamento della proprietà intellettuale e del trasferimento tecnologico da università ed enti di ricerca a imprese.

Insomma, quando si parla di “strategia” della proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici, si parla di guerra. Ma per favore non chiamiamola retoricamente “guerra contro il virus”. È la solita sporca guerra tra uomini, solo che il sangue non è immediatamente visibile.

La metafora di un dilemma fondamentale

La lezione prova a illustrare alcune premesse storiche e concettuali della direttiva copyright 2019/790. Mentre gran parte del dibattito sul copyright si focalizza su questioni economiche, la discussione sul diritto d’autore nell’era digitale riguarda questioni politiche fondamentali che attengono alla tenuta delle società demcratiche.

Politiche sulla scienza aperta in Italia: solo “bla bla bla”

Copertina del disco Parole-Parole (interpreti Mina e Alberto Lupo, PDU, 1972)

Roberto Caso

In Roars, 13 dicembre 2021. Pubblicato su Agenda Digitale, 17 dicembre 2021 con il titolo “Scienza aperta? In Italia è un mito: ecco tutti i problemi irrisolti“, disponibile anche su Zenodo.

Versione del 24 novembre 2021

Politiche sulla scienza aperta in Italia: solo “bla bla bla”

Roberto Caso[1]

Introduzione

Mentre l’UNESCO si accinge ad adottare la raccomandazione sull’Open Science, la Francia ha da poco varato il secondo piano nazionale sulla scienza aperta, e l’UE non solo finalizza il progetto Horizon Europe all’apertura dei risultati della ricerca ma inserisce le pratiche dell’Open Science tra gli elementi di valutazione delle proposte progettuali, in Italia si discute molto di politiche della Scienza Aperta senza sviluppi concreti e significativi. Anzi, oggi la scienza appare nel nostro Paese meno aperta e libera: i condizionamenti politici e privati si fanno via via più pesanti.

Vediamo, limitandoci ad aspetti esplicitamente etichettati come attinenti all’Open Science, alcuni dei principali problemi irrisolti.

Il Piano Nazionale per la Scienza Aperta: un documento-fantasma

Con delibera n. 74 del 2020 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale, serie generale, del 23 gennaio 2021) il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, su proposta del Ministero dell’Università e della Ricerca, ha approvato il Programma Nazionale della Ricerca 2021-2027. Tale programma preannuncia, con due estratti, il Piano Nazionale per le Infrastrutture di Ricerca (IR) e il Piano Nazionale per la Scienza Aperta. A distanza di quasi un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale mentre il piano infrastrutture è stato pubblicato il 20 ottobre 2021 del piano sulla scienza aperta si sono perse le tracce.

Il PNR prevede (p. 153) a proposito delle IR le seguenti principali azioni:

–  la creazione di una rete delle IR e la loro diffusione e conoscenza;

–  il rafforzamento delle politiche per l’accesso;

–  il riconoscimento delle IR quale strumento per l’attività di ricerca degli ambiti del PNR e per la partecipazione ai partenariati europei (ad esempio, EOSC e EuroHPC);

–  il ruolo delle IR nell’innovazione e nei rapporti con l’industria e lo sviluppo di Infrastrutture Tecnologiche (IT);

–  l’utilizzo delle IR nell’alta formazione;

–  le modalità di finanziamento.

Le IR sono strumentali allo sviluppo della scienza aperta.

Il PNR (p. 154) così si esprime in proposito:

“Con l’accesso aperto ai risultati (dati, articoli, standard, procedure, strumenti ecc.) e alle facilities dove svolgere e perfezionare la ricerca, le IR si impegnano a svolgere un ruolo rilevante nell’attuazione della strategia sulla scienza aperta promossa dalla Commissione Europea per migliorare la circolazione delle conoscenze e l’innovazione”.

Il Piano Nazionale per le Infrastrutture di Ricerca (IR) specifica (p. 8-9) quanto segue riprendendo quasi letteralmente l’estratto ora citato:

“Le IR sono e devono essere elemento fortemente attrattivo per i ricercatori di tutto il mondo, rappresentando il luogo fisico o virtuale aperto a tutti, per poter condurre ricerche d’avanguardia, sperimentare, crescere ed innovare. L’accesso offerto dalle IR con la possibilità di fruire di dati, attrezzature, servizi ed expertise diversi per condurre studi ed esperimenti scientifici ha un ruolo decisivo nel far avanzare le frontiere della conoscenza nei vari settori, con la creazione di saperi orientati a sfide sociali globali che mai come ora richiedono approcci e metodi innovativi.

Con l’accesso aperto ai risultati (dati, articoli, standard, procedure, strumenti ecc.) e alle facility, dove svolgere e perfezionare la ricerca, le IR si impegnano a svolgere un ruolo rilevante nell’attuazione della Strategia sulla Scienza Aperta promossa dalla Commissione europea per migliorare la circolazione delle conoscenze e l’innovazione”.

A proposito della Scienza Aperta nel PNR si legge (p. 156) quanto segue:

“Per “scienza aperta” si intende un nuovo paradigma per la creazione della conoscenza scientifica basato su trasparenza e cooperazione, capace di potenziare la ricerca e l’insegnamento scientifico. Esso promuove la condivisione di conoscenza rimuovendo le barriere create dalle gabbie editoriali e dai rigidi ambiti disciplinari. La scienza aperta accresce l’efficacia della collaborazione e la riproducibilità dei risultati della ricerca, la possibilità di riuso dei dati per nuove analisi anche di tipo interdisciplinare, nonché la fruibilità del sapere scientifico generando fiducia nel pubblico.

Per “accesso aperto” all’informazione scientifica si intende la possibilità di reperire in rete le pubblicazioni scientifiche, i dati e i metadati che li rendono fruibili, e ogni altro risultato della ricerca e dell’insegnamento scientifico, senza costi e senza barriere giuridiche e tecniche.

I principi della scienza aperta sono:

– la conoscenza come bene comune;

– la collaborazione e la solidarietà tra scienziati nonché tra scienziati e cittadini;

– la possibilità per tutti di accedere ai risultati della ricerca scientifica;

– la trasparenza del processo e dei contributi usati per la produzione e la validazione dei risultati scientifici;

– la disponibilità gratuita e con diritti di riuso, in rete, dei risultati della ricerca e dell’insegnamento;

– il rigore scientifico, la riproducibilità dei risultati sperimentali, la discussione critica dei dati, delle

informazioni e della conoscenza resi accessibili in rete”.

Il Piano Nazionale per la Scienza Aperta costituisce (p. 158) un documento programmatico che:

–  “concorre all’implementazione della scienza aperta come visione d’insieme con strategie specifiche per i singoli elementi, profondamente interconnessi, che debbono interagire per creare un ecosistema aperto (pubblicazioni, dati, strumenti di analisi, infrastrutture, valutazione, formazione);

–  assicura il coordinamento e la sinergia fra tutti gli attori coinvolti, ovvero il MUR, l’ANVUR, le infrastrutture di ricerca, gli enti di ricerca e gli atenei, impegnando gli attori del sistema su obiettivi chiari e misurabili;

–  definisce il ruolo che l’Italia deve giocare a livello europeo sul tema della scienza aperta e nel quadro dell’iniziativa EOSC, evidenziando le priorità e le specificità nazionali;

–  ottempera a quanto richiesto dalla Raccomandazione (UE) 2018/790 della Commissione Europea sull’accesso alla comunicazione scientifica e la sua conservazione in termini di coordinamento e strategia a livello nazionale sulla scienza aperta”.

Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vi è nella Missione 4 “istruzione e ricerca” il richiamo al Programma Nazionale della Ricerca in riferimento a un apposito fondo (p. 191), tuttavia manca qualsiasi accenno alla scienza aperta, mentre abbondano i richiami al trasferimento tecnologico (vero e proprio mantra della contemporaneità). Il dato sorprende, anche se letto nella logica asfittica che informa il documento: “dalla ricerca all’impresa” [M4C2]. Ammesso e non concesso che la ricerca finanziata con fondi pubblici serva solo a imprese e mercato, non si comprende la ragione dell’omissione della scienza aperta che avvantaggia tutti i cittadini e anche tutte le imprese.

Un paio di cenni all’Open Science si rinvengono curiosamente nelle Linee Guida del Ministero dell’Università e della Ricerca sul PNRR. In particolare, a proposito delle Infrastrutture di Ricerca e Infrastrutture tecnologiche di Innovazione quando si parla (p. 34) della quota di accesso alle infrastrutture si specifica:

“La quota di accesso destinata al sostegno alla scienza aperta e all’innovazione aperta sarà prevalente, pur offrendo opportunità sostanziali di accesso protetto a pagamento”.

Nell’era della pianificazione pervasiva, è in corso di elaborazione da parte del Ministero della Cultura anche il Piano Nazionale di Digitalizzazione del patrimonio culturale (PND).

Sul sito di riferimento si legge quanto segue:

“Il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND) è lo strumento per guidare il processo di cambiamento verso la trasformazione digitale degli istituti culturali nella digitalizzazione del patrimonio culturale e nella creazione di nuovi servizi.

In questa prospettiva, il PND facilita il governo dell’ecosistema digitale della cultura, nella consapevolezza che la digitalizzazione del patrimonio culturale è un progetto collettivo e non la sommatoria di azioni individuali.

L’obiettivo è inquadrare ogni azione degli istituti del territorio all’interno di un framework condiviso fatto di policy e regole comuni.

Il PND si configura come il dispositivo che individua principi comuni per affrontare problemi comuni ai diversi settori disciplinari; come ogni documento di pianificazione strategica deve inoltre saper cogliere i trend attuali che riguardano le tecnologie digitali per declinarli utilmente nel settore del patrimonio culturale. Così come deve prevedere degli strumenti di monitoraggio con delle chiare metriche per definire gli impatti delle attività di digitalizzazione”.  

Sarebbe auspicabile che tra Piano Nazionale della Scienza Aperta e PND ci fosse un coordinamento visto che l’accesso aperto al patrimonio culturale costituisce un aspetto rilevantissimo della scienza aperta. Sarebbe inoltre auspicabile che in questo coordinamento si tenesse conto della Raccomandazione della Commissione UE del 10 novembre 2021 sullo spazio europeo comune dei dati per il patrimonio culturale. In questa raccomandazione si leggono i seguenti principi-guida:

“15. Cultural heritage institutions should adhere to relevant standards and frameworks, such as those used by the Europeana initiative for sharing digital content and metadata, including the Europeana Data Model, RightsStatements.org, and the Europeana Publishing Framework, to achieve interoperability at European level. Member States should take the necessary measures to promote and facilitate the adherence to such existing and future standards and frameworks and collaborate at the European level to expand them in the context of the data space.

16. Member States should actively encourage cultural heritage institutions to make their digitised assets available through Europeana and thus contribute to the data space, in line with the standards and frameworks referred to in point 15 and with the indicative targets provided in Annexes I and II.

17. Contributions from cultural heritage institutions, referred to in point 16, should include, in particular, 3D digitised cultural heritage assets to promote European cultural jewels, enhance the potential reuse in important domains such as social sciences and humanities, sustainable cultural tourism, cultural and creative sectors, or help identify cultural goods that are illicitly trafficked.

18. Member States should ensure that, as a result of their policies, data resulting from publicly funded digitisation projects become and stay findable, accessible, interoperable and reusable (‘FAIR principles’) through digital infrastructures (including the data space) to accelerate data sharing.

19. All public funding for future digitisation projects of cultural heritage assets should be made conditional upon making digitised content available in Europeana and the data space, as referred to in point 16.

20. Member States should take all the necessary measures to support and raise awareness of Europeana among the general public and particularly in the education sector and schools, including through educational materials.

21. Member States should exploit the European federation of cloud-to-edge infrastructure and services in order to scale up the storage, management and access to digitised cultural heritage assets”.

La pandemia: conoscenza come bene privato o comune?

Si è scritto molte volte che la pandemia avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per accelerare lo sviluppo della scienza aperta anche attraverso la compressione della proprietà intellettuale. Meno proprietà intellettuale, più scienza aperta. Così non è stato.

L’esempio macroscopicamente più evidente è offerto dai vaccini anti-COVID-19. Le proposte volte alla condivisione globale di conoscenze e tecnologie alla base dei vaccini così come quelle di sospensione delle normative internazionali e nazionali sulla proprietà intellettuale segnano il passo. Vaccini, altri farmaci e dispositivi medici sono diventati strumenti di geopolitica al servizio delle logiche del dominio e del condizionamento.

In particolare, la proposta di India e Sudafrica di sospensione di parte dell’accordo TRIPS (l’accordo sui diritti di proprietà intellettuale nell’ambito del WTO), avanzata nell’ottobre 2020 e riformulata nel maggio 2021, che ha incontrato un vastissimo consenso (anche tra i cittadini europei), sarà discussa in seno al WTO per l’ennesima volta a fine novembre 2021. Ma sono esigue le speranze che tale discussione possa esitare in un voto favorevole alla sospensione. Un blocco di Paesi occidentali, con l’Unione Europea in testa, si oppone risolutamente.

Il problema non riguarda solo il diritto dell’emergenza, cui è ascrivibile, la proposta di sospensione dell’accordo TRIPS, ma anche (e soprattutto) la visione del futuro, cioè le riforme organiche del diritto che servirà ad affrontare i problemi di domani, comprese le prossime pandemie.

Nei documenti programmatici – v., ad es., il Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE del 25 novembre 2021 e le Linee di intervento strategiche sulla proprietà industriale per il triennio 2021-2023 del MISE del 23 giugno 2021 – e nelle ultime riforme – v.  ad es. la Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE e la sua attuazione in Italia – la ricetta dei decisori politici rimane la stessa: rafforzare la proprietà intellettuale.

Oligopoli più forti che mai. Due esempi: contratti trasformativi e piattaforme per l’interazione a distanza

Il sistema della comunicazione della scienza è saldamente nel controllo di pochi grandi editori commerciali e piattaforme Internet che praticano l’analisi di dati. Le infrastrutture di ogni anello della catena che porta dalla ricerca dei dati grezzi alla valutazione dei risultati sono in mano a grandi attori privati del mercato digitale.

Due esempi bastano a rendere l’idea: a) le infrastrutture per la comunicazione e per la valutazione delle pubblicazioni e b) le infrastrutture per l’interazione a distanza (convegni, seminari, didattica, riunioni).

a) Pubblicazioni scientifiche. Il sistema commerciale delle pubblicazioni digitali degli ultimi decenni si è basato prevalentemente su licenze di accesso e d’uso dei contenuti di grandi banche dati. Tali licenze sono normalmente stipulate da editori commerciali (ora imprese di analisi di dati) e consorzi di utenti (ad esempio, consorzi universitari come CRUI-CARE in Italia). Si tratta di contratti pluriennali a pacchetto (in gergo big deal). Tale sistema presenta una serie di gravi difetti: ingessa il mercato e alimenta il potere oligopolistico facendo crescere esponenzialmente i prezzi, sottrae il controllo fisico delle informazioni e dei dati alle biblioteche e agli utenti, consente alle imprese di praticare la sorveglianza di massa (i fruitori delle banche dati sono costantemente spiati secondo le consuete pratiche del capitalismo della sorveglianza), lega indissolubilmente le pubblicazioni scientifiche alla valutazione bibliometrica.

Per mettere fine a questo sistema malato servivano le seguenti riforme: comprimere la proprietà intellettuale degli intermediari commerciali, rafforzare il diritto d’autore dello scienziato mediante il riconoscimento di un diritto irrinunciabile e inalienabile di ripubblicazione in Open Access e azzerare o quantomeno ridurre il peso della valutazione bibliometrica. Queste riforme avrebbero consentito lo sviluppo di Open Access alle pubblicazioni scientifiche libero dal potere oligopolistico.

Invece, sta passando l’idea dei c.d. “contratti trasformativi”. Gli editori si impegnano – si noti che si tratta di un “impegno dello spirito” che non può trovare alcuna tutela giuridica – a trasformare gradualmente il proprio modello commerciale ad accesso chiuso in accesso aperto a pagamento per chi pubblica. Alla fine della trasformazione – non si sa quando – si pagherà solo per pubblicare, ma l’accesso del pubblico alle pubblicazioni sarà gratuito e con diritti di riuso. Nella fase di transizione gli editori continuano a commercializzare i consueti abbonamenti per l’accesso chiuso, ma lucrando – in base a varie formule commerciali – anche su complementari diritti di pubblicazione in accesso aperto. Il sistema presenta difetti non meno gravi di quello basato sui classici big deal per abbonamenti ad accesso chiuso: consolida il potere oligopolistico con effetti sia sui prezzi per accedere sia su quelli per pubblicare, mantiene la capacità di sorveglianza globale e il potere di valutazione bibliometrica, innesca nuove forme disuguaglianza e ingiustizia avvantaggiando chi ha il potere economico per comprare i diritti di pubblicazione in accesso aperto.

b) Interazione a distanza. Al di là di alcune lodevoli eccezioni, come la piattaforma GARR Meet e quella del Politecnico di Torino, durante la pandemia l’interazione a distanza (convegni, seminari, lezioni, riunioni) in Italia si è basata sull’uso di piattaforme proprietarie facenti capo alla galassia GAFAM o a nuove emergenti realtà imprenditoriali come Zoom. Nonostante numerosi studi abbiano messo in evidenza i rischi – innanzitutto in termini di violazione del diritto alla protezione dei dati personali – legati all’uso di tali piattaforme, non esiste un “piano” o semplicemente un’azione per restituire al settore pubblico il controllo delle infrastrutture per l’interazione a distanza.

Conclusioni

In Italia ci sono tre priorità nello sviluppo della scienza aperta, intesa come scienza pubblica e democratica.

1) Creare infrastrutture pubbliche e aperte per sottrarre la scienza agli oligopoli commerciali. Ciò vale, in particolare, per il software, per le pubblicazioni, per i dati della ricerca, per le piattaforme per l’interazione a distanza, per le invenzioni come farmaci e dispositivi medici essenziali.

2) Smantellare il sistema basato su agenzie ministeriali come l’ANVUR che svolgono una valutazione amministrativa verticistica basata su algoritmi e metriche proprietarie.

3) Riformare organicamente le leggi sulla proprietà intellettuale allo scopo di sfoltire e comprimere le esclusive nonché, specularmente, di estendere il pubblico dominio. Non si tratta tanto di creare zone franche per la scienza istituzionale, quanto di eliminare o restringere diritti di proprietà intellettuale, restituendo a tutti i cittadini gli spazi di libertà via via sottratti.

Si noti che i tre punti sono strettamente connessi. In particolare, la creazione di infrastrutture del settore pubblico è garanzia di libertà solo se lo stesso settore pubblico non opera in base a una valutazione amministrativa verticistica, cioè solo se non opera autoritariamente. D’altra parte, il solo intervento sulla proprietà intellettuale non può da solo distruggere gli oligopoli se non si interviene sulla valutazione.

In ogni caso, nessuno dei tre punti rientra nell’agenda politica dello Stato italiano. Non in quella del Governo, non in quella parlamentare. Manca un efficace coordinamento delle azioni portate avanti dalle singole istituzioni. Mancano persino dati e numeri affidabili sullo stato di avanzamento della scienza aperta. Ad es., sono poche le università che pubblicano relazioni sui progressi in termini di attuazione della scienza aperta (per alcune eccezioni v. qui e qui).

Insomma, la discussione politica sulla scienza aperta in Italia suona come altri e più noti dibattiti: un triste (o sinistro) “bla bla bla”, un (inquietante) rumore di fondo che copre scelte molto nette e precise di accentramento del controllo e di privatizzazione della scienza.

Gli unici progressi che si registrano nel nostro Paese sono dovuti alla buona volontà di singoli ricercatori, piccoli gruppi e poche istituzioni – università, enti e istituti di ricerca – che si districano negli angusti spazi di libertà dell’attuale ecosistema provando a tenere accesa la speranza di una scienza realmente aperta.


[1] L’autore è presidente dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) ed è stato componente del gruppo di esperti che ha contribuito alla redazione del Piano Nazionale per la Scienza Aperta previsto dal Programma Nazionale della Ricerca 2021-2027.